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domenica 31 luglio 2011

VOGLIAMO UNA MARCIA CHE SI DISSOCI DALLE GUERRE CHE VIOLANO LA NOSTRA COSTITUZIONE
di Laura Tussi

La seguente lettera redatta dalla nostra redattrice Laura Tussi è stata sottoscritta dalla nostra redazione e dal Comitato Promotore Obiezione alle Spese Militari che l'ha inviata alla Tavola della Pace.

Cari promotori della Perugia-Assisi
concorderete di sicuro che qualsiasi guerra è un crimine contro l'umanità e che pertanto devono cessare le guerre neocoloniali in Libia e in Afganistan, anche e soprattutto perché ammantate di ragioni umanitarie e di difesa della libertà. L'umanità necessita della smilitarizzazione dei conflitti, del disarmo, della pace ed è necessaria l'accoglienza e l'assistenza di tutti i profughi e i migranti, vittime della guerra. Auspichiamo un movimento di protesta dei popoli contro la barbarie per contestare, con l'affissione delle bandiere di pace e con manifestazioni nonviolente, tutte le guerre, sia civili sia, appunto, le cosiddette guerre ipocritamente definite umanitarie o di legittima difesa.
Il movimento in favore della pace deve nascere, come è accaduto in passato, da un sentimento laico condiviso di valori e di credi in cui si rispecchia il pacifismo, l'azione nonviolenta, in una presa di coscienza e di posizione collettiva, ma soprattutto a partire da ogni singolo individuo. L’idea di Pace deve investire la coscienza di ognuno di noi, di ogni essere umano, donne e uomini, in quanto attori e costruttori nel quotidiano e nel presente di contesti di dialogo.
Il valore del sentimento globale e mondiale di pace consiste, in primis, nell’osservare e constatare che ogni soggetto singolo, ogni individuo è ontologicamente promotore di pace, in quanto essere pensante e comunicativo e raziocinante: la pace negli affetti, il confronto costruttivo nelle relazioni, l’interscambio positivo negli ambiti di lavoro, nelle istituzioni, nella scuola…insomma nell’attualità del vivere ordinario e di ogni giorno. Passo per passo, momento per momento, ogni persona per la pace diviene creatrice di accordo e conciliazione, fautrice di bene e portatrice intrinseca di valore. Un valore universale e umano che viene calpestato dalle prepotenti decisioni governative, dettate dalle più bieche ragioni di stato di qualche "presidente di governo", sospinto da volontà estremamente nazionaliste, da manovre di potenza miranti a conservare, in una logica schiacciante e capitalistica, il potere sul mondo.
Il "Dio petrolio" funge da pretesto per queste manovre belliche di menti votate alla follia, ottenebrate dall’arrivismo più esasperato, a scapito delle vite umane e della dignità dell’umanità.
Abbiamo assistito a bombardamenti ed evoluzioni belliche, meglio considerabili come messe in scena di conflitto tra i grandi della terra, che alla fine si spartiscono "il bottino", dietro occulte connivenze, a scapito del popolo sottomesso, senza considerazione per il valore dell’umanità e per l’integrità della stessa.
L’età contemporanea, l’era planetaria attuale, esige la risoluzione di esigenze e problematiche ben più pressanti delle guerre, che non coincidono con politiche distruttive ed omicide antiumanitarie, o con lo sterminio e sottomissione di un nemico considerato negativo ed inferiore perché "altro" e "diverso" dal modello di un Occidente supposto emancipato,e presunto essere aperto al progresso.
Le questioni pressanti da risolvere e i gravi problemi planetari sono ben altri rispetto alle spietate logiche belliche vendicative, intrise di orgoglio e superbia nazionalista: dalla grave situazione di degrado ambientale del pianeta, alla ricerca di energie alternative, alla risoluzione della fame nel mondo. La globalizzazione economica viene perseguita a tutti i costi, anche con mezzi illegittimi, ma possiede una crepa incolmabile: la crescita della coscienza dell’umanità intera.
La pace è condivisione di idee, di valori, di opinioni con il fratello, amico e compagno è confronto e costruzione di progetti e speranze, di gioie e dolori, di successi e delusioni, è portare gli uni il peso degli "altri" tramite la tenerezza della dedizione, del dono. La pace è futuro e sarà promotore ed attore di pace chi gioiosamente raggiungerà la meta della condivisione di ogni alterità e diversità nell’altro da noi. Non costruiremo pace se non siamo in grado di trovarci ricchi e importanti gli uni per gli altri, nelle nostre reciproche ed imprescindibili differenze.
Le istanze ed i valori sopra richiamati, benissimo espressi dal manifesto di convocazione della Marcia del 50enario, hanno però bisogno, per concretizzarsi quale materia di responsabilità individuale e collettiva, di un esplicito riferimento, da parte vostra, alla necessità che la nostra Costituzione non venga contraddetta dalle due guerre, che abbiamo citato, in cui l'Italia è attivamente coinvolta.
Sottacere questa realtà, come finora voi fate nel modo in cui comunicate , significa, nei fatti, dare una mano a chi si pone fuori dalla legalità repubblicana e costituzionale; e, nei fatti, tradire la vera volontà dei marciatori, che ripudiano le guerre, non solo in generale ed in astratto, ma partendo da quelle che violano la Costituzione del Paese cui appartengono ed il cui governo eleggono.
Siete in tempo per rimettere nei corretti binari l'iniziativa che state organizzando e vi invitiamo "capitinianamente" a farlo.
Firmato: il CP OSM
LAURA TUSSI: Comitato Promotore Obiezione alle Spese Militari


Venerdì 08 Luglio,2011 Ore: 17:30
 
 

sabato 30 luglio 2011

Oslo come Beirut?


30 luglio 2011
– Giacomo Gabellini

Sull’attentato terroristico che ha insanguinato la Norvegia sono state scritte le cose più disparate.
Al momento, tuttavia, uno dei pochi punti fermi sta nel fatto che il sacro ardore antislamico che domina il circuito informativo è entrato in rotta di collisione con una realtà niente affatto corrispondente ai resoconti e alle ricostruzioni congegnate dalle più “autorevoli” penne impegnate ad intonare all’unisono cori di condanna nei confronti del solito terrorismo islamico richiamandosi a una rivendicazione fatta su internet dal sedicente gruppo “Ansar Al Jihad Al Alami”.
Le stragi dell’11 settembre 2001, di Madrid e Londra hanno indubbiamente insinuato una forte componente pregiudiziale islamofoba in seno alla popolazione europea, che ha a sua volta favorito un processo di rimozione generale di uno degli eventi terroristici che hanno maggiormente scosso i precari equilibri mediorientali, ovvero l’attentato a Rafik Hariri.
Non sono infatti soltanto i morti, l’edificio sventrato, l’utilizzo di un ordigno potete e sofisticato a ricordare sinistramente l’attentato al defunto Primo Ministro libanese, quanto il medesimo modus operandi atto a renderne irrintracciabili i mandanti o a far ricadere i sospetti su altri sogetti.
Nel gergo comunemente impiegato, quegli attentati rispondenti a tale obiettivo sono generalmente iscritti nel novero delle cosiddette “operazioni false flag”.
I più abili pianificatori delle operazioni in questione sono indiscutibilmente gli israeliani, e il Libano ha funto da vero e proprio laboratorio di sperimentazione al riguardo.
Non è un caso che l’ultima operazione a presentare connotati propri alle classiche operazioni false flag riguardi proprio il colossale attentato contro Hariri.
Rafik Hariri è stato un facoltoso e abile uomo d’affari che aveva fatto della propria popolarità e dell’innato fiuto politico il cemento necessario per tenere insieme una maggioranza particolarmente variegata e capace di rappresentare le tre componenti sciita, sunnita e maronita, maggioritarie nel tessuto sociale libanese.
Il successo politico dell’uomo era dovuto principalmente al suo lavoro diplomatico che aveva portato alla fine della sanguinosa guerra civile e consacrato Damasco quale garante di una sorta di pax siriana sul Libano, che pure risultava indigesta a talune personalità di spicco come il generale cristiano Michel Aoun.
Il periodo immediatamente successivo alla pace trascorse all’insegna della ricostruzione e vide le varie componenti sociali libanesi seppellire momentaneamente l’ascia di guerra per profondere congiuntamente gli sforzi necessari a risollevare il paese dalla catastrofe appena conclusasi.
In questo particolare contesto si inserirono gli ultimi rampolli della stirpe Gemayel – Pierre jr. e Sami – eredi del fondatore del capostipite Pierre, fondatore del Partito Falangista cristiano.
Essi ripresero la tradizionale avversione congenita nei confronti della Siria messa momentaneamente in angolo dal partito guidato in quella fase da Karim Pakradouni, la cui vicinanza al governo siriano aveva drasticamente ridimensionato la capacità destabilizzante dei falangisti.
I rapporti di forza che regolavano la situazione politica libanese furono definitivamente ridisegnati nei primi mesi del 2005, dopo che Rafik Hariri si era dimesso dall’incarico di Primo Ministro in segno di protesta contro l’emendamento approvato costituzionalmente atto a prorogare di tre anni la presidenza de Emile Lahoud, sponsorizzato attivamente da Bashar Assad.
Ciò fece in modo che la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato del 14 febbraio che costò la vita ad Hariri venissero istantaneamente attribuite alla Siria, cosa che – amplificata poderosamente dalla grancassa mediatica – favorì il sorgere di un movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari siriani nel Paese.
La sommossa, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, sortì il duplice risultato di costringere Bashar Assad a cedere alle forti pressioni internazionali, dichiarando la fine del protettorato siriano sul Libano oltre all’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese, e di favorire l’ascesa al potere dell’economista Fouad Siniora, che si mostrò immediatamente riconoscente nei confronti di Pierre Gemayel per la funzione antisiriana svolta dal Partito Falangista sotto la sua egida affidandogli l’incarico di Ministro dell’Industria.
La “Rivoluzione dei Cedri” seguì il medesimo schema delle tante rivoluzioni colorate sorte in numerosi paesi vicini alla Russia da eventi, non sempre realmente accaduti o rispondenti alle modalità con cui sono stati presentati, in grado di catalizzare i malcontenti popolari della più svariata natura e creare disordini sociali suscettibili di indebolire o abbattere i governi in carica.
Tuttavia, il governo Siniora mostrò ben presto – come quello di Yushenko in Ucraina – tutta la propria inettitudine e perse rapidamente tutti i vantaggi che aveva ottenuto, giungendo perfino a sciogliere la Corte Costituzionale che l’avrebbe probabilmente dichiarato decaduto alla luce del palese dissolvimento del bacino elettorale che ne aveva decretato il trionfo solo pochi mesi prima.
Il popolare generale cristiano Michel Aoud si schierò allora con il potente movimento sciita di Hezbollah, formando una coalizione nazionalista forte di un vastissimo appoggio popolare e assai invisa a Stati Uniti ed Israele.
Hezbollah, per bocca del leader Hassan Nasrallah, spese al riguardo le seguenti, eloquenti parole: “Non abbiamo fiducia di questo governo che risponde alle decisioni e ai desideri dell’amministrazione americana. Manifestiamo per ottenere la caduta del governo illegittimo e anti-costituzionale, il governo di Feltman”.
Jeffrey Feltman – per inciso – ricopriva all’epoca l’incarico di assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente.
In quella specifica fase in cui la struttura portante del governo Siniora presentava crepe sempre più profonde si verificò l’enigmatico omicidio di Pierre jr. Gemayel, che era un uomo politico dal basso profilo ma dall’altisonante cognome, in grado di suscitare le più irrazionali pulsioni in seno alla nutrita e turbolenta componente cristiana del Libano.
La sua chiara posizione antisiriana orientò ancora una volta i sospetti sul governo di Damasco, cosa potenzialmente destabilizzante e suscettibile di spezzare l’integrità sociale libanese e rigettando il paese nel caos.
Una vicenda simile era accaduta nel 1982 al più famoso dei Gemayel, quel Bashir che era caduto in un megattentato pochi giorni prima di esser nominato Presidente con il forte sostegno di Israele e specificamente dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon.
L’atto terroristico fu anche all’epoca attribuito alla Siria che si era da poco schierata in difesa dei profughi palestinesi e provocò la spaventosa ritorsione dei falangisti i quali, forti del supporto logistico dell’esercito israeliano, pepetrarono il ben noto massacro nei campi di Chabra e Chatila delle altrettanto ben note dimesioni.
L’obiettivo di Israele è sempre stato quello di destabilizzare il Libano e la resistenza sciita, dalla quale è nato Hezbollah, è stata l’unica forza in grado di contenere la soverchiante macchina militare meglio nota come Tsahal.
Nell’estate di quel rovente 1982 Israele sferrò l’operazione “Pace in Galilea”, nell’ambito della quale caddero circa 20.000 civili libanesi (e palestinesi) e un terzo del territorio nazionale cadde in mano all’esercito di Tel Aviv.
Mentre Hezbollah raccoglieva adepti in seno alla società libanese Tsahal non riusciva a piegare la resistenza sciita e incassava inaspettate perdite lungo le alture di Khaldeh.
Nel 1985, l’ostinazione di Hezbollah costrinse Israele a ritirarsi da numerosi villaggi e dalle principali città di Tiro e Sidone.
Nel luglio del 1993 il capo di Stato Maggiore Ehud Barak intimò al servile governo centrale di Beirut il diktat di disarmare i “terroristi” di Hezbollah o di accettare le inevitabili conseguenze dell’eventuale inadempienza.
Nel frattempo Hezbollah aveva però acquisito un peso tale da rendere impossibile ogni iniziativa del governo in tal senso ed Israele decise quindi di passare alle maniere forti sferrando l’operazione “Accountability”, durante la quale vennero effettuati più di 1.000 raid aerei corrispondenti ad altrettanti bombardamenti sulle città libanesi.
Il Mossad aveva però sottostimato la capacità di reazione di Hezbollah e agì seguendo una colossale, malriposta fiducia nei propri servizi.
Hezbollah e le varie fazioni della resistenza libanese ribadirono infatti colpo su colpo provocando uno stallo che culminò con una tregua che entrò in vigore il 31 luglio del 1993.
Di fronte all’inaspettata reazione libanese, il Primo Ministro Itzak Rabin fu costretto ad ammettere la sconfitta.
Nell’aprile di tre anni dopo ebbe luogo l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro, provocando la morte di numerosi civili e la distruzione di case e infrastrutture.
Tuttavia Hezbollah aveva studiato le tattiche israeliane e tratto i debiti insegnamenti dai passati conflitti, anticipando le mosse di Tsahal e infliggendo forti perdite mediante operazioni di guerriglia che le numerose milizie a disposizione erano state addestrate specificamente ad eseguire.
Seguì un’ulteriore tregua patrocinata dal Ministro degli Esteri statunitense Warren Christopher.
L’opinione pubblica israeliana interpretò il tutto come una sconfitta, cosa che compromise la rielezione di Shimon Peres in seguito alle elezioni del maggio 1996.
Nell’estate del 2006 si verificò l’ennesima aggressione israeliana, che causò numerose vittime e immani distruzioni.
Sortì però un effetto politico del tutto inaspettato, che corrispose con in consolidamento dell’asse cristiano (maronita) – sciita promosso dai rispettivi leader Michel Aoun e Hassan Nasrallah e la conseguente formazione di un fronte patriottico unito fortemente ostile ad Israele.
Gli attentati descritti in precedenza vanno collocati in questo contesto generale in cui emerge l’inesausto tentativo israeliano di creare fratture in seno alla variegata e complessa società libanese.
Il fatto che rispondano in pieno all’obiettivo e siano in tutto e per tutto funzionali allo scopo è un fattore assolutamente centrale che non può essere ignorato.
Il “cui prodest” di Damasco negli assassinii politici dei Gemayel e di Rafik Hariri è sempre stato debolissimo, in quanto avrebbe inevitabilmente attirato sonore condanne internazionali e provocato forti sollevazioni popolari antisiriane, cosa che invece giova ad Israele, paese che nutre chiare ed inoppugnabili ambizioni egemoniche sul Levante e sul Vicino e Medio Oriente.
Anche per quanto riguarda gli atti terroristici di Oslo e dell’isola di Utoya il “cui prodest” di Israele è niente affatto irrilevante.
La Norvegia è l’unico paese europeo ad appoggiare ufficialmente la causa palestinese, promettendo di riconoscere l’indipendenza che Abu Mazen si accinge a proclamare unilateralmente.
Egli è stato accolto ad Oslo lo scorso 18 luglio dal Ministro degli Esteri Jonas Gahr Store che nel frattempo gli ha riconosciuto lo status di ambasciatore.
Il giorno seguente, Eskil Pederse, il portavoce dei giovani del partito AUF presi di mira dalla furia dell’attentatore John Behring Breivik ha condannato pubblicamente la politica israeliana auspicando l’applicazione di sanzioni e l’embargo economico da parte della Norvegia nei confronti del regime di Tel Aviv.
Aziende israeliane sono state escluse da bandi indetti in Norvegia per ragioni etiche, suscitando l’ira del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che ha accusato il governo di Oslo di promuovere l’antisemitismo.
Il profilo dell’attentatore tracciato finora corrisponde a quello di un fiero sionista afflitto da tremende smanie islamofobe.
L’ordigno che ha impiegato per far saltare il palazzo governativo norvegese ha prodotto un’esplosione di una potenza tale da ricordare quella dell’autobomba collocata dinnanzi all’hotel Saint Georges dove perse la vita Rafik Hariri o quella provocata dai 300 chili di tritolo che dilaniarono Bashir Gemayel.
Al momento non vi sono certezze ed è possibile solo ragionare nel campo delle possibilità, naturalmente.
Tuttavia, quando si tratta di terrorismo, è sempre bene diffidare delle soluzioni semplicistiche (il classico pazzo solitario) generalmente propinate dagli organi di informazione di massa, incapaci di attribuire talune azioni al cosiddetto “campo democratico”.
Occorre individuare e soppesare gli interessi in gioco, seguire i percorsi del denaro e sapersi districare nel colossale groviglio di menzogne, mezze verità, omissioni e depistaggi che rendono impervia la strada che conduce alla verità.
L’Europa è stata devastata da una miriadi di stragi – come quelle di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, di Peteano, di Bologna, dell’Oktoberfest, del Brabante – commesse da taluni elementi connessi a Gladio.
Dall’analisi delle stragi in questione si trae la conclusione che gli esecutori materiali del terrorismo sono generalmente mera manovalanza, quasi sempre reclutata – spesso inconsapevolmente – da enti o organizzazioni titolari di interessi direttamente legati all’eversione.
Nel caso specifico Israele ha interessi assolutamente primari nella destabilizzazione di un paese solidale con i palestinesi come la Norvegia, il cui esempio potrebbe ipoteticamente innescare un effetto domino sulle altre nazioni europee.
Ignorare questo significa voltare le spalle alla realtà.



Oslo come Beirut? – Giacomo Gabellini

Sull’attentato terroristico che ha insanguinato la Norvegia sono state scritte le cose più disparate.
Al momento, tuttavia, uno dei pochi punti fermi sta nel fatto che il sacro ardore antislamico che domina il circuito informativo è entrato in rotta di collisione con una realtà niente affatto corrispondente ai resoconti e alle ricostruzioni congegnate dalle più “autorevoli” penne impegnate ad intonare all’unisono cori di condanna nei confronti del solito terrorismo islamico richiamandosi a una rivendicazione fatta su internet dal sedicente gruppo “Ansar Al Jihad Al Alami”.
Le stragi dell’11 settembre 2001, di Madrid e Londra hanno indubbiamente insinuato una forte componente pregiudiziale islamofoba in seno alla popolazione europea, che ha a sua volta favorito un processo di rimozione generale di uno degli eventi terroristici che hanno maggiormente scosso i precari equilibri mediorientali, ovvero l’attentato a Rafik Hariri.
Non sono infatti soltanto i morti, l’edificio sventrato, l’utilizzo di un ordigno potete e sofisticato a ricordare sinistramente l’attentato al defunto Primo Ministro libanese, quanto il medesimo modus operandi atto a renderne irrintracciabili i mandanti o a far ricadere i sospetti su altri sogetti.
Nel gergo comunemente impiegato, quegli attentati rispondenti a tale obiettivo sono generalmente iscritti nel novero delle cosiddette “operazioni false flag”.
I più abili pianificatori delle operazioni in questione sono indiscutibilmente gli israeliani, e il Libano ha funto da vero e proprio laboratorio di sperimentazione al riguardo.
Non è un caso che l’ultima operazione a presentare connotati propri alle classiche operazioni false flag riguardi proprio il colossale attentato contro Hariri.
Rafik Hariri è stato un facoltoso e abile uomo d’affari che aveva fatto della propria popolarità e dell’innato fiuto politico il cemento necessario per tenere insieme una maggioranza particolarmente variegata e capace di rappresentare le tre componenti sciita, sunnita e maronita, maggioritarie nel tessuto sociale libanese.
Il successo politico dell’uomo era dovuto principalmente al suo lavoro diplomatico che aveva portato alla fine della sanguinosa guerra civile e consacrato Damasco quale garante di una sorta di pax siriana sul Libano, che pure risultava indigesta a talune personalità di spicco come il generale cristiano Michel Aoun.
Il periodo immediatamente successivo alla pace trascorse all’insegna della ricostruzione e vide le varie componenti sociali libanesi seppellire momentaneamente l’ascia di guerra per profondere congiuntamente gli sforzi necessari a risollevare il paese dalla catastrofe appena conclusasi.
In questo particolare contesto si inserirono gli ultimi rampolli della stirpe Gemayel – Pierre jr. e Sami – eredi del fondatore del capostipite Pierre, fondatore del Partito Falangista cristiano.
Essi ripresero la tradizionale avversione congenita nei confronti della Siria messa momentaneamente in angolo dal partito guidato in quella fase da Karim Pakradouni, la cui vicinanza al governo siriano aveva drasticamente ridimensionato la capacità destabilizzante dei falangisti.
I rapporti di forza che regolavano la situazione politica libanese furono definitivamente ridisegnati nei primi mesi del 2005, dopo che Rafik Hariri si era dimesso dall’incarico di Primo Ministro in segno di protesta contro l’emendamento approvato costituzionalmente atto a prorogare di tre anni la presidenza de Emile Lahoud, sponsorizzato attivamente da Bashar Assad.
Ciò fece in modo che la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato del 14 febbraio che costò la vita ad Hariri venissero istantaneamente attribuite alla Siria, cosa che – amplificata poderosamente dalla grancassa mediatica – favorì il sorgere di un movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari siriani nel Paese.
La sommossa, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, sortì il duplice risultato di costringere Bashar Assad a cedere alle forti pressioni internazionali, dichiarando la fine del protettorato siriano sul Libano oltre all’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese, e di favorire l’ascesa al potere dell’economista Fouad Siniora, che si mostrò immediatamente riconoscente nei confronti di Pierre Gemayel per la funzione antisiriana svolta dal Partito Falangista sotto la sua egida affidandogli l’incarico di Ministro dell’Industria.
La “Rivoluzione dei Cedri” seguì il medesimo schema delle tante rivoluzioni colorate sorte in numerosi paesi vicini alla Russia da eventi, non sempre realmente accaduti o rispondenti alle modalità con cui sono stati presentati, in grado di catalizzare i malcontenti popolari della più svariata natura e creare disordini sociali suscettibili di indebolire o abbattere i governi in carica.
Tuttavia, il governo Siniora mostrò ben presto – come quello di Yushenko in Ucraina – tutta la propria inettitudine e perse rapidamente tutti i vantaggi che aveva ottenuto, giungendo perfino a sciogliere la Corte Costituzionale che l’avrebbe probabilmente dichiarato decaduto alla luce del palese dissolvimento del bacino elettorale che ne aveva decretato il trionfo solo pochi mesi prima.
Il popolare generale cristiano Michel Aoud si schierò allora con il potente movimento sciita di Hezbollah, formando una coalizione nazionalista forte di un vastissimo appoggio popolare e assai invisa a Stati Uniti ed Israele.
Hezbollah, per bocca del leader Hassan Nasrallah, spese al riguardo le seguenti, eloquenti parole: “Non abbiamo fiducia di questo governo che risponde alle decisioni e ai desideri dell’amministrazione americana. Manifestiamo per ottenere la caduta del governo illegittimo e anti-costituzionale, il governo di Feltman”.
Jeffrey Feltman – per inciso – ricopriva all’epoca l’incarico di assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente.
In quella specifica fase in cui la struttura portante del governo Siniora presentava crepe sempre più profonde si verificò l’enigmatico omicidio di Pierre jr. Gemayel, che era un uomo politico dal basso profilo ma dall’altisonante cognome, in grado di suscitare le più irrazionali pulsioni in seno alla nutrita e turbolenta componente cristiana del Libano.
La sua chiara posizione antisiriana orientò ancora una volta i sospetti sul governo di Damasco, cosa potenzialmente destabilizzante e suscettibile di spezzare l’integrità sociale libanese e rigettando il paese nel caos.
Una vicenda simile era accaduta nel 1982 al più famoso dei Gemayel, quel Bashir che era caduto in un megattentato pochi giorni prima di esser nominato Presidente con il forte sostegno di Israele e specificamente dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon.
L’atto terroristico fu anche all’epoca attribuito alla Siria che si era da poco schierata in difesa dei profughi palestinesi e provocò la spaventosa ritorsione dei falangisti i quali, forti del supporto logistico dell’esercito israeliano, pepetrarono il ben noto massacro nei campi di Chabra e Chatila delle altrettanto ben note dimesioni.
L’obiettivo di Israele è sempre stato quello di destabilizzare il Libano e la resistenza sciita, dalla quale è nato Hezbollah, è stata l’unica forza in grado di contenere la soverchiante macchina militare meglio nota come Tsahal.
Nell’estate di quel rovente 1982 Israele sferrò l’operazione “Pace in Galilea”, nell’ambito della quale caddero circa 20.000 civili libanesi (e palestinesi) e un terzo del territorio nazionale cadde in mano all’esercito di Tel Aviv.
Mentre Hezbollah raccoglieva adepti in seno alla società libanese Tsahal non riusciva a piegare la resistenza sciita e incassava inaspettate perdite lungo le alture di Khaldeh.
Nel 1985, l’ostinazione di Hezbollah costrinse Israele a ritirarsi da numerosi villaggi e dalle principali città di Tiro e Sidone.
Nel luglio del 1993 il capo di Stato Maggiore Ehud Barak intimò al servile governo centrale di Beirut il diktat di disarmare i “terroristi” di Hezbollah o di accettare le inevitabili conseguenze dell’eventuale inadempienza.
Nel frattempo Hezbollah aveva però acquisito un peso tale da rendere impossibile ogni iniziativa del governo in tal senso ed Israele decise quindi di passare alle maniere forti sferrando l’operazione “Accountability”, durante la quale vennero effettuati più di 1.000 raid aerei corrispondenti ad altrettanti bombardamenti sulle città libanesi.
Il Mossad aveva però sottostimato la capacità di reazione di Hezbollah e agì seguendo una colossale, malriposta fiducia nei propri servizi.
Hezbollah e le varie fazioni della resistenza libanese ribadirono infatti colpo su colpo provocando uno stallo che culminò con una tregua che entrò in vigore il 31 luglio del 1993.
Di fronte all’inaspettata reazione libanese, il Primo Ministro Itzak Rabin fu costretto ad ammettere la sconfitta.
Nell’aprile di tre anni dopo ebbe luogo l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro, provocando la morte di numerosi civili e la distruzione di case e infrastrutture.
Tuttavia Hezbollah aveva studiato le tattiche israeliane e tratto i debiti insegnamenti dai passati conflitti, anticipando le mosse di Tsahal e infliggendo forti perdite mediante operazioni di guerriglia che le numerose milizie a disposizione erano state addestrate specificamente ad eseguire.
Seguì un’ulteriore tregua patrocinata dal Ministro degli Esteri statunitense Warren Christopher.
L’opinione pubblica israeliana interpretò il tutto come una sconfitta, cosa che compromise la rielezione di Shimon Peres in seguito alle elezioni del maggio 1996.
Nell’estate del 2006 si verificò l’ennesima aggressione israeliana, che causò numerose vittime e immani distruzioni.
Sortì però un effetto politico del tutto inaspettato, che corrispose con in consolidamento dell’asse cristiano (maronita) – sciita promosso dai rispettivi leader Michel Aoun e Hassan Nasrallah e la conseguente formazione di un fronte patriottico unito fortemente ostile ad Israele.
Gli attentati descritti in precedenza vanno collocati in questo contesto generale in cui emerge l’inesausto tentativo israeliano di creare fratture in seno alla variegata e complessa società libanese.
Il fatto che rispondano in pieno all’obiettivo e siano in tutto e per tutto funzionali allo scopo è un fattore assolutamente centrale che non può essere ignorato.
Il “cui prodest” di Damasco negli assassinii politici dei Gemayel e di Rafik Hariri è sempre stato debolissimo, in quanto avrebbe inevitabilmente attirato sonore condanne internazionali e provocato forti sollevazioni popolari antisiriane, cosa che invece giova ad Israele, paese che nutre chiare ed inoppugnabili ambizioni egemoniche sul Levante e sul Vicino e Medio Oriente.
Anche per quanto riguarda gli atti terroristici di Oslo e dell’isola di Utoya il “cui prodest” di Israele è niente affatto irrilevante.
La Norvegia è l’unico paese europeo ad appoggiare ufficialmente la causa palestinese, promettendo di riconoscere l’indipendenza che Abu Mazen si accinge a proclamare unilateralmente.
Egli è stato accolto ad Oslo lo scorso 18 luglio dal Ministro degli Esteri Jonas Gahr Store che nel frattempo gli ha riconosciuto lo status di ambasciatore.
Il giorno seguente, Eskil Pederse, il portavoce dei giovani del partito AUF presi di mira dalla furia dell’attentatore John Behring Breivik ha condannato pubblicamente la politica israeliana auspicando l’applicazione di sanzioni e l’embargo economico da parte della Norvegia nei confronti del regime di Tel Aviv.
Aziende israeliane sono state escluse da bandi indetti in Norvegia per ragioni etiche, suscitando l’ira del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che ha accusato il governo di Oslo di promuovere l’antisemitismo.
Il profilo dell’attentatore tracciato finora corrisponde a quello di un fiero sionista afflitto da tremende smanie islamofobe.
L’ordigno che ha impiegato per far saltare il palazzo governativo norvegese ha prodotto un’esplosione di una potenza tale da ricordare quella dell’autobomba collocata dinnanzi all’hotel Saint Georges dove perse la vita Rafik Hariri o quella provocata dai 300 chili di tritolo che dilaniarono Bashir Gemayel.
Al momento non vi sono certezze ed è possibile solo ragionare nel campo delle possibilità, naturalmente.
Tuttavia, quando si tratta di terrorismo, è sempre bene diffidare delle soluzioni semplicistiche (il classico pazzo solitario) generalmente propinate dagli organi di informazione di massa, incapaci di attribuire talune azioni al cosiddetto “campo democratico”.
Occorre individuare e soppesare gli interessi in gioco, seguire i percorsi del denaro e sapersi districare nel colossale groviglio di menzogne, mezze verità, omissioni e depistaggi che rendono impervia la strada che conduce alla verità.
L’Europa è stata devastata da una miriadi di stragi – come quelle di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, di Peteano, di Bologna, dell’Oktoberfest, del Brabante – commesse da taluni elementi connessi a Gladio.
Dall’analisi delle stragi in questione si trae la conclusione che gli esecutori materiali del terrorismo sono generalmente mera manovalanza, quasi sempre reclutata – spesso inconsapevolmente – da enti o organizzazioni titolari di interessi direttamente legati all’eversione.
Nel caso specifico Israele ha interessi assolutamente primari nella destabilizzazione di un paese solidale con i palestinesi come la Norvegia, il cui esempio potrebbe ipoteticamente innescare un effetto domino sulle altre nazioni europee.
Ignorare questo significa voltare le spalle alla realtà.

giovedì 28 luglio 2011

SU "CRESIA" I FULMINI DI DON PAOLO TAMMI & C.o

di PAOLO FADDA, Presidente di CRESIA - 26/07/2011

""Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Tempio Vincenzo Cristiano, in base alla richiesta del PM di quel tribunale Mario D’Onofrio, con provvedimento depositato in Cancelleria il 18 luglio scorso, ha disposto il sequestro preventivo della pagina web sul sito www.cresia.infoLettera a Benedetto XVI sul malgoverno della diocesi cagliaritana”, eseguito poi, in data 25 luglio dalla Polizia postale del Compartimento della Sardegna"".



Il provvedimento del GIP è stato assunto in dipendenza del “procedimento penale nei confronti di BANDINU Bachisio”, aperto per le indagini conseguenti in ordine al reato di cui all’art 595 co. 2 e 3 art. 13 della legge 47 del 1948, “commesso ai danni di TAMMI Paolo”(è il parroco romano autore della denuncia al tribunale ecclesiastico contro il diacono cagliaritano Michele Pirasn.d.r.) .



Nel corso delle indagini, eseguite dai funzionari della polizia postale, l’indizio per un analogo reato è stato anche esteso a FADDA Paolo, quale legale rappresentante dell’associazione CRESIA, editrice del sito sopra indicato.



* * *



Questi i documentivalidi per entrambi “come informazione di garanzia”che in questi giorni sono stati loro notificati formalmente a cura della squadra di PG. della polizia postale. Da ieri 25, quindi, dal nostro sito non è più leggibile il testo della lettera, sostituito dalla dicitura “”Tribunale di Tempio Pausaniapagina sottoposta a sequestro preventivo penale””.



Così, quella vicenda a tutti nota come “la ribellione di Sant’Eulalia” al suo Vescovo per via della rimozione di un parroco, molto amato e stimato, viene fatta uscire dallo stretto e riservato ambito dell’amministrazione ecclesiastica per entrare in quello dei tribunali dello Stato, certamente assai più “aperti” ad ogni, anche incontrollabile, risonanza mediatica.



C’è certamente in noi di CRESIA, scrivendo quest’ informativa, molto sconforto ed altrettanto turbamento: innanzitutto perché questo risvolto di quella amara vicenda estenderà inevitabilmente la eco mediatica di quel che in quella lettera avrebbe motivato la risentita denuncia del parroco romano; ed ancora, ma non secondariamente, perché l’invito delle massime autorità vaticane a segnalare quanto ritenuto di non consono all’etica ed al servizio sacerdotale, risulterebbe essere niente più che una vacua e sterile dichiarazione di buone intenzioni.



Quel che stupisce – e lo scriviamo qui con profonda amarezzaè che in quella lettera al Santo Padre il “caso” del parroco e del diacono era parte minoritaria (e non sostanziale) di un lungo ed argomentato “cahiers de doleance” espresso da numerosi fedeli sulle sofferenze in atto nella Chiesa cagliaritana per via di un pervicace e iniquo dispotismo vescovile.



Forse sarebbe stato più opportuno (se non più giusto) non oscurare quei sette punti (come i vizi capitali) con cui si segnalavano al Papa i maggiori e controversi aspetti dell’attuale governo diocesano. Ma tant’è. Noi di CRESIA, comunque, non abbandoneremo la trincea che abbiamo costruito per difendere, contro ogni intimidazione e sopruso, la libertà di parola e la dignità ecclesiastica del laicato cristiano di Cagliari. Continueremo il nostro impegno con determinazione e coraggio ancora maggiori perché si è convinti, fortemente convinti, che a questa nostra Chiesa che è in Cagliari occorra un salutare lavacro, perché possa riprendere il suo cammino, operoso nella fede e fertile di successi, sempre accompagnata dalla guida salvifica del Vangelo.


mercoledì 27 luglio 2011

ROMA RICORDI AL VESCOVO MANI CHE I CAPI SONO I SERVI E' stato pubblicato oggi 17 luglio, fra gli editoriali di SARDEGNA 24, il nuovo quotidiano isolano, un articolo di SALVATORE CUBEDDU, nostro redattore oltre che vice presidente di Cresia. Questo avviene nella ricorrenza dei cosiddetti "fatti di Sant'Eulalia" che furono una pagina assai triste non solo per i fedeli di quella parrocchia ma per l'intera Chiesa diocesana. Con l'autorizzazione dell'autore - e con la citazione del giornale che l'ha pubblicato con grande evidenza (vi è anche a pag. 28 una bella cronaca della nostra giornata ecclesiastica di Serdiana) - lo pubblichiamo integralmente per l'interesse che ha e per l'intelligente contenuto che aggiunge nuova e importante linfa vitale alle nostre argomentazioni sull'uso e sull'abuso del potere come in atto nella nostra Chiesa.
di SALVATORE CUBEDDU - 17/07/2011

lunedì 25 luglio 2011

Un point de vue russe: "Le monde est en train de perdre la guerre du terrorisme"
Sergueï Karaganov
9 octobre 2006, 19:01

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"Taire le fait que les leçons du 11 septembre n'ont pas été comprises ou ont été mal comprises serait irresponsable à la fois vis-à-vis des victimes et du point de vue de la déontologie." – A titre documentaire, nous publions l'analyse de Sergueï Karaganov, président du praesidium du Conseil en charge de la politique extérieure et de défense de la Fédération de Russie, texte dont la traduction française nous a aimablement été communiqué par l'agence Novosti. Il nous offre en effet un très utile aperçu sur la réflexion stratégique au sujet du terrorisme en Russie.
Copyright 2006 Brandon Jennings (via iStockPhotos).
Je n'ai pas voulu écrire cet article au moment de l'anniversaire de l'attentat monstrueux du 11 septembre 2001. Sa grande idée - le monde est en train de perdre la guerre du terrorisme - aurait fait l'effet d'une dissonance inconvenante sur la toile de fond de l'évocation amère des nombreuses victimes innocentes qui avaient trouvé la mort ce jour-là.

Mais taire le fait que les leçons du 11 septembre n'ont pas été comprises ou ont été mal comprises serait irresponsable à la fois vis-à-vis des victimes et du point de vue de la déontologie.

La guerre contre le terrorisme n'est pas perdue sur touts les fronts. Elle connaît aussi quelques victoires. Tactiques il est vrai, pour la plupart d'entre elles. Nous avons livré en Tchétchénie le premier combat contre l'expansion du terrorisme islamiste belliqueux et nous l'avons gagné, à un prix monstrueux il est vrai. Les projets de création d'un califat islamique s'étendant de la mer Noire à la Caspienne, et qui aurait probablement remonté la Volga par la suite, ont été mis en échec. Ceux qui, en Russie, penchaient en faveur de la branche agressive de l'islam et recevaient un soutien externe ont reçu une cruelle leçon. Il n'y a plus, à ma connaissance, de medersa wahhabite en Russie.

Une bataille a été gagnée, mais pas la guerre. La Russie s'est engagée dans la voie d'une dissuasion militaro-psychologique de l'extrémisme et du séparatisme. Mais très peu de choses ont été entreprises en vue de tarir leurs sources: la misère, le faible niveau de développement dans plusieurs régions du Caucase septentrional peuplées majoritairement de musulmans russes.

Les Américains ont, pour leur part, remporté deux victoires tactiques. Avec notre aide et celle de l'Iran, ils ont défait les talibans qui déferlaient inexorablement sur les républiques du Sud de l'ex-URSS. Al-Qaïda a été privée de nombreuses bases. Mais l'organisation n'a pas disparu, n'a pas été détruite.

L'autre victoire tactique de Washington, c'est d'avoir réussi à éviter la répétition de la tragédie du 11 septembre, en s'appuyant sur des mesures de sécurité intérieure qui ont fortement entamé l'attrait pour la société américaine. D'avoir réussi, pour l'instant.

Les services secrets ont pu, chacun de leur côté ou ensemble, parfois, éviter un nombre non négligeable d'attentats en Russie et dans d'autres pays européens. Mais un nombre tout aussi peu négligeable d'attentats terribles a eu lieu.

Mais l'essentiel n'est pas là. Les Américains ont décidé qu'il fallait combattre le terrorisme en imposant de force la démocratie et ils sont entrés en Irak.

Politiquement, ils ont déjà perdu la guerre. Le pays s'est enfoncé pour des années dans le gouffre de la guerre civile, s'est transformé en un vaste polygone formant les futurs terroristes de tous poils. Lorsque les Américains partiront, et il ne s'agit pas d'un événement si lointain, toute cette internationale terroriste commencera à se disperser dans toutes les directions. Dans notre direction aussi, je le crains.

Ce qui était déjà une évidence avant, est bien clair aujourd'hui: il est impossible de détruire des structures en réseau de type Al-Qaïda par des opérations militaires de grande envergure. Il semble au contraire qu'elles gagnent en volume.

Presque rien n'a été fait, ces dernières années, pour développer un vaste dialogue bien pensé entre les civilisations, pour contribuer à entraîner dans une modernisation douce les Etats et les élites du Proche-Orient musulman qui accusent un retard sur le monde du progrès. L'Occident, les dirigeants américains plutôt, n'ont pas trouvé le moyen de comprendre que les sentiments anti-occidentaux, anti-chrétiens, ne revêtaient pas pour la plupart d'entre eux un caractère culturel, de valeur, pas même un caractère religieux. Ben Laden ne se répand pas particulièrement en imprécations contre la culture occidentale. Cet état d'esprit est issu, pour une large part, de la politique manifestement injuste menée par l'Occident à l'égard des pays de cette région. Ce sentiment, multiplié par le retard historique de la région - je me suis maintes fois expliqué sur ses causes - fait naître un "syndrome de Weimar" musulman qui va en s'élargissant et en s'approfondissant.

Mais l'Occident n'est pas le seul responsable de la montée des sentiments anti-occidentaux. Les émules de Ben Laden, qui se multiplient, ne font pas qu'être sur la défensive ou se venger. Ils passent aussi à l'offensive. Dans le but d'éradiquer l'influence militaro-politique occidentale, et extérieure plus généralement, sur le Grand Proche-Orient, de renverser les régimes islamiques relativement modérés et d'installer au pouvoir un islam politique radical.

Le pire est qu'ayant compris que l'Occident était en train de perdre à cause des erreurs monstrueuses des Etats-Unis ou de l'inaction de fait de l'Europe, les pays occidentaux ont adopté une politique de défense sur le front idéologique également. Il ne s'agit pas de justifier les caricatures imbéciles du journal danois ou les récentes déclarations, pas vraiment politiquement correctes, du pape Benoît XVI sur "l'agressivité de l'islam". Mais présenter des excuses, au niveau officiel qui plus est, pour la bêtise ou des formulations imprécises avec, en toile de fond, les pogroms organisés qu'elles auraient soi-disant provoqués? Cette façon d'apaiser l'agresseur éveille l'appétit des islamistes belliqueux, leur donne l'impression qu'il est possible de vaincre l'Occident (et nous constituons à leurs yeux une partie de l'Occident, quoique plus faible et moins mal intentionnée).

Le fait d'imposer de manière agressive et sans succès la démocratie, qui suscite protestations et moqueries, couplé au fait de calmer idéologiquement des revendications absurdes, tout particulièrement dans le cadre des torrents d'injures et de menaces proférées à l'encontre de l'Occident, de la chrétienté et du judaïsme par les religieux et les officiels du Grand Proche-Orient, font tout simplement figure d'infantilisme politique.

Que doit faire la Russie alors que le monde roule vers une guerre de civilisation à cause de ce mélange détonnant de messianisme démocratique et islamique, d'agressivité et d'apaisement? Tout d'abord, ne pas servir de champ de bataille pour cette guerre vers laquelle on nous pousse obligeamment.

Deuxièmement: développer au plus vite des structures de coopération et de sécurité pour la région de l'Asie centrale et du Moyen-Orient avec les pays qui n'ont pas encore accumulé les erreurs, qui jouissent de prestige. Cela concerne l'Inde et la Chine avant tout. L'Organisation de coopération de Shanghai peut combler le vide de méfiance et détourner la guerre des civilisations.

Troisièmement: lutter autant que faire se peut contre la prolifération des armes nucléaires dans la région du Grand Proche-Orient, avec tous les partenaires possibles mais pas à nos frais. Nous sommes opposés à ce que l'Iran devienne une puissance nucléaire, mais nous ne voulons ni ne pouvons nous permettre d'avoir ce pays pour ennemi.

Quatrièmement: si les armes nucléaires commencent à proliférer, tombent entre les mains de groupes irresponsables ou de terroristes, ce qui est assez probable à la suite, par exemple, d'une explosion politique et sociale prévisible au Pakistan, il faut être prêt à prendre les mesures les plus fermes. Les discours officiels rejettent le recours à l'arme nucléaire quelle que soit la situation mais je pense que nous n'avons pas le droit d'exclure cette possibilité.

Cinquièmement, enfin: il faut démultiplier les efforts pour atténuer le conflit, pour élargir le dialogue des civilisations, éviter d'être entraîné dans un conflit de civilisation. Nous devons adopter une politique de neutralité armée. Qui n'est jamais totale, comme on le sait. Il faut chercher à éviter une situation qui nous mettrait dans l'obligation de choisir. Nous avons déjà fait le choix une fois en Tchétchénie. Il serait vexant de devoir faire encore une fois ce type de choix à cause de la bêtise, du messianisme du fanatisme ou de l'escapisme politique des autres.

Sergueï Karaganov
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