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domenica 29 maggio 2011

Mafia e politica: il ricordo di Giovanni Falcone. Le ipocrisie del governo PDFStampaE-mail
di Roberto Morrione - da articolo21.org
Esattamente un anno fa Roberto Morrione che oggi ha ricevuto l'abbraccio dei parenti, degli amici e dei colleghi, scriveva un articolo in occasione del 18° anniversario dell'assassinio di Giovanni Falcone.



Ripubblicarlo ci sembra il modo migliore per tenere vivo il ricordo del magistrato siciliano attraverso un giornalista che, come pochi altri, ha combattuto una battaglia a schiena dritta per la legalità.
Da 18 anni, il 23 maggio,il grande albero davanti a casa Falcone a Palermo si riempie di messaggi rivolti all’uomo che, insieme con Paolo Borsellino, più rappresenta nell’immaginario degli italiani il sacrificio di chi è morto in nome dello Stato per difendere la democrazia dal potere criminale. La strage di Capaci, come due mesi dopo quella di Via D’Amelio, sono al centro di cerimonie, testimonianze, manifestazioni sincere e commosse di tanti giovani e giovanissimi, chiamati a conoscere e a non dimenticare da associazioni civili, magistrati, forze di polizia, amministratori pubblici, artisti, operatori dell’informazione. Come è giusto nei confronti di chi ha dedicato la propria vita, fino a perderla, per cercare di costruire un’Italia pulita, omaggio di chi cerca ogni giorno di tenere viva la memoria di quegli uomini, caduti insieme con le loro generose scorte per difendere la libertà e l’eguaglianza sancite dalla Costituzione. Dopo le cerimonie molti ritorneranno nelle scuole, nei municipi, nelle assemblee elettive grandi e piccole, nelle strade delle città e nei territori ancora dominati dal sistema mafioso e dagli interessi di varia natura che lo sorreggono, per continuare a combattere la stessa guerra un po’ più ricchi dentro, più consapevoli. Quella data è dunque un’icona, che è però intrisa anche di ufficialità governativa pseudo-istituzionale, dell’effimera presenza di personalità oggi al potere che con quelle battaglie non hanno alcunché da spartire, che a quegli ideali non credono. Nella disattenzione o nella voluta indifferenza dei giornali e dei notiziari radiotelevisivi aggregati al circo mediatico di Palazzo Chigi, le frasi retoriche pronunciate dinanzi a una lapide saranno rapidamente rimpiazzate da corposi interessi , volti a proteggere in Parlamento e nel Paese un sistema di affari illeciti, di corruzione, di privilegi, un sottopotere privo di regole e di etica, demolendo proprio alcuni dei pilastri di quella Costituzione per la quale Giovanni Falcone e con lui tanti veri servitori dello Stato furono massacrati.

Dobbiamo dirlo con forza, per onestà morale verso chi è caduto per mano mafiosa e per rispetto ai tanti concittadini che alla nostra Costituzione non intendono rinunciare. Quelle frasi di circostanza, frammiste artatamente a tante sincere e in buona fede, non si possono conciliare con il dilagare delle mafie, con l’espansione nel centro-nord e nel mondo di interessi finanziari di origine criminale che le positive operazioni di magistrati e investigatori non possono intaccare. Nè con le leggi “ad personam” d’impronta incostituzionale a protezione dei guai giudiziari del premier, né tanto meno con il disegno di legge sulle intercettazioni portato avanti a ogni costo dal governo, fino a sedute notturne della commissione Giustizia in un Parlamento privo di lavoro legislativo, paralizzato dall’incuria di un Esecutivo volto solo all’obiettivo di limitare pesantemente l’autonomia giudiziaria dei PM contro il crimine, in prima linea quello mafioso e il diritto-dovere della libertà di stampa a tutela della sicurezza dei cittadini, del loro diritto a conoscere tutti gli aspetti della realtà in cui vivono. Possono essere credibili, nel ricordo di Giovanni Falcone, i rappresentanti di un governo che ha al suo interno un sottosegretario di cui è stato inutilmente chiesto l’arresto per documentate complicità con clan della camorra o che nonha sciolto il Comune di Fondi dominato dalle mafie, come richiesto dal Prefetto (peraltro poi rimosso) o che ha dato il via a uno scudo fiscale senza reali controlli della provenienza di capitali illegali portati all’estero? Né possono essere ignorate le ripetute invettive del premier contro le Procure che tengono accese le luci sulle stragi degli anni ‘90 e sull’oscura trattativa che avvolse allora i capi di Cosa Nostra e settori deviati dello Stato, né gli attacchi che di tanto in tanto, come una sorta di “moto dell’anima”, rivolge agli intellettuali che scrivono o realizzano prodotti televisivi sulla mafia, a partire da Roberto Saviano. Di fronte, ironia del destino, proprio alle fiction su Falcone e Borsellino realizzate da Mediaset, come gli ricordò sarcasticamente Michele Placido, protagonista della vituperata “Piovra”…E cosa fa infine il governo di fronte all’intensificarsi di rivelazioni ed indizi che confermano la non casuale né accessoria presenza di mani e menti dei servizi segreti in oscure vicende, a partire dal fallito attentato dell’Addaura, che sfociarono nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio ? E’ certo un pensiero maligno, ma alcune ipocrite commemorazioni ricordano un po’ ciò che accadeva dopo delitti di mafia nella sanguinosa guerra che ha seminato di morti la Sicilia e altre regioni del Sud, quando – e ci sono su questo precise testimonianze – fra le prime telefonate di cordoglio c’era immancabilmente quella del mandante.
A volte mi chiedo cosa avrebbe fatto Giovanni Falcone con il suo genio investigativo, la sua capacità organizzativa, la sua conoscenza di uomini e cose, se non fosse stato dilaniato a Capaci con la moglie e gli agenti di scorta. Come avrebbe portato avanti, nonostante le ostilità, i pregiudizi, le diffamazioni, le gelosie corporative di cui fu costantemente vittima, quella riforma che , in pochi mesi e dopo lo straordinario smantellamento dell’impero di Cosa Nostra al maxi-processo di Palermo, portò alla Procura Nazionale Antimafia, alle Procure Distrettuali, alla decisione dello scioglimento dei comuni infiltrati, a norme sul riciclaggio, ai primi accordi di cooperazione internazionale contro il crimine organizzato…E con quali strumenti giuridici avrebbe reagito alla crescente deriva etica, cioè al dilagare della corruzione che oggi avvelena l’Italia e in cui le mafie in doppio petto e colletto bianco nuotano a proprio agio…Domande evidentemente illusorie, un po’ come chiedersi cosa sarebbe avvenuto in Europa se Napoleone avesse vinto a Waterloo o Che Guevara avesse fatto la rivoluzione in Bolivia, ma forse non prive di senso, anche se la Storia è andata in un’altra direzione. Resta infatti la realtà del tanto che ha saputo seminare e di cui tutti noi abbiamo oggi e avremo presto ancora di più un grande bisogno: la voglia di libertà, l’onestà intellettuale, la capacità di respingere ogni ipocrisia. Così scriveva Giovanni Falcone insieme con Marcelle Padovani in “Cose di Cosa Nostra”, sei mesi prima di morire: «Non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa Nostra - per un’evidente convergenza di interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi».


 

giovedì 26 maggio 2011

Il y a deux ans, le pilonnage de Gaza
Plus jamais ça
Il y a deux ans, le 27 décembre 2008, nous parvenaient les premières images insoutenables de corps déchiquetés par le pilonnage de bombes lâchées sur la population de Gaza qu’Israël avait préalablement emprisonnée, ne lui laissant aucune échappatoire.
Policiers palestiniens exécutés par les pilotes de l’armée israélienne, le 27 décembre 2008 à Gaza
Submergée par l’émotion, la présentatrice ne parvenait pas à retenir ses larmes à la vue de ce carnage.
Cela n’était qu’un début. L’armée israélienne allait continuer de larguer des bombes sur Gaza, ôtant la vie à près de 1500 Palestiniens, hommes, femmes et enfants.
Ce carnage annoncé était approuvé par 95 % des Israéliens, inscrits de fait dans le projet sioniste de destruction de la Palestine. Un projet mis en œuvre en 1948 avec l’épuration ethnique des trois quarts des Palestiniens et qui se poursuit depuis, tantôt à grand feu, tantôt à petit feu.
Aujourd’hui, les tambours de guerre israéliens résonnent à nouveau. L’avertissement de l’historien Ilan Pappé devrait faire réagir nos autorités et mobiliser chacun :
« Il est temps pour tous ceux qui ont protesté d’une voix puissante et efficace après le massacre de Gaza il y a deux ans, qu’ils le fassent maintenant et tentent de prévenir la prochaine guerre. (…) Ce dont nous avons besoin maintenant, c’est que l’énergie - honorable mais totalement futile - investie par le camp de la paix israélien et ses soutiens en Occident dans des concepts de « coexistence » et des projets de « dialogue », soit réinvestie avant qu’il ne soit trop tard dans une tentative d’empêcher un autre chapitre génocidaire dans l’histoire de la guerre d’Israël contre les Palestiniens. » [1]
Silvia Cattori
GAZA ASSEDIATA: LA TESTIMONIANZA DI UN CHIRURGO
Postato il Mercoledì, 25 maggio @ 21:35:00 CDT di marcoc
Israele / Palestina DI SILVIA CATTORI E CHRISTOPHE OBERLIN
silviacattori.net

Intervista con il professor Christophe Oberlin

"Cronache di Gaza 2001-2011" è uno di quei libri scioccanti che non lasciano indifferenti. In un susseguirsi di capitoli molto brevi, l'autore, il chirurgo francese Christophe Oberlin, rivela a poco a poco, con un linguaggio semplice e sobrio, la commovente umanità di un popolo e il coraggio con cui affronta l'assedio imposto dall'occupazione coloniale di Israele con la vile complicità della comunità internazionale e dei nostri principali mezzi d’informazione. Nessuna retorica, ma un ripetersi di fatti e di esperienze a contatto con le persone oggetto di violenza per rivelarci la loro terribile realtà quotidiana. Christophe Oberlin risponde alle domande di Silvia Cattori.

Silvia Cattori: Il suo racconto è molto coinvolgente [1]. Ci fa entrare nella quotidianità di queste famiglie sotto assedio, sottoposte a difficoltà di ogni genere, in grado di sopravvivere e di ricostruire con uno sguardo al futuro, qualsiasi Israele faccia loro. Sappiamo che non appena lei è arrivato a Gaza nel dicembre 2001, è rimasto incredulo di fronte agli aerei dell'esercito israeliano che volavano a bassa quota oltre la la barriera del suono, che sganciavano bombe sulla popolazione inerme. Sono passati dieci anni da questo primo contatto con la violenza, cosa è cambiato nel suo punto di vista?

Christophe Oberlin: Ciò che è cambiato è che oggi faccio una correlazione tra quello che vedo qui a Gaza e quello che ci dicono i nostri media e i nostri politici. Il loro modo con cui presentano i fatti corrisponde raramente a quello che vedo io. Tutto ciò mi ha irritato e poi ho disdetto l’abbonamento a certi giornali. Ho smesso di leggere e di ascoltare le informazioni alla radio e alla televisione. Preferisco l'informazione di qualità attraverso altre fonti.

Silvia Cattori: Capiamo che il chirurgo, venuto a Gaza per salvare vite umane, quasi subito si è trovato di fronte a tanti corpi mutilati e questo l'ha portato a riflettere sullo sfondo politico di tutto questo spargimento di sangue. Testimoniare ciò che lei ha visto, correggere l'informazione parziale dei nostri imedia non era forse un modo per rendere giustizia e restituire dignità a questo popolo?

Christophe Oberlin: È molto chiaro, è per questo che da anni reagisco, scrivo piccole testimonianze e accetto di tenere delle conferenze. Per decenni sono andato in altri paesi a lavorare senza mai sentire il bisogno di esprimermi. Ma quando si scopre che gli eventi vissuti vengono totalmente distorti, allora mi arrabbio. Dopo l'aggressione israeliana del 2008-2009 sono stato invitato in una trasmissione televisiva di France 24 per parlare della mia esperienza a Gaza. La trasmissione era intitolata: “Ci sono stati crimini di guerra a Gaza?” La domanda era del tutto fuori luogo e portava a domandarsi se i morti e i feriti erano combattenti oppure no. Essendo sul posto ho potuto vedere che c’erano esclusivamente civili e intere famiglie. Questa è disinformazione che ci porta inevitabilmente a prendere la parola per dire quello che realmente è accaduto. È chiaro che per i mezzi di comunicazione la censura è la regola, un’autocensura e non sono interessati a quello che dicono o scrivono i testimoni.

Silvia Cattori: Nelle sue pagine incontriamo personaggi strazianti, come il chirurgo Fayez. Siamo sconvolti dal vedere, attraverso il suo percorso, che questo popolo costantemente perseguitato, non ha comunque odio o risentimento contro i suoi oppressori. È sorprendentemente ottimista; secondo lei, da dove trae la forza per mantenere questa straordinaria vitalità e umanità?

Christophe Oberlin: Credo che questo faccia parte delle caratteristiche dell’umanità. Tutti coloro che hanno vissuto all'inferno ci raccontano cose simili. Primo Levi ce ne dà un esempio. Ognuno di noi ha una capacità di resistenza assolutamente straordinaria che si manifesta in condizioni estreme. Non è una particolarità di Gaza. A mio parere non ci sono popolazioni che resistono più di altre. Ma è pure vero che la forza e la resistenza testimoniata dalla gente di Gaza è ammirevole. A proposito di Fayez, mi ricordo una mattina quando era molto avvilito e mi ha detto di sfuggita: “Ho passato una brutta notte. Mia cognata è morta per un tumore al seno. Non sapevo come dirlo a mia moglie."
Nei nostri paesi dell'Occidente abbiamo i mezzi per individuare questi tumori e per salvare la maggior parte dei pazienti. A Gaza no. La semplicità con cui queste persone assediate vi parlano della loro quotidianità, ancora più atroce a causa delle malattie che non possono curare, è una lezione per tutti noi.

Silvia Cattori: Con quali postumi usciranno da questa situazione, in special modo i bambini?

Christophe Oberlin: Possiamo essere sorpresi dal fatto che non ci sia un numero più alto di persone che perde la ragione. Ho parlato con Maryvonne Bargues, un medico psichiatra che per anni ha fatto un ottimo lavoro con le famiglie che vivono nelle difficoltà, ammucchiate in dieci metri quadrati, con i bambini che hanno genitori gravemente feriti o uccisi. Il risultato è incredibile. Nonostante le condizioni di vita terribili, ci sono recuperi psicologici sorprendenti. Se oggi andate a piedi per le strade di Gaza, alla fine di una settimana di bombardamenti che hanno causato morti e feriti, avrete l’impressione di una popolazione che vive in pace.

Silvia Cattori: La sua descrizione delle personalità di Hamas che ha conosciuto sono molto positive. Sappiamo che ha stabilito rapporti di fiducia reciproca con queste persone che, malgrado le tragedie che hanno vissuto, sono rimasti pienamente umani. Il ritratto che lei fa del chirurgo e leader politico, Mahmoud Khalid Al-Zaha, ad esempio, è impressionante. Questo contrasta nettamente con l’immagine grezza, a volte pessima, che ci viene costantemente trasmessa. Vedendo la caricatura che ne fanno i giornalisti che, come te, hanno avuto la possibilità di incontrarli, cosa che l'ha ispirata?

Christophe Oberlin: Ero e rimango sconcertato. In realtà si dovrebbe sapere che i pochi giornalisti occidentali che si recano a Gaza hanno necessariamente l'accredito delle autorità israeliane. Per me il criterio per l'accreditamento [2] è chiaro: i giornalisti accreditati sono quelli che assicurano agli israeliani di denigrare tutto ciò che fa Hamas. Detto questo, ho avuto l’occasione di osservarli di nuovo. Non ho mai visto a tutt'oggi un giornalista, autorizzato a entrare a Gaza attraverso il valico di Erez, scrivere un articolo descrivendo con oggettività quello che è stato realizzato sotto l'amministrazione di Hamas.

Silvia Cattori: Questo costringe a interrogarci sui pregiudizi di questi ideologi che, dall'interno del movimento di solidarietà e non gradendo i 'barbuti', hanno privilegiato il campo dei 'laici', di questa Autorità Palestinese moderata che loro ritengono essere l'unica rappresentante legittima del popolo palestinese [3]. Le hanno rivolto rimproveri e le hanno chiesto spiegazioni sulla Carta di Hamas, che loro descrivono come antisemita [4]?

Christophe Oberlin: Purtroppo le cose non mi vengono riferite di persona. Mi dispiace perché è più interessante cercare di convincere coloro che non la pensano come te! Molto semplicemente, quelli che non sono d'accordo con quello che dico o scrivo, non mi invitano. All'interno del movimento di solidarietà, il modo di contrastare coloro che riferiscono cose positive sulla gestione politica di Hamas è quello di emarginarli. In fin dei conti, a loro volta il modo di comportarsi non è molto diverso da quello tenuto dai media.
uttavia sono regolarmente invitato a tenere conferenze in provincia. Qui gli attivisti hanno una certa indipendenza da Parigi, il quartier generale del movimento. Mi fanno presente che mi invitano perché sono interessati a conoscere tutti i punti di vista, pur sapendo che i loro dirigenti non mi apprezzano. Attraverso questi incontri pubblici mi rendo conto che, quando gli vengono descritti i fatti e vi sentono di buona fede, allora vi credono. Nelle "Cronache di Gaza" racconto solamente i fatti per quello che sono, le scene che ho vissuto con il minimo di valutazioni personali. Penso che i fatti parlino da soli, a ognuno spetta trarne le conclusioni.

Sulla Carta di Hamas. Io non ho cercato di diventare un esperto in materia, ma si scopre che, dal 2001, dopo ogni mio ritorno da Gaza, mi è stato chiesto di parlare di quello che accade. Da una conferenza all’ altra mi fanno ulteriori domande e questo ti costringe ad approfondire le conoscenze. Mi ha portato a chiedere ai miei interlocutori a Gaza una spiegazione sulla questione della Carta di Hamas, alcune parti della quale aspetti sono da noi a giusto titolo considerati inaccettabili. Mi è stato risposto che questa Carta, che risale al 1988, è stata scritta da alcune persone. Che Hamas da allora è diventato un partito politico e che dal 2006, ad ogni scadenza elettorale, è stato stilato un programma che poteva essere consultato. E che, di conseguenza, quella Carta non aveva più valore.

Detto questo vorrei dare maggior spazio al dibattito. Questo modo di riferirsi sempre all'accusa di antisemitismo, che permette di lanciare subito un'anatema su tutto ciò che si riferisce alla Palestina dopo aver sentito una frase o una parola che disturba. Questo è un procedimento molto sleale se si tiene conto del fatto che i palestinesi, che hanno intere famiglie decimate dagli ebrei e che poi sono stati costretti ad abbandonare le loro case nel 1948, hanno perso tutto. In Occidente, non appena si pronuncia la parola "ebreo" le orecchie si drizzano [5].
Comunque è stato nel nome del giudaismo, della coscienza ebraica che è stato creato uno stato ebraico. Ed è in nome di uno Stato che si proclama ebraico che le Autorità israeliane perseguitano tutto ciò che non è ebreo. Quindi, chiedere ai palestinesi che sono stati colpiti nella loro carne, di non dire di non amare i loro oppressori è un po’ troppo.
Ci possono anche essere delle 'perdite di controllo' slittamenti", ma è qualcosa che, a mio parere, è del tutto veniale dopo tutto quello che hanno subito. È insensato rimproverare questo popolo che è oppresso in nome dello stato ebraico il chiamare 'ebreo' il suo oppressore. Il reato di antisemitismo, che viene cercato in ogni situazione, è qualcosa di profondamente ingiusto.

Silvia Cattori: Lei descrive con rara obiettività le circostanze che nel giugno del 2007 hanno portato Hamas a intervenire contro i mercenari di Al Fatah, finanziati e armati dagli Stati Uniti in accordo con Israele, per sventare il piano segreto che doveva portare alla loro liquidazione.
Anche in questo caso esiste un divario tra ciò che ha visto e quello che gli 'inviati speciali', accreditati da Israele o dai partigiani di Al Fatah, hanno riferito [6]. Tutte le prove erano state messe sul tavolo, ma i giornalisti dei media di regime hanno continuato a ignorarle. Sentire addossare la violenza alle forze di Hamas, e non al progetto criminale di Al Fatah, dovrebbe far crescere un sentimento di rabbia nella stragrande maggioranza dei palestinesi che non collaborano con l'occupante. A cosa servono queste menzogne, se non a legittimare il proseguimento delle offensive militari israeliane contro Hamas e mantenere al potere dell'Autorità Palestinese?

Christophe Oberlin: È una storia penosa. Ma è anche una storia che si ripete. Per quanto riguarda la guerra d'indipendenza algerina, ad esempio, la resistenza ha ricevuto un forte sostegno da una parte della sinistra, compresi i comunisti ma, quando poi era sembrato che l'Algeria indipendente non stesse passando nel campo socialista, c’è stato un certo numero di defezioni. Sono sempre gli stessi che, in Algeria nel 1992, hanno sostenuto quella che viene eufemisticamente chiamata "l'interruzione del processo elettorale", in realtà un colpo di stato militare appoggiato dall'Occidente che ha provocato una guerra civile con 100.000 morti. Immediatamente dopo la vittoria elettorale di Hamas, si è verificato lo stesso fenomeno. Mi ricordo di un editoriale scritto da un noto sionista intitolato: "Hamas, il nemico comune". Nel corso dell’ultima celebrazione della festa dell’umanità, sono stato avvicinato da un attivista che avrebbe sostenuto un'associazione di piccole imprese a Gaza "solo nel caso si rimanga in un contesto laico".

Andare in giro parlare di laicità in un paese dove il 95% della popolazione ha dei sentimenti religiosi è completamente irragionevole. Bisogna sapere se vogliamo aiutare una causa perché ne vale la pena o perché vogliamo imporre un modello. È successo che alcuni attivisti, che volevano invitarmi a parlare del mio libro, si sono scontrati all'interno del loro comitato con i 'laici' che non vogliono assolutamente sentir parlare di Hamas.
Disprezzare Hamas è come disprezzare la popolazione che lo ha eletto. Gaza oggi è inseparabile dal voto dato a Hamas. E limitarsi a parlare della Cisgiordania è come passare dalla parte americano-israeliana che sostiene in modo rigido l'Autorità palestinese... quando poi sappiamo che se ci fossero elezioni libere anche in Cisgiordania sarebbe molto probabile una vittoria di Hamas.

Silvia Cattori: Il capitolo del suo libro intitolato "Sara" è molto forte. Sono rimasta sbalordita. Riuniti alla veglia funebre di una vecchia signora che si rivela essere la madre di Mohammed Dahlan [7], gli alti dirigenti di Hamas dialogano cortesemente con i partigiani di Al Fatah. Questi episodi sorprendono, questa mancanza di animosità da parte dei dirigenti di Hamas, i cui militanti sono stati torturati dalle forze di sicurezza di Al Fatah e incarcerati nelle prigioni della Cisgiordania, lasciano presagire che un domani, nonostante i tradimenti, la riconciliazione sia possibile?

Christophe Oberlin: Spesso ho assistito a scene di questo tipo. Mi è capitato di trovarmi in una famiglia dove erano radunati allo stesso tavolo membri di Hamas e un loro cugino medico pagato dai dirigenti di Al Fatah a condizione di non lavorare [8]. Sono rimasto stupito dell'atmosfera che regnava. Si davano solo piccole frecciatine, non c'era cattiveria. Tutto veniva detto in modo divertente. Questa fratellanza tra i palestinesi l’avevo notata prima dello scrutinio che ha portato Hamas al potere. Questo continua ancora oggi. Io credo che la riconciliazione sia possibile. Non ci sono rivendicazioni tra Al Fatah e Hamas. Si tratta di un litigio tra i dirigenti. L'Autorità Palestinese non rappresenta neanche più la base di Al Fatah. Si tratta di un falso litigio. In termini di elettori, non c'è animosità tra Hamas e Al Fatah. Se le elezioni erano organizzate in condizioni elettorali normali. si sarebbero svolte in modo pacifico anche nel 2006.

Silvia Cattori: Ancora una volta non si può non pensare che Israele non sarebbe potuto andare così lontano se gli ideologi che dettano la linea politica all'interno del movimento di solidarietà, invece di sostenere Al Fatah e coloro che hanno optato per la collaborazione con l'occupante, avessero chiaramente sostenuto il campo delle forze, come quelle di Hamas, che hanno rifiutato questo percorso e hanno continuato a rivendicare il diritto dei Palestinesi a resistere all'occupazione. Questa strana commistione non ha reso il compito più facile per Israele e prolungato la sofferenza del popolo palestinese?

Christophe Oberlin: Certo che hanno reso il compito più facile per Israele. Detto questo, non credo che avremmo potuto contenere l'escalation di violenza alla quale stiamo assistendo. Quando vediamo quello che sta accadendo oggi, che arriva - e tutto mi porta a pensarlo - sino all'assassinio deliberato di stranieri [9], quando mettiamo questi fatti in parallelo con quello che i palestinesi subiscono dall'inizio della colonizzazione ebraica in Palestina, temo che il progetto sionista dovrà necessariamente far uso di tutta questa violenza, e poi ancora più violenza e questo per sempre.

Silvia Cattori: In sintesi, l'elezione di Hamas nel 2006 fu, per molti aspetti, un momento di verità che ha contribuito a rivelare i compromessi irrisolti, anche per quanto riguarda le ONG. Tu racconti di essere stato escluso da due principali ONG francesi che non protestano mai pubblicamente quando le loro équipe mediche sono esposte a umiliazioni e vessazioni da parte delle autorità israeliane. Possiamo conoscere i nomi di queste ONG e quali pretesti sono stati invocati per privarti del loro finanziamento?

Christophe Oberlin: Si tratta in ogni caso di ONG che fanno un buon lavoro: Médecins du monde e Aide Médicale Internationale. Sono organizzazioni di grandi dimensioni che, almeno nel primo caso, coinvolgono governi importanti. Ci sono problemi di una certa rilevanza. Per accedere alla carica di presidente, ai posti di alta responsabilità, i candidati devono essere disposti a accettare ogni sorta di compromesso.
I loro superiori non vogliono sentire lamentele dalle loro équipe. Io rispetto questa posizione ma in Palestina, dove i medici subiscono ogni giorno vessazioni e umiliazioni da parte delle autorità israeliane, non accetto di stare zitto. Ci sono casi in cui è imperativo reagire.

Ci sono stati incidenti segnalati e adeguatamente documentati ma l’ONG Médecins du monde ha rifiutato di protestare. Ad esempio, a un posto di blocco israeliano, uno dei miei colleghi che era in ambulanza con un ferito, è stato oggetto di spari d’arma da fuoco poco prima dell’autorizzazione all'ingresso. Un altro esempio, quando al nostro arrivo all'aeroporto Ben Gurion, la polizia di confine ha sequestrato alcune attrezzature mediche essenziali e molto costose che stavamo trasportando a Gaza, o anche quando ci è stato chiesto di pagare una tassa sui prodotti di lusso, una cosa illegale, dato che si stava parlando di attrezzature mediche per scopi umanitari. Oppure quando i membri delle nostre équipe sono stati umiliati, molestati e bloccati non appena si sono identificati con un cognome arabo. Mai una protesta.

Silvia Cattori: Lei rivela che, già nelle prime ore dell'offensiva israeliana nel 2008, colpiti dalla carneficina, i chirurghi dei paesi arabi e musulmani, tra cui una sessantina egiziani, si precipitarono a Gaza entrando attraverso i tunnel e si misero subito a operare. Nel suo libro lei dice: "Sono stato molto colpito dalla bravura e dall'efficienza con cui hanno operato i feriti gravi e il ruolo straordinario che questi medici anonimi hanno svolto". Lei li definisce "umanitari senza i riflettori". È la discreta e incondizionata solidarietà che contrasta con la pesantezza delle nostre ONG, come si concilia con la sua speranza?

Christophe Oberlin: Assolutamente. Ha dato l'impressione di una forza straordinaria poter vedere tutti questi chirurghi altamente qualificati, che sono corsi a Gaza solo perché sono stati chiamati dai loro colleghi e hanno dichiarato di rimanere "fino a quando ce ne sarà bisogno". È allora che ho pensato che la successione di Mubarak in Egitto era dietro l'angolo.

Silvia Cattori: Nel capitolo del suo libro intitolato “Scagliarsi contro l'umanitario", lei aferma una cosa molto inquietante: sente il cappio stringersi [10]. Vuol dire che le autorità israeliane le impongono condizioni più severe, cercando di rendere sempre più difficile ottenere il permesso per entrare in Palestina. Pensa che potranno privare la popolazione di Gaza di un qualsiasi tipo di assistenza medica [11]? Quali azioni si auspica per impedirglielo?

Christophe Oberlin: I recenti omicidi dell’attivista italiano Vittorio Arrigoni a Gaza e dell’attore israelo-palestinese Juliano Mer Khamis a Hebron [12] mi hanno colpito. Dietro queste uccisioni non ci si può impedire di pensare alla mano di Israele. Quale modo migliore per demonizzare i palestinesi e per rompere il sostegno dell'opinione pubblica internazionale che uccidere due figure carismatiche tra i volontari, e far addossare ai palestinesi la colpa di un crimine di cui non sono responsabili? Tutto questo è spaventoso. C'è un'escalation che può permettere a Israele di provocare in tutto il mondo un sentimento di disgusto verso Hamas. E tutti abbiamo detto, "Potrei essere io il prossimo".
Questa non è la prima volta che una decisione viene presa al più alto livello dello Stato di Israele per assassinare persone che provengono dall'estero. Ci sono stati giornalisti assassinati [13], altri presi di mira come Jacques-Marie Bourget [14]. C'è stato l'attacco alla marina israeliana contro la Freedom Flotilla nel maggio del 2010, che ha ucciso nove umanitari. Un monumento alla loro memoria è stato eretto sul porto di Gaza.

Temo di vedere un segno dell'irrigidimento israeliano che adesso può arrivare fino all'organizzazione di assassini mirati per poi farli passare per omicidi commessi da Hamas. Si può anche pensare che sia una reazione scomposta di un potere che viene messo sotto pressione dai movimenti di protesta su cui ha perso il controllo.

Silvia Cattori: In questi anni tragici, ha visto scene di una crudeltà insopportabile. Lei era lì quando i soldati israeliani hanno deliberatamente sparato sul corpo di un giovane cameraman palestinese che era a terra [15]. Cosa ha provato quando si è trovato di fronte questo giovane paziente a cui erano state appena amputate le gambe?

Christophe Oberlin: Io sopporto di vedere persone ferite gravemente in sala operatoria, ma vedere la violenza al di fuori di questo quadro, anche nei film, è per me qualcosa di insopportabile. Quando ho visto Mohammed Ghanem in ospedale, non ero solo disgustato dal sadismo del soldato che aveva sparato una mezza dozzina di pallottole sul cameraman che stava sul pavimento (è stato tutto filmato da parte dei media arabi che erano lì), mi stavo anche vergognando perché sapevo che non ci sarebbe stata alcuna inchiesta o alcuna sanzione.

Per oltre quindici anni ho fatto il medico di guardia nel reparto di traumatologia grave. Sono specialista nella riparazione di gravi traumi, nella microchirurgia dei vasi e dei nervi; nelle sale operatorie ho ricevuto persone che hanno tentato il suicidio gettandosi sotto la metropolitana. Quando vediamo un uomo con ferite terribili in sala operatoria, dobbiamo per forza compatire. Ma siamo occupati nella riflessione, per decidere quali provvedimenti prendere. Per arrestare l'emorragia e salvare la vita del paziente. Per vedere cosa possiamo fare per preservarne le funzioni. E infine l'intervento chirurgico. Le operazioni sono molto lunghe e bisogna fermarsi di operare perché se il paziente non sta bene, bisogna rinunciare alla ricostruzione e quindi occorre l’amputazione. Questo fa parte della formazione chirurgica. Questi sono concetti che ho imparato.

Quando vediamo arrivare queste persone gravemente ferite, ci si concentra sul loro ricovero. Durante l'aggressione israeliana nel 2009, ho visto chirurghi palestinesi che non ne potevano più, li ho visti crollare, accasciarsi, ma tutto questo accadeva al di fuori della sala operatoria. In caso di emergenza, tutti lavoriamo bene, senza panico e è anche una lezione per noi. Ma ci sono situazioni, scene che ti segnano in modo indelebile, come segnano anche i palestinesi. Sono loro che rafforzano la resistenza.





Christophe Oberlin, un chirurgo specializzato in chirurgia e microchirurgia della mano. Responsabile delle missioni di chirurgia riparatrice di paralisi tra i palestinesi feriti nel dicembre 2001. Professore di università. Un centinaio di pubblicazioni, due libri tradotti in inglese e cinese. Responsabile di due diplomi di università.

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Note:

[1] "Gaza Chronicles 2001-2011" di Christophe Oberlin, Edizioni Mezza Luna, 2011. Il suo primo libro, "Sopravvivere a Gaza", biografia di Mohamed al-Rantissi, chirurgo palestinese, fratello del leader storico di Hamas assassinato da Israele, ha segnato gli spiriti. Ci permette di capire l'incredibile viaggio di molti laureati che vivono nella Striscia di Gaza, che hanno dato prova di coraggio e di volontà di raggiungere la fine degli studi ed arrivare a esercitare le proprie competenze. A nostro avviso "Cronache di Gaza 2001-2011", "Sopravvivere a Gaza" così come il libro di Ziyad Clot "Non ci sarà un stato palestinese" (Max Milo edizioni: Parigi, 2010) sono tra i libri scritti da francofoni, tre testimonianze importanti.

[2] La tessera di stampa israeliana, che facilita gli spostamenti con i giornalisti in Cisgiordania, è rilasciata da un servizio stampa che si trova a Gerusalemme Ovest. Questo servizio dipende dalla propaganda militare, dai servizi segreti della difesa militare e dai servizi segreti israeliani. L'autorizzazione che permette di entrare a Gaza è rilasciata col contagocce. Nel giugno 2006, durante l'offensiva militare che ha provocato cento morti e centinaia di feriti nel nord di Gaza, gli ufficiali del servizio stampa ci hanno negato il permesso d’ingresso a Gaza , quando invece li abbiamo visti il giorno stesso rilasciarlo ai giornalisti addetti ai media la cui parzialità a favore di Israele era garantita.

[3] Al termine delle elezioni di gennaio 2006 Hamas ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi nel Consiglio Legislativo Palestinese. L'Autorità Palestinese a Ramallah - vale a dire che Fatah ha perso le elezioni - non ha lasciato il potere, nonostante il fatto che essa non aveva alcun mandato. Ha continuato a prendere ordini da Israele e dagli Stati Uniti d’America. Il presidente Mahmoud Abbas non ha più alcuna legittimità dal 2009. L'Unione Europea tuttavia continua a tenere in considerazione quest’Autorità illegittima e corrotta, a versargli mezzo miliardo di euro l'anno e a trattare solamente con essa. Le conferenze e i negoziati di pace, alle quale quest'ultima ha partecipato, avevano come obbiettivo, in collusione Israele e gli Stati Uniti d’America, di finanziare e programmare Hamas fuorilegge.

[4] Dopo l'elezione di Hamas nel 2006 i Capi del movimento di solidarietà hanno anche essi contribuito a rafforzare il preconcetto che la Carta di Hamas è antisemita. La propaganda dei successivi governi israeliani, servendosi della Carta di Hamas per criminalizzarlo, è tristemente sfruttato da coloro che privilegiano i "laici" per screditare questo movimento politico e religioso palestinese che si rivendica della resistenza. Questa propaganda ha ampiamente distorto e rallentato l'azione del movimento di solidarietà.

[5] I cittadini dello Stato ebraico di Israele sono di cittadinanza israeliana, ma - molte persone non lo sanno – la cittadinanza israeliana non esiste sui loro documenti. La nazionalità ebrea è indicata sulla carta d’identità solo al cittadini israeliani di confessione ebraica. Mentre la nazionalità dei cittadini non ebrei, è definita come araba, drusa, russa, turca, eccetera. Quando i palestinesi dicono "ebrei" è pertanto in linea con la cittadinanza israeliana di tradizione ebraica e nessun segno di una "ostilità verso gli ebrei", di un "anti-antisemitismo", come li biasimano per sempre per ragioni di propaganda.

[6] Questo piano segreto elaborato dagli Stati Uniti d’America e da Israele, in collusione con la direzione di Ramallah, è stato del resto rivelato nel marzo 2008 dall’esperto giornalista David Rose, Vedi:"Il Gaza Bombshell" di David Rose, Vanity Fair, aprile 2008 e la parziale traduzione in francese di questo articolo.

Nel gennaio 2011, Al Jazeera ha pubblicato documenti riservati palestinesi (The Papers Palestina). Hanno confermato, e più spaventoso, tutto ciò che ha detto David Rose sulla complicità criminale dell'Autorità Palestinese con Israele e ciò che i nostri interlocutori ci hanno detto nel 2006 in varie interviste sono rimaste ignorate ugualmente dagli organi di queste organizzazioni dominanti a sostegno della Palestina. Si è così appreso che l'Autorità palestinese è andata al di là di ogni immaginazione nella sua collusione con Israele. Ci si aspettava che essa annuncia le sue dimissioni, lo scioglimento della Autorità Palestinese. E 'invece parte all'attacco contro Al-Jazeera.

7] Mohammed Dahlan ieri l'uomo forte di Fatah a Gaza, oggi è disprezzato dalla popolazione. Noto per la sua stretta collaborazione con il Mossad e i servizi segreti occidentali, ha tentato il possibile - con il suo finanziamento - per liquidare il movimento di Hamas. Quando, nel 2007, Hamas è riuscito a sbaragliare le forze repressive del Dahlan, è stato un sollievo per la popolazione. Vedi: "Gaza affonda inesorabilmente", di SC 29 luglio 2007.

[8] Dopo l'acquisizione della gestione di Gaza da parte di Hamas, Fatah è rimasto illegittimamente al potere a Ramallah ha detto al 77.000 dipendenti pubblici a Gaza che gli avrebbe pagato lo stipendio, se si rifiutavano di andare lavorare fino a quando Hamas era al potere. Invece i funzionari che sono andati a lavorare e far funzionare la pubblica amministrazione e i servizi pubblici di Hamas non ricevono alcun stipendio dall'Autorità palestinese.

[9] Christophe Oberlin accenna l'assassinio di due attivisti di solidarietà con la Palestina: Juliano Mer Khamis e Vittorio Arrigoni. Mostra: - "attivista per la pace, Mer Khamis è stato assassinato a Jenin", di Conal Urqhart, The Guardian, 4 aprile 2011. - La lezione di umanità da Vittorio Ramzy Baroud, info-palestine.net, 20 aprile 2011.

[10] Umanitari che si recano a Gaza devono richiedere il loro accreditamento al COGAT il servizio dell’esercito israeliano che rilascia un permesso d’ingresso a Gaza.

[11] Per entrare nella Cisgiordania e Gaza, che sono prigioni gestiti dal paese occupante, è obbligo passare attraverso il territorio israeliano. Le autorità israeliane hanno il diritto di veto per l'ingresso in Israele delle persone che vogliono solo visitare i territori occupati, per cui temono le critiche. Essi sostengono le liste di attivisti e giornalisti presunti "ostili a Israele", a loro segnalati in ogni paese da persone di fede ebraica la cui lealtà a Israele premia.

[12] Cfr. nota (9).

[13] - Raffaele Ciriello, un giornalista italiano è stato deliberatamente ucciso dall'esercito israeliano a Ramallah, 13 marzo 2002. - James Miller, 34 anni, giornalista e produttore britannico indossava un giubbotto antiproiettile scritta "stampa "e una bandiera bianca quando è stato intenzionalmente ucciso a Rafah 2 Maggio 2003, da un soldato israeliano durante le riprese di un documentario dal titolo "Death in Gaza", secondo le testimonianze dei giornalisti. Inoltre, molti palestinesi e giornalisti arabi sono stati uccisi dall'esercito israeliano. - Si vedano in proposito: "muro di separazione etnica e disinformazione" da SC, 8 agosto 2003.

[14] Il giornalista Jacques-Marie Bourget è stato gravemente ferito al polmone e al braccio, il 21 ottobre 2000 a Ramallah da un proiettile sparato da un soldato israeliano.

[15] Cfr.: "La barbarie dei soldati israeliani fucilati sul posto" di SC, 6 luglio 2007. e il video di questa crudeltà

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Titolo originale: "Gaza assiégée : Un chirurgien témoigne. Entretien avec le professeur Christophe Oberlin.""

Fonte: http://www.silviacattori.net/
Link
28.04.2011

martedì 24 maggio 2011

Quante balle sull'aiuto ai poveri


da L’Espresso

Quante balle sull'aiuto ai poveri
di Antonio Carlucci
Al G8 dell'Aquila i Paesi ricchi avevano promesso 22 miliardi di dollari per sconfiggere la fame e la miseria nel mondo. Poi non si è visto niente o quasi. La durissima accusa di Jeffrey Sachs, docente di economia sostenibile e consulente dell'Onu
(23 maggio 2011)
Ci sono stati progressi nel campo della lotta alla povertà, alle malattie, alla mortalità infantile, ma si è perso tempo prezioso. Troppe nazioni hanno mancato il loro obiettivo, in alcuni casi tutti gli obiettivi: il risultato finale non potrà essere raggiunto nella sua totalità". E' pessimista, ma non si scoraggia Jeffrey Sachs, economista, professore di Sviluppo sostenibile alla Columbia University e direttore dell'Earth Institute dell'università newyorkese. Il suo lavoro sta alla base del Millennium Project lanciato dalle Nazioni Unite nel 2000 per dimezzare il livello di povertà nel mondo entro il 2015, rinnovato di anno in anno e a ogni summit internazionale. Con "l'Espresso", Sachs analizza la situazione, racconta problemi e prospettive, traccia un bilancio che non fa onore alle nazioni leader del mondo e al loro dovere morale e politico di cambiare situazioni che nessuno, nei Paesi ricchi, accetterebbe.
Quale percentuale degli obiettivi è stata raggiunta fino a oggi?
"Dobbiamo fare molto più di quanto abbiamo già fatto. Se i nostri sforzi fossero intensificati si potrebbero raggiungere quasi tutti gli obiettivi. Nel giro di 2-3 anni potremmo aumentare la produzione di cibo, fornire più case di acqua corrente, mandare più bambini a scuola, migliorare l'assistenza sanitaria. Ma quello che può essere fatto è cosa diversa da quello che si fa o si vuole fare. Il mondo è disorganizzato, la leadership di Stati Uniti, Europa e Giappone è distratta da altri problemi, siamo in un interregno politico globale, con gli Stati Uniti in declino e l'Europa che non è conscia del suo ruolo. La Cina, pur essendo una potenza in crescita, non è certo in grado di sostituire l'America. Così i risultati vengono mancati".
Il Millennium Project altro non era se non un accordo tra i Paesi ricchi e quelli poveri, con i primi che accettano di perdere qualcosa per aiutare i secondi a entrare nel circuito dello sviluppo. Un patto impossibile?
"L'idea è ancora valida, ma la realtà nella quale viviamo è diversa perché chi dovrebbe onorare l'accordo cerca di sfuggire alle sue responsabilità. I ricchi sempre di più cercano di nascondere i loro soldi, sono sempre alla ricerca di paradisi fiscali per non pagare le tasse, e il mio Paese è ai primi posti per questo comportamento. Risultato, crescono i deficit perché non si vogliono tassare le grandi imprese e le multinazionali. Se i budget decrescono, insieme diminuiscono le percentuali da destinare al progetto".
Colpa degli stessi governi che poi all'Onu e nei consessi internazionali promettono miliardi di dollari in aiuti...
"Ricordo solo le promesse che furono fatte al G8 dell'Aquila nel 2009 per complessivi 22 miliardi di dollari. Sono rimaste solo parole, tutti sembrano aver dimenticato quello che si erano impegnati a fare. Molti Paesi poveri, dopo quel summit, si erano affrettati a presentare progetti reali, a sottoporli alla Banca mondiale, a rendere visibile il loro desiderio di affrancarsi da secoli di abbandono. Ma di soldi ne hanno visti proprio pochi, sicuramente insufficienti rispetto ai progetti".
Stati Uniti ed Europa hanno utilizzato la recessione della fine del 2008 come scusa per la diminuzione dei budget. Hanno ragione?
"Mi chiedo perché la Gran Bretagna, unica tra i grandi Paesi, pur colpita come tutti gli altri da crisi e recessione, abbia aumentato i fondi per gli aiuti. Italia, Francia e Germania li hanno tagliati e non hanno mantenuto le promesse. Negli Usa, non abbiamo sentito una parola dal presidente Obama. Non mi sembra opportuno in politica estera privilegiare la spesa militare. Gli aiuti servono ad aumentare anche la sicurezza del mio Paese".
Che cosa possono fare le Nazioni Unite per invertire questo trend negativo?
"Segni positivi se ne vedono già. Cina, India, Brasile, Corea del Sud, Malesia, Stati del Golfo sembrano essere più disponibili dei Paesi ricchi. Grazie a Dio non viviamo in un mondo statico. La Cina è in grado di fare più dell'Europa in un continente come l'Africa in termini di infrastrutture, come strade, elettricità, acqua. Il vecchio mondo perde terreno e si chiude nel suo egoismo, il nuovo ha voglia di mostrarsi diverso".
Molti vedono lo sbarco cinese in Africa come una forma di neocolonialismo. E' d'accordo?
"Una assurdità. La Cina ha interessi commerciali e politici e li persegue. Fa accordi con i governi, incoraggia l'impresa privata e riempie un vuoto. Il colonialismo, vecchio o nuovo, è tutt'altra cosa".
Saranno queste nazioni a prendere la leadership del Millennium?
"Io sarei molto felice se questo succedesse. Sarebbe la dimostrazione definitiva che i ricchi sfuggono alla loro responsabilità sociale e politica, e restano passivi di fronte ai cambiamenti e ai rischi globali che riguardano anche loro".
Quanti soldi servono per essere sicuri di raggiungere l'obiettivo?
"Tra lo 0,5 e lo 0,7 del prodotto nazionale lordo dei paesi sviluppati. Invece siamo fermi allo 0,3 per cento, per cui mancano all'appello tra i 50 e i 100 miliardi di dollari. Se penso che solo gli Stati Uniti spendono 800 miliardi di dollari per la difesa e ne buttano 100 in Afghanistan, e che i primi 1.200 miliardari di qualsiasi classifica mondiale avrebbero fondi a sufficienza per risolvere questo problema, ne deduco che la questione non è la mancanza di denaro, ma di volontà".
Negli ultimi anni, molte aziende private hanno deciso di partecipare a progetti che rientrano nel Millennium Project. Che cosa ne pensa?
"E' importante, perché le aziende private hanno a portata di mano due asset di cui non dispongono i governi: la tecnologia e il management. Combinati insieme, in missioni come la lotta alla malaria o la costruzione di reti idriche o la fornitura di pannelli solari o di reti cellulari, fanno delle aziende private un soggetto che può essere trainante".
Qual è il motivo che spinge le aziende private ad aderire concretamente al Millennium Project? Filantropia o interesse a conquistare posizioni di mercato?
"Entrambi. Ma per moltissime società gli obiettivi commerciali e di penetrazione nei nuovi mercati sono assolutamente in secondo piano. Prevalgono i motivi umanitari. Per esempio, la giapponese Sumitono Chemical ha costruito e fornito zanzariere anti-malaria; la Novartis ha aumentato la produzione di medicinali anti-malaria come contributo al Millennium; la Tommy Hilfiger ha invece adottato il villaggio di Ruhiira, in Uganda".
Professor Sachs, ha descritto una situazione piena di incognite e in ritardo sugli obiettivi. Lei è ancora convinto che questa battaglia possa essere vinta, come sosteneva nei suoi documenti che sono alla base del Millennium Project?
"Se si vuole raggiungere l'obiettivo è ancora assolutamente possibile: anche in presenza di fattori negativi".

sabato 21 maggio 2011

SENSA PAROLE...
Vivo a Milano 2, in un quartiere costruito dal Presidente del Consiglio. Lavoro a Milano in
                        un’azienda di cui è principale azionista il Presidente del Consiglio. Anche l'assicurazione
                        dell'auto con cui mi reco a lavoro è del Presidente del Consiglio, come del Presidente del
                        Consiglio è l'assicurazione che gestisce la mia previdenza integrativa. Mi fermo tutte le
                        mattine a comprare il giornale di cui è proprietario il Presidente del Consiglio. Quando
                        devo andare in banca, vado in quella del Presidente del Consiglio. Al pomeriggio, quando
                        esco dal lavoro, vado a far la spesa in un ipermercato del Presidente del Consiglio, dove
                        compro prodotti realizzati da aziende partecipate dal Presidente del Consiglio. Alla sera,
                        se decido di andare al cinema, vado in una sala del circuito di proprietà del Presidente del
                        Consiglio, e guardo un film prodotto e distribuito da una società del Presidente del
                        Consiglio: questi film godono anche di finanziamenti pubblici elargiti dal governo
                        presieduto dal Presidente del Consiglio. Se invece la sera rimango a casa, spesso guardo la
                        TV del Presidente del Consiglio, con decoder prodotto da società del Presidente del
                        Consiglio, dove i film realizzati da società del Presidente del Consiglio sono continuamente
                        interrotti da spot realizzati dall'agenzia pubblicitaria del Presidente del Consiglio. Seguo
                        molto il calcio, e faccio il tifo per la squadra di cui il Presidente del Consiglio è
                        proprietario. Quando non guardo la TV del Presidente del Consiglio guardo la RAI, i cui
                        dirigenti sono stati nominati dai parlamentari che il Presidente del Consiglio ha fatto
                        eleggere. Quando mi stufo navigo un po’ in internet, con provider del Presidente del
                        Consiglio. Se però non ho proprio voglia di TV o di navigare in internet leggo un libro, la
                        cui casa editri ce è di proprietà del Presidente del Consiglio. Naturalmente, come in tutti
                        i paesi democratici e liberali, anche in Italianistan è il Presidente del Consiglio che
                        predispone le leggi che vengono approvate da un Parlamento dove molti dei deputati della
                        maggioranza sono dipendenti ed avvocati del Presidente del Consiglio, che governa nel mio
                        esclusivo interesse, per fortuna!

PS.: Tutte le persone che ricevono la presente comunicazione hanno l'obbligo civile e morale
                        di trasmetterla ad almeno altre cinque persone: non sia mai che qualcuno lo votasse di
                        nuovo..!


Il silenzio è complice
DI ELIO VELTRI
La violenza e i morti, si sa, sono televisivi e fanno la loro figura anche sulla carta stampata. Il denaro sporco che passa da una banca all’altra, da una società finanziaria all’altra, da un paradiso fiscale all’altro, non lo è. Il riciclaggio, in Italia, pesa più del 10% del Pil, contro il 5% a livello mondiale, secondo le stime del FMI.
Lo ha detto il vice Direttore Generale della Banca d'Italia, Anna Maria Tarantola la quale ha aggiunto ''Si tratta di flussi di denaro illecito che assumono rilevanza anche sul piano macroeconomico e sono suscettibili di generare gravi distorsioni nell'economia legale, alterando le condizioni di concorrenza, il corretto funzionamento dei mercati e i meccanismi fisiologici di allocazione del risorse, con riflessi, in definitiva, sulla stessa stabilita' ed efficienza del sistema economico''.
Parole e numeri che abbiamo ripetuto e scritto fino alla noia, che ora vengono confermate da Bankitalia. E sarebbe stato meglio per il paese se ci fossimo sbagliati. Poiche' il prodotto interno lordo dell'Italia nel 2009 e' stato di 1520 miliardi di euro, l'ammontare totale del riciclaggio di denaro sporco nel nostro paese e' stimato da Banca d'Italia in circa 150 miliardi di euro. Sono triplicate anche le segnalazioni di operazioni sospette. E’ sempre la dottoressa Tarantola che lo afferma sottolineando che "le segnalazioni di operazioni sospette, circa 12.500 nel 2007, si sono triplicate, divenendo oltre 37mila nel 2010. Il trend di crescita risulta in notevole accelerazione: +16% nel 2008, +44% nel 2009, +77% nel 2010".
E il maggior numero di esse, rispetto alle altre regioni, sono state inviate agli organi competetenti in Lombardia e a Milano. Ma "non può però considerarsi soddisfacente - ha sottolineato la Tarantola in un intervento alla Scuola superiore dell'economia e delle finanze - il fatto che l'aumento delle segnalazioni sia dovuto quasi esclusivamente agli intermediari bancari e finanziari e alle poste. Dai professionisti e dagli altri operatori - ha aggiunto - sono pervenute nel 2010 solo 223 segnalazioni (erano 136 nel 2009 e 173 nel 2008), di cui un terzo dai dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali, circa un quinto dai notai". Insomma, i professionisti non collaborano con l’UIF della Banca d’Italia nè con la Guardia di finanza, che si occupano di riciclaggio.
Ho faticato a cercare sui tg, sui quotidiani più diffusi e sui settimanali, la notizia data dal vice direttore generale di Bankitalia sul denaro sporco e riciclato che circola nel nostro paese e non ne hanno fatto menzione neanche i politici di partito e di governo che affollano quotidianamente le reti televisive, nonostante parlassero, si fa per dire, di economia. La retorica dell’antimafia fa molto schic di fronte alle telecamere, crea personaggi virtuali e inesistenti, commuove milioni di cittadini, crea consensi elettorali. Ma le informazioni sulla finanza e l’economia criminale e sui criminali che sono seduti nei consigli di amministrazione di società e aziende, al grande pubblico non arrivano. Vengono accuratamente cancellate perchè altrimenti si dovrebbe parlare della provenienza e della destinazione del denaro sporco, di evasione fiscale, di corruzione e via di questo passo.
Il silenzio è complice in un paese di complici. Complici per ignoranza, per interesse, per non guastarsela con i manovratori di turno. Ma un paese così, ogni giorno, pezzo per pezzo, viene consegnato alla criminalità organizzata. E non è certo un caso che a Milano, capitale economica e finanziaria della Ndrangheta, il problema sia stato completamnente rimosso dalla campagna elettorale. E che la sindaca si sia occupata, mentendo, di un arresto e di una presunta amnistia di cui avrebbe goduto Pisapia, anzichè della presenza della ndrangheta e dei suoi uomini nelle strutture e nelle società del comune.


venerdì 20 maggio 2011

Rintocchi funebri per il berlusconismo?

Leggo l’evento di Milano in stretta correlazione all’affermazione di De Magistris a Napoli, territorio disastrato in cui Berlusconi è arrivato a usare l’arma elettorale della sanatoria per le case abusive pur di raggranellare un po’ di voti.
E’ difficile sottrarsi all’impressione che gli elettori stiano finalmente reagendo al miasma che emana da questo scorcio di basso impero, e che dalla parte di Berlusconi sia rimasto veramente solo il peggio della società italiana.
Io non so cosa deciderà di fare Casini a Milano, ma sono sicuro che in queste ore lui stia valutando tutte le possibilità di salvare la Moratti in vista di crediti futuri nel centrodestra e guardando al giorno in cui Berlusconi dovrà farsi da parte. Ma sono calcoli in larga parte inutili. Se la mia impressione che queste elezioni evidenzino anche una reazione di tipo morale al berlusconismo è giusta, le manovre di palazzo per assicurare una sopravvivenza al regime cadaverico attuale in attesa di tempi più favorevoli per un’OPA sono destinate a fallire.

La cybercriminalité au cœur de la guerre informatique

cybercriminalite guerre economique 150x150 La cybercriminalité au cœur de la guerre informatiqueSi le développement de la société de l’information, via les réseaux de communications électroniques, constitue un formidable moteur pour la croissance économique des Etats modernes, il présente également des risques de prolifération de la « cyberguerre».
En effet, celle-ci a changé de visage. Motivée par des gains financiers, l’économie souterraine s’organise et se spécialise jusqu’à former un écosystème complexe qui touche tout autant les particuliers, les entreprises que les Etats. Pour autant, l’auteur supposé ou réel de ces attaques informatiques n’est t-il pas fantasmé dans ces nouveaux rapports à la guerre informationnelle? Par ailleurs, pour combattre efficacement ces agressions techniques qui ne connaissent pas de frontières, les Etats ne doivent-ils pas s’entendre pour mettre en place des instruments  de lutte adaptés à ces attaques ?
Des attaques ciblées sophistiquées
Au mois de décembre dernier, le ministère de l’Economie et des Finances a fait l’objet d’une attaque informatique. 150 machines de cette administration ont été infiltrées à l’aide d’un cheval de Troie. L’ampleur de cette intrusion informatique a permis au gouvernement français de prendre conscience des menaces réelles qui pouvaient peser sur ses systèmes informatiques. Les prestataires informatique du ministère ont du intervenir pendant plusieurs jours pour réparer les dégâts occasionnés bloquant ainsi, à titre de prudence, les communications internes et externes de l’administration fiscale française.
Ce fait d’actualité illustre parfaitement les problématiques de la cyberguerre  : les systèmes les plus performants sont tous faillibles. Aucune protection n’est efficace à 100%. Les attaques ne cessent d’évoluer en fonction des avancées techniques. Le développement des réseaux a contribué notamment à l’augmentation de programmes malveillants visant les appareils mobiles via des applications d’App Store ou Google Andoid. Symantec a d’ailleurs recensé une hausse de 43 % des failles des plateformes mobiles. Le virus STUXNET est également l’illustration d’attaques informatiques de haut niveau. Ce logiciel serait capable de modifier les logiques de fonctionnement du dispositif de l’installation visée sans être contrôlé à distance. Il peut ainsi agir sur un réseau fermé telles que les infrastructures critiques d’un Etat comme par exemple les installations nucléaires.
De plus, l’identification des attaquants n’est pas toujours possible compte tenu de « l’ambiguïté de la source ». Les buts poursuivis par les attaquants sont aussi difficiles à appréhender : s’agit-il de capter des informations stratégiques, de dénoncer les failles de sécurité informatique, d’exercer une pression ou lancer un avertissement en perturbant le système informatique de sa victime? S’il est difficile de démasquer les auteurs de ces attaques, il est en revanche clair que celles-ci causent des dégâts techniques, psychologiques, stratégiques voir idéologiques parfois importants à ceux qui les subissent.
Pour autant, n’y a-t-il pas une part d’exagération dans la vision de ce conflit ? Ce que l’on peut affirmer c’est que le cyber-attaquant n’est pas forcément un génie informatique ou un adepte du jihadisme… contrairement à un fantasme largement répandu.  Autre fantasme développé par l’imaginaire publique : la paralysie totale d’un système d’informatique par une poignée d’informaticiens, capable de déstabiliser un pays entier. Bien que cela ne soit pas totalement faux, la réalité est parfois différente. Les attaquants appartiennent à des réseaux professionnalisés où chacun se voit attribuer une mission bien spécifique pour mener à bien une coordination d’attaques informatiques à des fins clairement identifiés. Ces réseaux sont parfois encouragés ou tolérés par des Etats qui y trouvent un moyen facile de mener des opérations d’espionnage en contournant les lois internationales de la guerre. Que faire alors pour appréhender cette nouvelle réalité ?
Cyberguerre ou la reconnaissance d’actes de guerre ?
Bien que la cybercriminalité constitue une préoccupation à l’échelle planétaire, elle dépend juridiquement du Code Pénal du pays en vigueur avec les difficultés que cela comporte pour sa mise en œuvre. Les législations nationales actuelles sont ainsi dépassées pour lutter efficacement contre ce type d’attaques. Une nouvelle réflexion s’impose consistant à analyser les opérations agressives menées dans l’espace informationnel. La question essentielle serait de distinguer la notion de « cybercriminalité » et celle de « l’acte de guerre ».
En effet, si ces attaques informatiques étaient considérées comme des « actes de guerre », elles relèveraient du droit international offrant aux Etats lésés la possibilité d’obtenir des arbitrages internationaux ou des sanctions de la Communauté Internationale. Les avis divergent toutefois sur l’élaboration d’un tel statut juridique sachant que les attaques informatiques n’infligent pas de perte en vies humaines ni de dommages matérielles considérables comme les actes de guerre traditionnels.
Pourtant, il faudra un jour s’y résoudre si l’on veut sécuriser le développement de l’ère numérique. Une police internationale informatique pourrait apparaître comme une solution efficace pour réglementer les flux informationnels au même titre que les flux de personnes, de marchandises ou de capitaux. Cette solution a été plus ou moins opté par les Etats-Unis qui souhaite ainsi s’imposer comme le leadership technologique et commercial dans le secteur des nouvelles technologies. Cependant, la dimension internationale de l’Internet implique pour les Etats-Unis de coopérer avec d’autres pays, ouvrant ainsi la perspective de l'établissement d'un droit pénal international du cyberespace.
Laurie Acensio
       Hamas ha condannato l'uccisione di Vittorio Arrigoni
GAZA — Il Movimento di Resistenza Islamica Hamas ha condannato duramente il sequestro e il successivo omicidio dell’attivista per la pace italiano Vittorio Arrigoni, sottolineando che quel che è accaduto è “grave e vergognoso” e che “ciò che è stato fatto da questo gruppo non riflette la cultura e le usanze del popolo Palestinese, che è aperto all’amicizia con tutte le persone”.
Il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum ha dichiarato Venerdì mattina che lo scopo del gruppo responsabile è di riportare il caos nella Striscia di Gaza, per guastare l’atmosfera di sicurezza interna che è stata prevalente nella Striscia di Gaza e per danneggiare la solidarietà popolare con il popolo Palestinese, in special modo la solidarietà internazionale con la Striscia di Gaza assediata.
Barhoum ha aggiunto che gli obiettivi di questo gruppo fuorilegge sono in linea con gli obiettivi dei nemici del popolo Palestinese e della causa Palestinese.
Barhoum ha elogiato l’impegno di Arrigoni nel portare aiuto al popolo Palestinese grazie al suo lavoro di solidarietà nella Striscia di Gaza e ha chiesto al Ministero dell’Interno di fare tutto il possibile per prendere i colpevoli del crimine, portarli davanti alla giustizia e scoprire chi si nasconde dietro di loro.
Barhoum ha poi ripetuto che il popolo Palestinese è contro il gruppo sospettato del crimine e rifiuta la sua ideologia.
Arrigoni era un membro dell’International Solidarity Movement (ISM) e viveva nella Striscia di Gaza da tre anni.
Arrigoni è il terzo attivista dell’ISM a rimanere ucciso nella Striscia di Gaza; nel 2003 Rachel Corrie, un’attivista Statunitense, venne schiacciata da un bulldozer delle forze di occupazione Israeliane, mentre nel 2004 Tom Hurndall, un attivista Britannico, venne ucciso da un soldato di occupazione Israeliano.
Fonte: Palestine-Info
Traduzione: Saigon2k.com

 
LA "PRIMAVERA ARABA" PALESTINESE STA ARRIVANDO.
di  JONATHAN COOK
alternet.org

La "Primavera Araba" palestinese sta arrivando e Israele non ha una strategia politica adatta ad affrontarla. La soluzione di Israele si riduce a usare la sola arma presente nel suo arsenale, la forza bruta.

Sono scene straordinarie quelle girate da un cellulare nel momento in cui, di domenica, almeno mille rifugiati palestinesi hanno marciato nella terra di nessuno verso uno dei confini più protetti al mondo, quello che separa la Siria dai Territori Occupati da Israele sulle Alture del Golan .
Sventolando bandiere palestinesi, il corteo ha sfidato un campo minato per poi abbattere una serie di recinzioni e aprire un varco, permettendo l'entrata di oltre cento manifestanti all'interno dei territorio controllato da Israele. Tra gli abbracci degli abitanti drusi dei villaggi oltre frontiera, si udivano le voci esclamare: "Questo è quello che sarà la liberazione."

A differenza degli anni precedenti, il giorno della Nabka non è stata una semplice commemorazione della catastrofe della caduta dei Palestinesi nel 1948, quando la loro terra fu trasformata con la forza nello stato di Israele. Questa giornata ha brevemente ricordato ai Palestinesi che, nonostante la prolungata diaspora, la forza di dare forma a una lotta comune contro Israele esiste ancora.
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Con la sua violenta risposta alle proteste di domenica su molti fronti - in Cisgiordania , Gaza, Gerusalemme e ai confini con la Siria - Israele, più che una superpotenza militare, è sembrata il proverbiale ragazzo che cerca di fermare la diga con un dito.

La "Primavera Araba" palestinese sta arrivando e Israele si trova priva di una qualsiasi strategia diplomatica o politica per fronteggiarla. Domenica Israele ha imbracciato l'unica arma del suo attuale arsenale - la forza bruta - contro civili disarmati.
Al confine settentrionale sono rimasti uccisi almeno 14 dimostranti, dozzine i feriti, sia a Majdal Shams sul Golan che a Maroun al-Ras in Libano.
A Gaza un ragazzo è stato colpito a morte e più di 100 dimostranti sono rimasti feriti mentre si avvicinavano in massa verso i passaggi al confine. A Qalandiya, il principale checkpoint creato da Israele per impedire ai palestinesi della West Bank di raggiungere Gerusalemme, almeno quaranta dimostranti sono stati gravemente feriti. Gli scontri sono scoppiati anche nelle principali cittadine della West Bank.
E per la prima volta all'interno di Israele, la minoranza palestinese è scesa in piazza per commemorare il Giorno della Catastrofe (Nabka), sventolando le bandiere palestinesi a Jaffa, la storica cittadina palestinese trasformata nel 1948 in un sobborgo di Tel Aviv.

Con la classica ottusità i leader israeliani hanno voluto vedere dietro agli eventi della giornata la mano dell'Iran, come se ai palestinesi mancassero propri motivi di risentimento per dar sfogo ad una protesta.
Ma in realtà da mesi l'intelligence israeliana sta mettendo in guardia sulla inevitabilità che erompano manifestazioni di massa di questo tipo, alimentate dall'intransigenza del governo di destra in Israele, sia nei confronti della propensione di Washington per la creazione di uno stato palestinese che verso il diffuso stato d'animo, legato alla Primavera Araba, che "un cambiamento è possibile".

Seguendo le orma delle dimostrazioni in Egitto e Tunisia, la gente in Palestina ha utilizzato i nuovi social media per organizzare e coordinare la protesta, in questo caso sfidando i muri, le recinzioni e i posti di blocco che Israele ha eretto ovunque per separarli. E' stato Twitter, non Teheran, la mano che ha guidato queste dimostrazioni.

Sebbene queste dimostrazioni non si possano ancora chiamare una terza Intifada, danno un'idea di quello che potrebbe seguire. O, come ha messo in guardia un comandante israeliano, hanno tutta l'aria di essere un preriscaldamento per settembre, con una nuova leadership palestinese unificata che minaccia Israele e gli Stati Uniti di richiedere alle Nazioni Unite il riconoscimento dello Stato Palestinese con i confini sanciti nel 1967.
A queste preoccupazioni ha fatto riferimento Ehud Barak, il Ministro della Difesa israeliano, quando ha affermato: "Siamo solo all'inizio di questa storia e potremmo trovarci di fronte a sfide molto più complesse".

Per Israele ci sono alcune lezioni da trarre dagli scontri di quest'ultimo fine settimana e nessuna molto piacevole. La prima è che alla Primavera Araba non basta rispondere chiudendo tutte le porte. Le sollevazioni nei paesi arabi vicini a Israele indicano che questi regimi non hanno più la legittimità di prendere decisioni per conto delle popolazioni palestinesi che vivono al loro interno secondo i propri interessi.

Così come l'Egitto del dopo Mubarak sta allentando, piuttosto che serrare, il blocco di Gaza, anche la posizione precaria del regime siriano lo rende molto meno intenzionato a frenare, e men che mai a far colpire, i dimostranti palestinesi che si ammassano al confine con Israele.
La seconda lezione è che i palestinesi hanno assorbito il significato della recente riconciliazione tra Hamas e Fatah. Con l'instaurazione di un governo unificato, le due fazioni rivali si sono finalmente rese conto che non possono fare alcun passo in avanti rispetto alle posizioni israeliane finché restano divise geograficamente e politicamente
Le gente comune in Palestina sta giungendo alle medesime conclusioni: di fronte ai carri armati e agli aerei da bombardamento, la forza palestinese deve essere in un movimento di liberazione nazionale unito che rifiuti di farsi definire dalla politica di frammentazione israeliana.

La terza lezione è che Israele ha potuto far conto su una relativa quiete ai propri confini per portare avanti l'occupazione della West Bank, di Gerusalemme e di Gaza. I trattati di pace con Egitto e Giordania, in particolare, hanno permesso all'esercito di Israele di concentrare le proprie attenzioni verso il controllo della popolazione palestinese sotto il proprio dominio.
Il quesito è se Israele possegga le risorse umane necessarie per far fronte a una serie di rivolte coordinate e sostenute su più fronti. Sarà in grado di resistere a tali pressioni senza dover scadere in eccidi di massa di manifestanti civili disarmati?

La quarta lezione è che i rifugiati palestinesi molto probabilmente non rimarranno passivi di fronte ad un accantonamento dei loro interessi da parte di Israele o da una risposta inadeguata da parte delle Nazioni Unite alla richiesta di un riconoscimento dello stato d Palestinese.
Le dimostrazioni di protesta in Siria e Libano hanno dimostrato che la Primavera Araba palestinese non intende farsi marginalizzare. Questo messaggio non può sfuggire nè ad Hamas che a Fatah, nel momento in cui stanno avviando negoziati per una strategia comune nei prossimi mesi.

E la quinta lezione è che le scene di sfida dei palestinesi ai confini di Israele accendere ovunque il fuoco, nell'immaginario Palestinese, per cominciare a credere all'impossibile - così come le dimostrazioni di Piazza Tahrir hanno galvanizzato gli egiziani convincendoli che era possibile rimuovere il dittatore
Israele si trova, diplomaticamente e strategicamente, in in un vicolo cieco,. Quello di questo ultimo fine settimana è stato solo un primo assaggio del probabile futuro

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Jonathan Cook

Fonte: www.alternet.org

giovedì 19 maggio 2011

da Il Fatto Quotidiano
 
 
Arrigoni, Jewish Chronicle: “Antisemita
come Hitler. Meritava di morire”

di Davide Ghilotti
Editoriale choc del giornale della comunità ebraica pubblicato a Londra secondo cui Vik non era un pacifista ma un fiancheggiatore di Hamas. E la morte di un Jew-hater, uno che odia Israele, "è sempre un motivo per festeggiare"
Vittorio Arrigoni, il volontario italiano brutalmente ucciso lo scorso aprile nella striscia di Gaza, non era un attivista per i diritti umani né tantomeno un martire che ha pagato con la vita il suo impegno al fianco del popolo palestinese.
Era un “consumato antisemita e un supporter di Hamas che odiava Israele e il popolo ebraico”, della cui morte è doveroso “gioire”.
Lo afferma lo storico inglese Geoffrey Alderman in un editoriale pubblicato sul settimanale Jewish Chronicle, storica pubblicazione della comunità ebraica con sede a Londra.
“Pochi avvenimenti in queste ultime settimane mi hanno dato maggiore felicità della notizia della morte del cosiddetto ‘attivista per la pace’ italiano Vittorio Arrigoni,” scrive Alderman, che non fa mistero del suo disprezzo per l’uomo diventato un simbolo della solidarietà verso i palestinesi di Gaza.
Vik, come lo chiamavano i colleghi dell’organizzazione per cui lavorava, l’International Solidarity Movement (ISM), è stato rapito e assassinato da una cellula salafita di estremisti islamici – un omicidio da cui anche al-Qaeda si è dissociata, definendolo un atto compiuto da cani sciolti, legati marginalmente all’organizzazione.
L’assassinio è stato dipinto dai media occidentali come un “affronto al mondo civilizzato”, scrive Alderman, che aggiunge: “La realtà è molto diversa. Arrigoni è arrivato a Gaza per partecipare alla violazione di un blocco navale israeliano. Come supporter di Hamas, era un consumato antisemita.”
“La morte di un Jew-hater deve sempre essere un motivo per festeggiare,” aggiunge lo storico, affermando anche che Vik usasse Facebook per diffondere immagini e propaganda anti-ebraica.
Nella sua distorta glorificazione dell’omicidio, Alderman attacca anche la stessa ISM, descrivendola come legata al terrorismo palestinese e al regime di Hamas.
L’israeliana Neta Golan, tra i fondatori dell’organizzazione, ha negato ogni legame tra l’ISM e il terrorismo: “L’organizzazione appoggia la strada della resistenza popolare e nonviolenta. Lavoriamo con chiunque voglia organizzare resistenza nonviolenta, e non abbiamo una posizione sulla politica interna palestinese.”
Stephen Pollard, direttore del Jewish Chronicle, ha commentato il controverso editoriale dicendo di “non aver alcun problema” con le opinioni espresse da Alderman. Anche Pollard rifiuta il termine peace activist: “[Arrigoni] era un membro dell’ISM. Questo non è attivismo per la pace, è lo zoccolo duro del terrorismo palestinese.”
Le affermazioni dello storico inglese hanno suscitato indignazione tra chi ha conosciuto e lavorato al fianco di Vik.
“Alcune cose sono così sconcertanti che non meritano una risposta,” ha detto Jeff Halper, attivista israeliano che conosceva bene Arrigoni. “Vik era unico. Aveva forti opinioni ed era molto politico, ma l’idea che potesse fare distinzioni tra Ebrei e non Ebrei è ridicola.”
Parlando con una giornalista, Alderman ha successivamente rincarato la dose: “[Arrigoni] era un antisemita come Adolf Hitler. Meritava di morire. Io ho gioito per la morte di un antisemita, senza provare alcun rimorso”.
Non è la prima volta che viene evocato un antisemitismo inesistente per zittire le critiche verso la politica di Israele
Durante l’operazione Piombo Fuso, tra il 2008 e il 2009, l’esercito israeliano bombardò Gaza utilizzando armi al fosforo bianco, proibite dalle leggi internazionali.
Amnesty International denunciò la presenza di residui di ordigni ancora fumanti, visibili ovunque. Per non inalare i fumi tossici del fosforo, i Palestinesi interravano i residui delle bombe sottoterra, dove bruciavano per settimane.
Anche allora le critiche ad Israele per il suo evidente impiego di armi vietate e di missili sui civili vennero caricate di una connotazione antisemita che non avevano.
Allo stesso modo, la retorica argomentativa utilizzata da Alderman nella sua sfuriata contro Arrigoni è semplice quanto fallace.
Vik sosteneva la causa palestinese, quindi era contro il governo israeliano, ergo contro il popolo israeliano, e dunque era un antisemita degno dei ranghi delle SS. Una slippery slope che dal punto di vista logico fa acqua da tutte le parti.
Un recente articolo di Alderman – che criticava una serie tv inglese in cui “non c’era nemmeno un Ebreo” – era intitolato “l’omicidio del buon senso”. Festeggiando ora la morte di Vik, il buon senso del Jewish Chronicle ha fatto la stessa fine.