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sabato 29 ottobre 2011

Papa Giovanni patrono dell'esercito? Fuori di testa...



“Alienum est a ratione”. È un latino facile. Vuole dire: “È fuori dalla ragione”, “fuori di testa “, “roba da persone disturbate mentalmente”. È un’espressione usata da Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in Terris (1963), dove si afferma che ritenere che le guerre possano portare alla pace “alienum est a ratione”.
da Altreconomia
Autore: Francesco Vignarca
Papa Giovanni patrono dell'esercito?
fuori di testa...
L'Ordinario Militare celebra una messa per promuovere il culto come patrono dell'Esercito del "papa buono", che ha definito la guerra una cosa fuori da ogni ragione
"Alienum est a ratione"... cioè una cosa che non si può nemmeno pensare, che non c'entra nulla con la ragione. In pratica, una cosa "fuori di testa". E' tale la definizione che Papa Giovanni XXIII fa della guerra nella sua Lettera Enciclica "Pacem in terris" del 1963. Una pagina meditata, tra le ultime del suo Pontificato, che costituisce ancora oggi una riflessione ed un manifesto forte e concreto sul tema della Pace e della sua costruzione. Che tanto si deve allontanare dalle vie della guerra.
E cosa ti pensano invece all'Ordinariato Militare per l'Italia? Di celebrare una Messa (officiata il 24 ottobre 2011 in Santa Maria in Aracoeli) per promuovere la devozione quale santo patrono dell'Esercito... Non si potevano scegliere i santi guerrieri dell'antichità, o qualche bellicosa figura più vicino ai nostri tempi? E' stato necessario andare a scomodare il "Papa buono", che mai si penserebbe legato ad armi, divise, gradi e mostrine... E che invece ha avuto la forza di scrivere (sempre nella "Pacem in terris") parole chiare e forti a favore del disarmo:
"Ci è pure doloroso costatare come nelle comunità politiche economicamente più sviluppate si siano creati e si continuano a creare armamenti giganteschi; come a tale scopo venga assorbita una percentuale altissima di energie spirituali e di risorse economiche; gli stessi cittadini di quelle comunità politiche siano sottoposti a sacrifici non lievi; mentre altre comunità politiche vengono, di conseguenza, private di collaborazioni indispensabili al loro sviluppo economico e al loro progresso sociale".
Questo accostamento ardito, questa scelta che appare davvero irrazionale ed insensata forse, al contrario, non lo è per niente. E nasconde invece un calcolo preciso, e l'intenzione di procedere sempre di più a sdoganare un tema difficile come la guerra rendendolo (almeno simbolicamente) innocuo e tranquillo, tale da non destare acluna preoccupazione. Una strada che si è iniziata a percorrere da quando gli interventi militari in aree di conflitto (giusti o sbagliati che siano, qui poco importa) hanno mutato il loro nome in "missioni di pace" o "interventi umanitari".
A mio parere questo percorso che pare di imposizione politica e culturale nasconde al contrario una grande debolezza: quella di chi non sa più giustificare le proprie scelte dolorose - per la violenza che automaticamente deve seguirne e le grandi risorse che allo scopo vengono quindi sottratte ad utilizzi socialmente più vantaggiosi - se non incartandole con parole e richiami del campo contrario. Il tentativo, un po' infantile e speriamo vano, di travestire il "lupo guerra" da tenero agnellino.
Senza capire che solo l'eliminazione della guerra e delle sue strutture e strumenti dall'orizzonte della ragione e della politica potrà infine cancellare la guerra stessa dalla storia. E mi piace pensare che, di fronte a questa recente notizia, lo stesso Giovanni XXIII, il papa buono delle carezze ai bambini, si sarebbe lasciato scappare la frase (magari detta con il suo schietto accento bergamasco): "E' proprio una cosa fuori di testa...."
LA BESTEMMIA
di Paolo Farinella, prete
Genova 26-30 ottobre 2011. Il mio amico Enrico Peyretti mi manda questa sconvolgente notizia: «Il 24 ottobre 2011, al beato Giovanni XXIII papa è stata dedicata a Roma, nella Basilica di Santa Maria in Aracoeli, una santa Messa per promuoverne la devozione, quale Santo Patrono dell’Esercito».
Da dove nasce questa bestialità? Continua Peyretti: ««Dal fatto che a venti anni, il chierico Angelo Giuseppe Roncalli dovette interrompere gli studi teologici presso il Pontificio Seminario Romano (allora chiamato Seminario di S. Apollinare) per prestare servizio militare nel Regio Esercito Italiano, al posto del fratello Zaverio, indispensabile alla famiglia nel lavoro dei campi».
La Messa è stata officiata da Mons. Vincenzo Pelvi, Ordinario Militare per l’Italia, nonché generale di corpo di armata, che, nel corso della sua omelia, ha ricordato le parole del Santo Padre Benedetto XVI al Convegno Internazionale Ordinariati Militari svoltosi sabato scorso: “Penso in particolare all’esercizio della carità nel soldato che soccorre le vittime dei terremoti e delle alluvioni, come pure i profughi, mettendo a disposizione dei più deboli il proprio coraggio e la propria competenza. Penso all’esercizio della carità nel soldato impegnato a disinnescare mine, con personale rischio e pericolo, nelle zone che sono state teatro di guerra, come pure al soldato che, nell’ambito delle missioni di pace, pattuglia città e territori affinché i fratelli non si uccidano fra di loro”.
Cari Amici e Amiche, il papa della «Pacem in Terris», quello che, unico nella storia, ha definito la guerra «alienum a ratione – roba da pazzi», è inglobato tra i guerrafondai della peggiore specie. Le parole del papa attuale sui militari sono inaudite perché significa che appoggia le «missioni di pace», sapendo e facendo finta che sono solo missioni di guerra finalizzate al predominio delle ricchezze e al furto delle materi prime come il petrolio.
Annettere papa Giovanni al militarismo è una bestemmia e farlo anche patrono dei militari è un insulto alla decenza che un prete non dovrebbe nemmeno pensare. Ecco, la Chiesa oggi è rappresentata da un monsignore Palvi qualsiasi che, addobbato con stellette e fanfare, benedice armi, stupri, droga, soprusi di ogni genere e magari nei giorni di festa predica sul rispetto della vita. Finché ci sarà un solo cappellano militare, costoro non hanno diritto a parlare di vita e di Gesù Cristo perché lo hanno venduto, dopo averlo macellato.
dal sito di Maria Rita D’Orsogna
Sunday, October 23, 2011

I Moratti a trivellare in Sardegna

Siccome ai Moratti non basta essersi ingoiati le speranze e i sogni di Sarroch, con la sua raffineria Saras che ha di fatto impedito a qualsiasi altra attività sana di svilupparsi sul territorio, ora ci riprovano, questa volta con le trivelle su terraferma.

In questi giorni infatti la Saras si prepara a trivellare in provincia di Oristano, fra i campi di fragole di località Arborea. Hanno già fatto le esplorazioni sismiche, sono contenti di quello che c'è sottoterra e cosi ora partono con il progetto "Eleonora" che include dei pozzi esplorativi.

La tattica è sempre la stessa: del “divide et impera”: prima facciamo innocenti esplorazioni sismiche, e poi facciamo altrettanto innocenti pozzi esplorativi e poi che abbiamo fatto tutto, come facciamo a non fare i pozzi permanenti? Come facciamo a non fare oleodotti? Come facciamo a non fare raffinerie, che quasi sempre sono indispensabili vicino ai luoghi estrattivi?

Il progetto “Eleonora” comprende una area di circa 440 chilometri quadrati che riguarda i territori di Oristano, Cabras, Riola Sardo, Nurachi, Baratili San Pietro, Zeddiani, Tramatza, Solarussa, Siamaggiore, Arborea, Palmas Arborea, Santa Giusta, Marrubiu, Terralba, San Nicolò Arcidano, Uras, Mogoro e, in provincia del Medio Campidano, Guspini.

E poco importa ai Moratti che lì ci siano campi di fragole che non hanno niente a che vedere con le trivelle, cosi come non ce li avevano i vigneti di Viggiano e non glien'è importato niente all'ENI.

E la regione Sardegna? Secondo la Nuova Sardegna, l'assessore all'ambiente e le autorità della provincia di Oristano nel 2010 autorizzarono le esplorazioni perché si riteneva che

"il territorio non corresse alcun pericolo ambientale dall’attività di ricerca della Saras"

e che

«nonostante nell’area che delimita il permesso minerario siano presenti diversi vincoli idrogeologici e forestali, poiché i lavori previsti non modificano lo stato dei luoghi, non è necessario rilasciare alcuna autorizzazione».

I lavori previsti non modificano lo stato dei luoghi? Ma questi dove vivono? Possibile che non riescano a vedere il tutto in un’ottica lungimirante? Possibile che non sappiano di cosa succede in Basilicata? Possibile che non si chiedano che significa avere sul territorio trivelle, e poi oleodotti, perdite, strade e camion di petrolio, possibili raffinerie, inquinamento per 30, 40 anni?

Possibile che non si chiedano quali saranno gli effetti a lungo termine di trivelle ed esalazioni sulle fragole e sull'agricoltura in generale? In Basilicata hanno inquinato campi, laghi, e si ritrovano oggi con un pugno di mosche in mano e petrolio dappertutto, pure nel miele.

Ai sardi posso solo dire che è tutto scritto, tutto discusso, tutto già visto: vi racconteranno le stesse balle che hanno raccontato agli Abruzzesi, ai Lucani, ai Pugliesi, ai Siciliani, ai Lombardi: che il petrolio vi porterà lavoro e ricchezza e che l'agricoltura e il vostro modo di vivere non cambierà.

Non credetegli. Non c'è un solo buon motivo per petrolizzare il vostro territorio: in Italia abbiamo del petrolio in generale di qualità scadente e inquinante, le leggi di protezione per l'ambiente sono pessime, abbiamo un territorio fragile, le royalties sono basse, distruggeranno l'agricoltura, e qualsiasi sogno di turismo e di sviluppo sano e variegato.

Non esiste nessuna comunità al mondo - che io sappia - che è felice di vivere accanto a pozzi e raffinerie.

E si qualcuno si arricchirà, ma quelli non siete voi, saranno i Moratti.


domenica 23 ottobre 2011

LA VERA STORIA DELLA CREAZIONE DI ISRAELE
Israele / Palestina DI ALISON WEIR
AntiWar.com
Per capire meglio la richiesta palestinese di entrare a far parte delle Nazioni Unite (ONU), è importante comprendere il vero significato delle operazioni dell’ONU nel 1947 in Israele-Palestina.
La rappresentazione comune della nascita d’Israele racconta che l’ONU ha creato lo Stato, che il mondo era a favore di questa mossa e che lo staff governativo USA l’ha spalleggiata. Tutti questi fatti sono errati ed è possibile dimostrarlo.

In verità, mentre l’assemblea generale della NU auspicava la creazione di uno stato ebreo in parte della Palestina, questa raccomandazione non fu costrittiva e non venne mai implementata dal Consiglio di Sicurezza.
In secondo luogo, l’Assemblea Generale rinunciò a questa raccomandazione solo dopo che coloro che proponevano Israele corruppero numerose nazioni allo scopo di ottenere i due terzi di voti necessari.
Terza considerazione: l’amministrazione USA appoggiò la raccomandazione senza prendere in considerazione i discorsi elettorali interni e sostenne questa posizione nonostante le strenue obiezioni del dipartimento di stato, della CIA e del Pentagono.
La scintilla causata dalla raccomandazione dell’Assemblea Generale provocò una incremento della violenza nella regione. Nei mesi successivi il braccio armato del movimento pro-Isralele, che si stava preparando da lungo tempo per la guerra, perpetrò una serie di massacri ed espulsioni in tutta la Palestina, mettendo in pratica un piano che preparava al strada a uno stato a maggioranza ebraica.
Fu questa aggressione armata, unita alla pulizia etnica che spazzò via tre quarti del milione di indigeni palestinesi, che creò lo stato ebraico in una terra abitata dal 95% dai non ebrei prima dell’immigrazione sionista e che, anni dopo l’immigrazione, rimase abitata dal 70% di non ebrei. E, nonostante la leggera patina di legalità che i suoi sostenitori ottennero durante l’Assemblea Generale, Israele nacque a dispetto dell’opposizione degli esperti americani e dei governi del mondo, che furono contrari sia in maniera pragmatica che morale.
Entriamo nello specifico.
Sguardo d’insieme sulla raccomandazione per la spartizione dell’ONU Nel 1947 l’ONU si fece carico la questione palestinese, un territorio amministrato dai britannici.
Circa cinquanta anni prima, si era costituito in Europa un movimento chiamato sionismo politico. La sua intenzione era quella di creare uno stato ebraico in Palestina, buttando fuori gli abitanti cristiani e musulmani che costituivano più del 95% della popolazione e rimpiazzandoli con immigranti ebrei.
Con la crescita di questo progetto negli anni successivi, gli indigeni palestinesi reagirono con attacchi di violenza occasionali; i sionisti avevano previsto questo atteggiamento di resistenza: i popoli autoctoni mostrano sempre resistenza quando vengono minacciati di essere espulsi dalla propria terra. In diversi documenti, citati da numerosi storici palestinesi e israeliani, i sionisti discutono la loro strategia: comprare la terra finché tutti gli abitanti precedenti non emigrino oppure, in caso di fallimento, usare la violenza per obbligarli ad andarsene.
Quando lo sforzo economico ottenne come risultato solo una piccola percentuale della terra, i sionisti crearono un certo numero di gruppi terroristi allo scopo di combattere sia contro i palestinesi, che contro i britannici. Il terrorista e futuro primo ministro israelita Menachem Begin si vantò successivamente del fatto che il sionismo aveva portato il terrorismo sia nel Medio Oriente che nel mondo intero.
Alla fine, nel 1947, i britannici annunciarono che avrebbero concluso il loro controllo della Palestina - creata dopo la Prima Guerra Mondiale - attraverso la Lega delle Nazioni e che avrebbero passato la palla all’ONU.
In questo periodo, l’immigrazione sionista e il progetto di acquisizione dei terreni avevano incrementato il numero degli ebrei in Palestina, per farli arrivare al 30% della popolazione, mentre le proprietà terriere erano passata dall’1 al 6%.
Considerando che un principio fondamentale dell’ONU era l’autodeterminazione dei popoli, ci si dovrebbe aspettare che essa propugni elezioni leali e democratiche, con cui gli abitanti possano plasmare la propria nazione indipendente.
Invece, i sionisti fecero pressione per una risoluzione dell’Assemblea Generale, con la quale gli fu donato uno sproporzionato 55% della Palestina. (Mentre questo fatto veniva taciuto ai più, i sionisti pianificavano di impossessarsi anche del resto).
L’opposizione dei funzionari USA al piano di spartizione Il Dipartimento di Stato USA si oppose strenuamente a questa spartizione, considerando il sionismo contrario sia ai principi fondamentali, che agli interessi americani.
L’autore Donald Neff riferì che Loy Henderson, direttore dell’Ufficio degli Affari del Vicino Oriente e dell’Africa al Dipartimento di Stato, scrisse una memoria al Segretario di Stato, mettendo in guardia circa la situazione:
L’appoggio, da parte del governo degli Stati Uniti, per una politica che favorisca l’installazione di uno stato ebraico in Palestina sarebbe contraria ai desideri, per quanto riguarda la forma di governo, della larga maggioranza degli abitanti locali. Inoltre, avrebbe un forte effetto negativo sugli interessi americano in tutto il Vicino e Medio Oriente.
Henderson continuò, enfatizzando:
In questo momento gli USA posseggono un prestigio morale che nessun altro grande potere possiede nel Vicino e Medio Oriente. Noi perderemmo questo prestigio e probabilmente saremmo considerati, per diversi anni, come traditori di quei principi che noi stessi avevamo proclamato durante il periodo della guerra.
Quando i sionisti iniziarono a spingere per il piano di spartizione attraverso l?ONU, Henderson raccomandò fortemente di schierarsi contro la loro proposta. Egli avvisò che tale spartizione sarebbe stata implementata con la forza e aggiunse che “non sarebbe stata basata su alcun principio”. Continuò scrivendo:
[La spartizione] avrebbe come esito il rendere il problema palestinese permanente e, nei tempi futuri, ancora pù complicato. […]
[Le proposte di spartizione] sono in contraddizione assoluta rispetto ai vari principi che stanno alla base della fondazione [dell’ONU], tanto quanto ai principi sui quali si basa il concetto americano di governo. Le proposte, ad esempio, ignorano principi come l’autodeterminazione e il ruolo della maggioranza. Esse, inoltre, riconoscono valori che stanno alla base di una teocrazia razziale e si dilungano in parecchie argomentazioni quali la discriminazione nel campo religioso e razziale.
Henderson non era il solo a suggerire queste raccomandazioni. Scrisse che le sue vedute non erano condivise solo dall’intera Near East Division, ma anche da “ogni membro del Foreign Service o del Dipartimento che aveva lavorato per un tempo considerevole sui problemi del Vicino Oriente”.
Henderson non stava esagerando. Molti, tra gli ufficiali e le varie agenzie, si stavano opponendo al sionismo.
Nel 1947 la CIA riferì che la dirigenza sionista stava perseguendo obiettivi che avrebbero danneggiato sia gli ebrei che “gli interessi strategici dei poteri occidentali nel Vicino e Medio Oriente”.
Truman entra a far parte della lobby pro-Israele Il presidente Harry Truman, comunque, ignorò questo avvertimento. Il consigliere politico di Truman, Clark Clifford, ritenne che il voto e i contributi degli ebrei fossero essenziali per la vittoria alle imminenti elezioni presidenziali, e che il supporto al piano di spartizione avrebbe captato l’appoggio ebraico. (l’oppositore politico di Truman, Dewey, assunse prese di posizioni simili alle sue per le stesse ragioni)
Il Segretario di Stato George Marshall, rinomato generale della Seconda Guerra Mondiale e autore del Piano Marshall, era furioso nel vedere come le convenienze elettorali avessero la precedenza sulle politiche di interesse nazionale. Condannò quello che definì una “mossa evidente per guadagnare un pugno di voti”, che avrebbe fatto sì che “[l]a grande dignità dell’ufficio del presidente [si sarebbe] seriamente ridotta”.
Marshall scrisse che il parere offerto da Clifford “era basato su considerazioni di politica interna, mentre il problema con il quale si confrontava era internazionale. Ho detto schiettamente che, se il presidente continuasse seguendo il consiglio del signor Clifford e se andassi a votare alle elezioni, voterei contro il presidente.
Henry F. Grady, che era stato chiamato “il soldato americano più adatto alla diplomazia per affrontare il periodo critico della Guerra Fredda”, capeggiò nel 1946 una commissione per elaborare una soluzione della questione palestinese. Grady scrisse posteriormente sulla lobby sionista e il suo effetto dannoso per interessi nazionali degli Stati Uniti.
Grady sostenne che, senza la pressione sionista, gli USA non avrebbero avuto “un futuro negativo con gli stati arabi, che avevano un’importanza strategica nella nostra ‘guerra fredda’ contro i sovietici”. Descrisse anche il potere decisivo della lobby:
Ho avuto una buona esperienza con le lobby, ma questo gruppo ha svolte le proprie operazioni laddove le mie esperienze erano terminate. […]Avevo capeggiato un certo numero di missioni governative, ma in nessuna avevo avvertito una tale slealtà…[N]egli USA, da quando non c’è forza politica che possa controbilanciare il sionismo, le loro campagne sono destinate ad essere decisive.
Anche l’ex Sottosegretario di Stato Dean Acheson si oppose al sionismo. Il biografo di Acheson scrisse che egli “si dispiaceva che l’occidente dovesse pagare un prezzo così alto per Israele”. Un altro autore, John Mulhall, registrò l’avvertimento di Acheson:
Trasformare [la Palestina] in uno stato ebraico, capace di ricevere un milione o più di immigranti, inasprirebbe il problema politico e metterebbe in pericolo non solo l’America ma tutti gli interessi occidentali nel Vicino Oriente.
Anche il Segretario della Difesa, James Forrestal, provò senza di successo a opporsi ai sionisti. Fu offeso dal fatto che la politica mediorientale di Truman era basata su ciò che lui definiva “squallide proposte politiche”, affermando che “la politica USA dovrebbe essere basata su interessi nazionali e non su considerazioni di politica interna”.
Forrestal rappresentava anche le vedute generali del Pentagono quando affermò che “a nessun gruppo, in questa nazione, dovrebbe essere permesso di influenzare la nostra politica al punto di poter danneggiare la nostra sicurezza nazionale”.
Una relazione del Consiglio Nazionale di Sicurezza avvertì che l’agitazione palestinese stava danneggiando gravemente la sicurezza degli USA. Un confuso resoconto della CIA sottolineò l’importanza strategica del Medio Oriente e delle sue risorse petrolifere.
In modo analogo, George F. Kennan, direttore del Dipartimento di Stato per l’elaborazione del programma, emise un documento top-secret in 19 gennaio 1947, che sottolineò l’enorme danno causato agli USA dal piano di spartizione (“Report by the Policy Planning Staff on Position of the United States with Respect to Palestine”).
Kennan mise in guarda rispetto al fatto che “l’importante concessione petrolifera USA e i diritti per le basi aeree” potevano andare perduti a causa dell’appoggio USA alla spartizione ed avvertì che l’URSS avrebbe guadagnato parecchio dal piano di spartizione.
Kermit Roosevelt, nipote di Teddy e leggendario agente d’intelligence, fu un altro individuo profondamente disturbato dagli eventi. Riportò:
Il processo con il quale gli ebrei sionisti erano stati capaci di promuovere l’appoggio americano nella spartizione della Palestina dimostra la necessità vitale di una politica estera basata sugli interessi nazionali piuttosto che privati […]. Solo quando gli interessi nazionali degli Stati Uniti, nei loro termini più alti, hanno la precedenza su tutti gli altri aspetti, si può elaborare una logica e lungimirante politica estera. Nessun dirigente politico non-americano ha il diritto di coinvolgere gli interessi statunitensi per guadagnare voti privati.
[…]
Il corso presente della crisi mondiale obbligherà sempre di più le forze americane alla consapevolezza che i loro interessi nazionali e questo fatto dello stato ebraico in Palestina sono due elementi che finiranno per portare a un conflitto. È auspicabile che i sionisti americani e i non sionisti stessi arrivino a delle frizioni quando si scontreranno con la realtà del problema.
Il capo della divisione del Dipartimento di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, Gordon P. Merriam, allertò sulla questione morale del piano di spartizione:
Il sostegno USA alla spartizione della Palestina come soluzione a questo problema può essere giustificato solo sulla base del consenso arabo e ebraico. Altrimenti, dovremmo violare il principio di autodeterminazione scritto nel Patto Atlantico, nella dichiarazione dell’ONU e nell’atto di fondazione delle NU, un principio fortemente presente nella nostra politica estera. Anche una sola determinazione delle NU a favore della spartizione sarebbe, in assenza in tale consenso, una mistificazione e violazione del suo patto di fondazione.
Merriem aggiunse che, senza consenso, si sarebbero verificati “spargimenti di sangue e caos”, una predizione tragicamente accurata.
Un memorandum interno del Dipartimento di Stato predisse esattamente come Israele sarebbe sorta con un’aggressione armata mascherata da azione difensiva
Gli ebrei saranno i veri aggressori degli arabi. Nonostante ciò, reclameranno il fatto di star semplicemente difendendo i confini di uno stato tracciato dalle NU […]. Nel caso gli arabi venissero aiutati dall’esterno, gli ebrei si rivolgerebbero al Consiglio di Sicurezza, dichiarando che il suo stato è stato oggetto di un’aggressione armata e userebbero ogni mezzo per oscurare il fatto che è stata una loro aggressione che ha causato il contrattacco.
Il viceconsole americano William J. Poter previde un’altra conseguenza del piano di spartizione: nessun stato arabo sarebbe stato creato in Palestina.
L’influenza pro-Israele sui membri dell’Assemblea Generale Quando fu chiaro che la raccomandazione per la spartizione non poteva ottenere i due terzi dei voti richiesti dall’Assemblea Generale per l’approvazione, i sionisti pressarono per una proroga della votazione. Poi, utilizzarono questo periodo di tempo per convincere numerose nazioni a votare per questa raccomandazione. Varie persone descrissero successivamente questa operazione.
Robert Nathan, un sionista che aveva lavorato per il governo USA e che era particolarmente attivo nell’organismo ebraico, scrisse successivamente: “Abbiamo usato ogni mezzo a nostra disposizione”, per esempio dichiarare a certe delegazioni che i sionisti avrebbe utilizzato la loro influenza per bloccare gli aiuti economici a ogni nazione che non avrebbe votato dalla parte giusta.
Un altro sionista dichiarò con orgoglio: “Ogni pista fu meticolosamente analizzata e utilizzata. Anche la più piccola o la più lontana delle nazioni fu contattata e corteggiata. Nulla fu lasciato al caso.”
Il finanziere e consigliere presidenziale di lungo periodo Bernard Baruch disse che la Francia avrebbe perso l’appoggio degli Stati Uniti se avesse votato contro la spartizione. L’Assistente Operativo alla Casa Bianca, David Niles, organizzò una pressione sulla Liberia tramite il magnate della gomma Harvey Firestone, che disse al presidente liberiano che, se non avesse votato a favore della spartizione, avrebbe annullato il suo piano d’espansione economica. La Liberia votò a favore.
Ai delegati dell’America Latina fu detto che il progetto di costruzione dell’autostrada pan-americana sarebbe stato accettato più facilmente se avessero votato sì. Le mogli dei delegati ricevettero pellicce di visone (la moglie del delegato cubano la restituì); il presidente della Costa Rica, Josè Figueres, ebbe un assegno in bianco. Ad Haiti fu promesso un aiuto economico se avesse cambiato il suo voto iniziale di opposizione alla spartizione.
Felix Frankfurter, membro sionista di lungo corso della Suprema Corte di Giustizia, assieme a dieci senatori e al consigliere domestico di Truman, Clark Clifford, minacciò le Filippine (sette sentenze pendevano sulle Filippine al Congresso).
Prima del voto, il delegato filippino aveva pronunciato un appassionato discorso contro la spartizione, difendendo l’inviolabile “diritto primordiale della popolazione a determinare la propria politica futura e a preservare l’integrità territoriale della loro terra nativa”.
Continuò dicendo che non poteva credere come l’Assemblea Generale avrebbe potuto sancire un fatto che avrebbe rimesso il mondo “sulla strada dei pericolosi principi dell’esclusività razzista e degli arcaici documenti dei governi teocratici”.
Ventiquattro ore dopo, per l’intensa pressione sionista il delegato votò a favore della spartizione.
La delegazione USA alle NU fu così indignata quando Truman insistette nell’appoggio alla spartizione, che il direttore del Dipartimento di Stato per gli Affari NU fu mandato a New York per evitare che i delegati rinunciassero in massa.
Il 29 novembre 1947 venne approvata la risoluzione 181, quella della spartizione. Nonostante sia spesso citata, il suo impatto legale (se poteva essercene uno) fu limitato . Le Risoluzioni dell’Assemblea Generale, diversamente da quelle del Consiglio di Sicurezza, non sono legate agli stati membri. Per questa ragione, la risoluzione necessitò che “il Consiglio di Sicurezza prendesse le misure necessarie per fornire al piano la sua implementazione”, cosa che il Consiglio non fece mai. Legalmente, la risoluzione dell’Assemblea Generale fu solo una raccomandazione e non creò nessuno stato.
Quello che fece, comunque, fu incrementare i conflitti palestinesi. Con il passare dei mesi (e prima che Israele avesse pianificato l’inizio della guerra di fondazione), i sionisti avevano obbligato 413.794 persone a uscire dal paese. Le unità militari sioniste si erano preparate di nascosto per la guerra prima del voto dell’ONU e avevano comprato armi in notevole quantità, alcune grazie a una vasta rete di operazioni militari illegali all’interno degli Stati Uniti sotto gruppi di facciata.
L’ONU riuscì a creare un provvisorio e molto parziale “cessate il fuoco”. Un mediatore svedese all’ONU, che aveva precedentemente salvato migliaia di ebrei dai nazisti, fu mandato a negoziare la fine delle violenze. Gli israeliani lo assassinarono, e Israele continuò quella che fu chiamata “guerra d’indipendenza”.
Alla fine di questa guerra, grazie a una forza militare superiore a quella degli avversari e alla spietata applicazione di tattiche per espellere la maggior quantità possibile di non ebrei, Israele venne in possesso del 78% della Palestina.
Furono perpetrati almeno 33 massacri di cittadini palestinesi, la metà di questi prima che un singolo plotone arabo entrasse nel conflitto; centinaia di villaggi furono svuotati e rasi al suolo e fu incaricata una squadra di cartografi per dare a ogni città, villaggio, fiume e collina un nuovo nome ebraico. Tutte le vestigia di insediamenti, storia e cultura palestinese furono cancellate dalle storia, uno sforzo che ha quasi raggiunto il suo scopo.
Israele, che si dichiara l’“unica democrazia del Medio Oriente”, decise di non dichiarare i confini ufficiali o scrivere una costituzione, una situazione che continua ancor oggi. Nel 1967 si appropriò ai ancora altra terra palestinese e siriana, ora territorio occupato illegalmente, fino a che l’annessione della terra conquistata con la forza militare non fu posta fuori legge dal moderno diritto internazionale. Israele ha continuato una campagna di crescita, acquisizione e confisca illegale di territorio attraverso l’uso dell’esercito, che dura tuttora.
Ogni israeliano, come ogni palestinese, è legalmente e moralmente titolare di un numero di diritti umani.
Dall’altro lato, il decantato “diritto di esistere” dello stato israeliano è basato su un presunto “diritto” derivato dalla forza, un concetto arcaico che le convenzioni legali internazionali non riconoscono e che, di fatto, proibiscono in modo specifico.

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Fonte: The Real Story of How Israel Was Created

sabato 15 ottobre 2011

NUOVI GUAI PER SCARONI - PETROLIO NON OLET
di ALESSANDRO DE PASCALE [ 15/10/2011]


Llo scorso numero ci siamo occupati del nuovo ciclone giudiziario della procura di Milano sull'Eni. Due fascicoli aperti e un processo, seguiti dal pubblico ministero Fabio De Pasquale, che coinvolgono il gigante energetico controllato dallo Stato italiano, prima societa' per capitalizzazione della Borsa di Milano e quinto gruppo petrolifero mondiale. Il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, aggiunge che il nostro colosso petrolifero e' «la vera grande azienda corrotta italiana». Un duro parere maturato sulla base dei cablogrammi riservati della diplomazia Usa di cui e' entrata in possesso la sua organizzazione internazionale. Siamo andati a leggere quei cable dei quali, finora, nessun media ha dato notizia.
Partiamo dal processo all'Eni che riguarda un giro di mazzette in Nigeria. I cable statunitensi non ne parlano, tuttavia raccontano un altro scandalo corruzione in Africa che coinvolge la nostra compagnia petrolifera. Quello dell'Uganda. Sul lago Alberto, il settimo del continente, e' stato infatti trovato l'oro nero. Si stima che dalle sue rive si possano estrarre fino a 2 milioni di barili di petrolio. Una quantita' che potrebbe trasformare l'Uganda in uno di primi 50 produttori di petrolio al mondo, superando altri esportatori africani di greggio come il Gabon e la Guinea Equatoriale. Il primo cablogramma che parla di questo scandalo, e' stato scritto dall'ambasciatore Usa a Kampala, Jerry P. Lanier, nel dicembre 2009. Descrive gli innumerevoli «problemi che hanno le compagnie petrolifere occidentali per ottenere i diritti di sfruttamento e comprare i terreni». Cui si aggiungono le «preoccupazioni ecologiche e ambientali, dato che il greggio e' nella decima area piu' importante del mondo per livelli di biodiversita'». L'estrazione richiedera' «investimenti in infrastrutture per il trasporto del petrolio», come strade, ferrovie, quantificati nei «prossimi cinque anni in 3-4 miliardi di dollari», mentre «le sfide sul posto sono la produzione di energia e la gestione dei rifiuti».

ASSALTOe#8200;ALL'UGANDA
Visto il boccone prelibato, scende in campo anche l'Eni. Il primo ad accusare il nostro gigante petrolifero nazionale di corruzione e' Andy Demetriou, responsabile relazioni esterne della compagnia inglese Tullow Oil che aveva sbaragliato la concorrenza nell'avviare i contatti con le autorita' locali. Il manager spiega all'ambasciatore Usa che l'Eni e' arrivata dopo, ma «ha pagato sia il presidente Museveni che i funzionari del ministero dell'Energia in cambio dei nostri diritti di esplorazione off-shore». Anche il sito internet dell'Eni, conferma l'incontro tra l'amministratore delegato della compagnia, Paolo Scaroni, e il potente presidente ugandese Yoweri Museveni, al potere dal 1986 e rieletto a febbraio tra le proteste dell'opposizione per altri cinque anni. E nel 2008 gia' coinvolto in uno scandalo corruzione da 7 milioni di dollari e accusato nel 2002 dall'Alta Corte di uso illecito di risorse pubbliche, intimidazioni e violenze durante la campagna elettorale.
Il faccia a faccia tra Scaroni e Museveni sarebbe avvenuto il 13 agosto 2009, per confermare la «forte intenzione della societa' di creare una partnership nuova e duratura con l'Uganda», si legge sul sito. Ma Demetriou si spinge oltre, «accusando l'Eni di aver usato tattiche simili anche nella Repubblica Democratica del Congo per acquisire le licenze di esplorazione anche sull'altra sponda del lago Alberto, soffiandole ancora una volta alla Tullow». L'obiettivo e' di esportare fino a «200mila barili di petrolio al giorno entro due anni». Il manager spiega poi che la sua societa' «non ha pagato tangenti o dato contributi ai funzionari ugandesi, nonostante le numerose dichiarazioni di alcuni membri dell'esecutivo che sostengono che la Tullow “non li aiuta”».
Anche Tim O'Hanlon, vice presidente della compagnia in Africa, conferma le accuse negli stessi termini, denunciando che sia «il ministro dell'Interno Patrick Amama Mbabazi che il titolare del dicastero dell'Energia Hilary Onek hanno ricevuto denaro dall'Eni». E ormai anche chi non c'entra nulla, «come il ministro della Pesca Fred Mukisa, appoggiano pubblicamente la compagnia italiana». O'Hanlon aggiunge anche: «l'Eni ha creato una societa' di copertura a Londra, la Holdings Tkl, attraverso i faccendieri Mark Christian e Mose' Seruje, per far arrivare i “fondi neri” destinati al ministro Mbabazi». Meccanismo identico a quello descritto nella nuova indagine di Milano sulle mazzette Eni in Iraq e Kazakistan. L'ambasciatore Usa giunge alla conclusione che «i responsabili della Tullow credono che le loro attuali difficolta' con l'Eni e per le licenze off-shore derivino dal loro rifiuto di corrompere il governo ugandese».
A gennaio 2010 l'ambasciatore Usa a Kampala, Lanier, invia a Washington un altro cable che parla di un «rapporto riservato dell'intelligence ugandese sui negoziati Eni». Dentro c'e' scritto che «i governi occidentali, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Svezia e Francia, si oppongono agli affari sporchi dell'Eni». Ma soprattutto che la compagnia italiana «per facilitare l'accordo ha offerto ai funzionari ugandesi una “commissione” di 200 milioni di dollari». Il rapporto «individua nel ministro dell'Interno Mbabazi, segretario generale del Movimento di Resistenza Nazionale (Nrm), la persona che sta gestendo l'affare». Conferma inoltre «l'uso di societa' di comodo» e parla di «numerose bustarelle per funzionari governativi e giornalisti». Infine la stoccata finale: «L'Eni corrompe la leadership di un Paese, costringendola a fare scelte politiche egoistiche e impopolari».

OPERAZIONEe#8200;BABILONIA
Il cuore della nuova indagine milanese, come detto, riguarda invece il Kazakistan e l'Iraq. In quest'ultimo Paese, l'Eni e' diventata stazione appaltante per la costruzione di numerose infrastrutture. In cambio ha ottenuto dal governo locale la concessione del giacimento di Zubair, nel sud dell'Iraq, nei pressi di Bassora. Dove durante la missione Antica Babilonia erano schierati i nostri militari. In un cablogramma «confidenziale», scritto nel novembre 2009 dall'ambasciatore Usa a Baghdad, Christopher Hill, si legge che «il consorzio guidato dall'Eni e' il primo a firmare una serie di contratti petroliferi» con il governo locale, che nell'area «nei prossimi 6-8 anni verranno investiti 85 miliardi di dollari» e che Zubair vale ben «900mila barili al giorno».
Le prime accuse di corruzione arrivano gia' una decina di giorni dopo la firma del contratto, che risale al primo novembre 2009. Della trattativa per il governo locale si occupa Hussein al-Shahristani, attuale ministro dell'Energia. «Molti legali del governo iracheno e parlamentari - si legge ancora nel cable - sostengono che sulla base di una legge del 1967, solo il Consiglio dei Rappresentanti (il Parlamento iracheno) puo' approvare i contratti. Mentre Shahristani, sostenuto dal premier Maliki, ritiene che basta l'approvazione in Consiglio dei ministri».
Appena nove giorni dopo la firma con il consorzio guidato dall'Eni, il 10 novembre, «Shahristani viene convocato dal Comitato delle regioni», dove il vicepresidente della Commissione Gas e Petrolio «lo accusa di corruzione e di non aver rispettato le procedure». L'incontro avviene in una fase delicatissima per il governo. Perche' l'allora ministro delle Risorse naturali, Ashti Hawrami, si trova sotto inchiesta per insider trading sulla compagnia petrolifera norvegese Dno International. Shahristani alla fine ne esce pulito, ma i successivi cable della diplomazia Usa rivelano altri particolari interessanti sulla partita che si gioca interamente all'interno dell'esecutivo iracheno.
A fine dicembre 2009 il Consolato statunitense di Basrah, la capitale del governatorato di Bassora, rivela che l'esecutivo iracheno «continua a chiedere insistentemente modifiche ai contratti gia' siglati e accettati da tutti le parti». Pretendono di aggiungere o modificare una ventina di punti. Almeno due saltano subito all'occhio. Se ne parla in un successivo cablogramma del maggio 2010, scritto direttamente dall'Ambasciata di Baghdad per riferire a Washington che alcune compagnie hanno gia' accettato le modifiche.
Il primo punto e' «l'immunita' da procedimenti legali o giudizi nel caso sorgano controversie contrattuali». I commenti dell'ambasciatore Hill non lasciano spazio a interpretazioni: la nuova disposizione «permette alla Compagnia petrolifera nazionale dell'Iraq di invocare l'immunita' e quindi l'esenzione da obblighi di legge, sanzioni, risarcimenti danni e controversie derivanti dal contratto». Il governo iracheno «con la sua gestione trasparente dell'affare petrolio ci aveva fatto una buona impressione, ora a rischio». Le altre modifiche importanti riguardano invece «l'eliminazione della garanzia di esenzione doganale per l'ingresso di beni e attrezzature; la garanzia per tutti i contratti da parte dalla societa' capofila; l'impossibilita' per la compagnia petrolifera nazionale irachena di essere dichiarata inadempiente». Scelte che, sempre per la diplomazia Usa, sono «inaccettabili», perche' costituirebbero «un pericoloso precedente» che potrebbe «provocare molti danni».

L'OMBRELLOe#8200;SULLEe#8200;MAZZETTE
Nonostante le proteste di Washington e Bruxelles, quasi tutte le compagnie petrolifere internazionali alla fine accettano le nuove condizioni e firmano i contratti modificati. Cosa e' successo in quei mesi all'interno del governo iracheno nessuno puo' saperlo. Ma una cosa e' certa. Le istituzioni di Baghdad si dotano di un grande ombrello per ripararsi da eventuali piogge di mazzette, sentenze, lodi arbitrali e richieste di risarcimento danni, «opponendosi alla loro applicazione dinanzi a un tribunale o alle autorita' governative». Di fatto, si garantiscono dell'immunita' per contratto. A rispondere davanti alla legge di eventuali reati non saranno quindi nemmeno i subappaltatori, ma direttamente le societa' capofila dei consorzi e si dovranno inoltre pagare i dazi doganali per fare arrivare i materiali nel Paese.
I cable forniscono anche una possibile spiegazione all'uso di banche e societa' svizzere e inglesi per il giro di mazzette: «Alcune imprese, tra cui Halliburton e Schlumberger, hanno riferito che il sistema bancario iracheno e' totalmente inadeguato. È difficile trovare una banca irachena in grado di gestire in modo efficiente transazioni per milioni di dollari».

OFFe#8200;SHOREe#8200;SULe#8200;CASPIO
L'altro Paese al centro dell'indagine per corruzione e' il Kazakistan, ex repubblica sovietica a cavallo tra Europa e Asia. Le piattaforme off-shore sul Mar Caspio spunteranno come i funghi. Inutile dire che anche in questo caso le compagnie occidentali sono in prima linea per cercare di accaparrarsi i nuovi contratti. Un cable «confidenziale», scritto il 29 gennaio 2010 dall'ambasciatrice Usa ad Astana, Pamela Spratlen, riferisce di un colloquio che la diplomatica ha avuto con Dan Houser, vice presidente per l'Europa e l'Asia centrale della McDermott, compagnia statunitense attiva nel settore dell'energia fin dal 1923 che si occupa in tutto il mondo della costruzione di piattaforme off-shore. Anche sulla sponda kazaka del Caspio, dove e' prevista l'estrazione di 12mila tonnellate di gas l'anno.
Houser denuncia che il primo problema che ha incontrato la McDermott nell'operare in Kazakistan e' «identificare la struttura proprietaria di partner e concorrenti», in quanto «e' difficile capire chi possiede cosa» per «l'assenza di trasparenza». Inoltre nello Stato transcontinentale «tutte le strade portano a TK (Timur Kulibayev, il miliardario kazako genero del presidente Nursultan Nazarbayev)». Il giovane magnate (45 anni) ha ricoperto numerosi incarichi nelle principali imprese statali che gestiscono le risorse naturali del Paese e tuttora ha un'enorme influenza nel settore petrolifero, essendo membro del consiglio di amministrazione del colosso russo Gazprom. In Svizzera la Procura federale lo accusa di riciclaggio. Dalla fine del 2010 Kulibayev e' infatti sotto inchiesta a Zurigo per un bonifico di 600 milioni di dollari trasferiti da un conto acceso presso l'Ubs al Credit Suisse. Per gli inquirenti elvetici sono i proventi delle tangenti che avrebbe intascato dalle compagnie occidentali per i contratti petroliferi, quando era il numero uno della compagnia statale KazTransOil di cui e' stato presidente dal 2000 al 2005.
«Houser - continua il cable - ci ha spiegato che tutti i concorrenti della McDermott che operano nella regione hanno potenti sponsor politici ed efficaci lobbisti. Per esempio, l'italiana Saipem (gruppo Eni, ndr) e il gruppo Lancaster, sono presieduti da Nurlan Kapparov, ex vice ministro dell'Energia e delle Risorse minerali, gia' numero uno della Kazakh Oil, poi diventata KazMunaiGas (Kmg) che ha creato la joint-venture Ersai».
Secondo Houser i «collegamenti con Kulibayev» sono «gestiti dalla sede di Singapore». Tanto per non dare nell'occhio, visto che all'interno del regime kazako la corruzione sarebbe all'ordine del giorno. Il 27 gennaio, due giorni prima dell'invio del cablogramma Usa, Mukhtar Ablyazov, ex presidente della Banca TuranAlem (Bta), la terza del Kazakistan, «ha lasciato il Paese dopo essere stato accusato di appropriazione indebita e frode finanziaria». Avrebbe sottratto alla Bta miliardi di dollari, che sarebbero il frutto «dell'illecita cessione del 25 per cento della compagnia AktobeMunaiGas nelle mani dello Stato, alla China National Petroleum. Il tutto ad un prezzo di molto inferiore rispetto al valore di mercato». Il cable lamenta l'esistenza di una vera e propria «cultura della corruzione» in Kazakistan. «Appena siamo arrivati nel Paese con la McDermott - denuncia ancora il vice presidente della compagnia, Houser - siamo stati immediatamente avvicinati da un broker che sosteneva di poter aiutare la nostra azienda nell'ottenere i contratti. Ma abbiamo declinato l'offerta».
Poco tempo dopo la Guardia di Finanza del Kazakistan «si presenta nella sede della societa' per un controllo e contesta alla McDermott l'uso di software senza licenza». Un modo per mettere sotto pressione l'azienda che «pero' risolve la questione, mostrando le licenze». Houser rivela poi che «quando l'italiana Eni e' diventata il principale operatore del progetto Kashagan», giacimento di gas naturale su cui ora indaga la magistratura di Milano, «per gli appaltatori statunitensi e' stato difficile ricevere un trattamento onesto», a causa «dell'arrivo della societa' di servizi petroliferi Saipem, controllata al 40 per cento dall'Eni», continua il cable.
L'ultimo aspetto interessante della conversazione tra l'ambasciatrice Usa ad Astana e il vice presidente della McDermott, riguarda proprio la rinegoziazione del contratti. In Kazakistan, secondo Houser, non sarebbe il governo locale a chiedere le modifiche, come avvenuto in Iraq, ma «le compagnie estere, che cercano di rinegoziare un accordo quando si rendono conto di avere fatto una promessa che non sono in grado di mantenere». Chissa' se si riferisce al costo della corruzione.
LA VERA STORIA DI USTICA BY WIKILEAKS
di Sandro Provvisionato [ 15/10/2011]


Lo scorso 30 agosto WikiLeaks ha diffuso 251.286 nuovi cables che riguardano la diplomazia americana. Tra questi, due si riferiscono all'Italia ed in particolare alla strage di Ustica, la cui inchiesta giudiziaria ha avuto nel mese di settembre una svolta molto importante.
I cables 03ROME2887 e 03ROME3199 (scaricabili su http://wikileaks.org/cable/2003/06/03ROME2887.html e wikileaks.org/cable/2003/07/03ROME3199.html), risultano inviati dall'addetto politico all'ambasciata americana a Roma, Thomas Countryman, al Dipartimento di Stato.
Da essi traspare in maniera evidente la preoccupazione degli Stati Uniti circa la possibilita' di una fuga di notizie. Gli stessi rivelano il “coinvolgimento” americano nella strage. Inoltre in questi documenti e' piu' volte citato il parlamentare italiano Carlo Giovanardi (ex Udc, oggi Pdl) il quale aveva difeso in Parlamento la risibile versione della bomba a bordo del Dc9 per tentare di negare le responsabilita' americane. Lo stesso Giovanardi, preoccupato, si lamento' con l'ambasciata: «Queste nuove rivelazioni minano la mia credibilita'».
Ie#8200;CABLO
Procediamo con ordine. Il primo documento e' datato 25 giugno 2003. Countryman, Political Minister Counsellor, diplomatico dell'ambasciata americana a Roma dal 2001 al 2005, chiede con urgenza al Dipartimento di Stato Americano alcuni documenti inerenti la strage di Ustica, appena desecretati secondo il Freedom of Information Act.
Nel documento il diplomatico sembra piuttosto allarmato per uno speciale del Tg3 andato in onda il 21 giugno 2003 e anche per «nuove rivelazioni» apparse sulla stampa italiana. In particolare, viene citato un articolo di Repubblica, pubblicato in prima pagina con il titolo: “Ustica: gli Usa spiarono Amato”.
Secondo l'articolo, gli americani avevano intercettato una telefonata intercorsa nel 1992 tra l'allora presidente del Consiglio Giuliano Amato ed il ministro della Difesa Salvo Ando' (entrambi socialisti) nella quale i due discutevano degli «sforzi» fatti dall'amministrazione americana al fine di «monitorare» (questo il termine usato nel cablo) le indagini di giudici e parlamentari.
Nel documento il diplomatico americano riporta anche la notizia secondo la quale l'ambasciatore americano dell'epoca, Peter Secchia, aveva utilizzato questa intercettazione per fare pressioni su Bettino Craxi affinche' il governo italiano non si costituisse parte civile nel processo per la strage. Countryman si mostra preoccupato che la storia dell'intercettazione abbia alimentato un solo «ciclo di notizie» («one news cycle») e che si continui a scrivere della strage.
Nell'altro cablo, inviato il 14 luglio 2003 e classificato “secret”, lo stesso Countryman riferisce il contenuto di un colloquio avvenuto quattro giorni prima con l'allora ministro per i Rapporti col Parlamento, Carlo Giovanardi. Costui si sarebbe lamentato della «mancanza di chiarezza e cooperazione» da parte degli Usa nei confronti del governo italiano. Lo stesso Giovanardi avrebbe raccontato di come, un anno prima, lui stesso relaziono' in Parlamento, nel tentativo di «mettere a tacere la ventennale questione Ustica» («tryin to put the 20 year old Ustica crash case to rest»).
Giovanardi nel colloquio con il diplomatico americano ammette di aver «venduto» in Parlamento la versione secondo cui il disastro sarebbe stato causato da un'esplosione avvenuta a bordo dell'aereo e «non per un missile americano» («not by a US missile»).
«Ma queste nuove rivelazioni minano la mia credibilita'», avrebbe detto l'attuale sottosegretario al diplomatico americano. Il ministro avrebbe dovuto essere ascoltato da una Commissione parlamentare (con ogni probabilita' la Commissione stragi) prima della fine di luglio. Per questo Giovanardi chiese al Political Minister Counsellor di poter avere una copia dei documenti rilasciati alle famiglie delle vittime, al fine di controbattere le accuse. Giovanardi prega inoltre di «coordinare insieme all'ambasciata americana una dichiarazione pubblica».
In pratica, Giovanardi chiede a Countryman l'equivalente di una «versione congiunta». Dal cablo traspare una grande tensione. Soprattutto da parte dell'ex ministro. Ma i toni sembrano poi rientrare.
Countryman e Giovanardi, infatti, nel colloquio si dicono d'accordo sul fatto che il servizio del Tg3 «non apporta nessuna nuova prova in merito al disastro di Ustica», e «non smentisce direttamente cio' che Giovanardi ha riferito in Parlamento e che - scrive Countryman - noi (gli Usa, ndr) abbiamo sempre sostenuto: non vi e' stato nessun coinvolgimento degli Stati Uniti nella strage».
Nel cablo si legge anche che gli Usa sono stati molto «attenti» all'affaire Ustica, anzi sono “coinvolti” («involved») nell'intera vicenda e nel tentativo di «occultare» («cover up») la verita'. Altrimenti, scrive ancora il diplomatico, gli Usa non sarebbero arrivati al punto di spiare il primo ministro ed il ministro della Difesa di un governo straniero, a distanza di ben dodici anni dal disastro.
Il counsellor domanda poi al Dipartimento di Stato i documenti declassificati, vista «l'esplosiva tendenza a ricercare ostinatamente un complotto attorno alla vicenda Ustica».

LAe#8200;SENTENZA
La lettura di questi due cablo e' quindi estremamente interessante, specie alla luce della sentenza emessa dal tribunale civile di Palermo il 12 settembre scorso che, quattro anni dopo i primi risarcimenti per 980 mila euro ai familiari di 4 delle 81 vittime della strage di Ustica, ha nuovamente condannato lo Stato italiano - e stavolta alla cifra record di oltre 100 milioni di euro - a risarcire 81 parenti di una quarantina di passeggeri che persero la vita sull'aereo Itavia in servizio da Bologna a Palermo.
La sentenza del giudice Paola Proto Pisani da' ragione al collegio difensivo che aveva puntato sulla responsabilita' dello Stato italiano, indipendentemente dall'accertamento ufficiale della causa che provoco' la strage e che, in questi anni, non e' mai stata giudiziariamente accertata.
Il Tribunale, in sostanza, ha ritenuto responsabili i ministeri dei Trasporti e della Difesa, il primo per non avere garantito la sicurezza del volo, il secondo per aver occultato la verita' con continui depistaggi e con la distruzione di atti. Questa seconda contestazione non fa che ribadire le responsabilita' dell'Aeronautica militare.
Ancora piu' esplicita la motivazione di questa sentenza rivoluzionaria. Secondo il tribunale civile di Palermo, c'era un'azione di guerra nel cielo di Ustica la notte del 27 giugno del 1980, quando il Dc9 dell'Itavia precipito' in mare. «Tutti gli elementi considerati - scrive il giudice Paola Proto Pisani nelle 200 pagine di motivazione depositate - consentono di ritenere provato che l'incidente accaduto al DC9 si sia verificato a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del DC9, viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del DC9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell'esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l'aereo nascosto ed il DC9».

ILe#8200;DEPISTAGGIO
Secondo la sentenza, il ministero della Difesa avrebbe ostacolato «l'accertamento delle cause del disastro, cosi' impedendo l'identificazione degli autori materiali del reato di strage che sono potuti restare impuniti».
Alcuni ufficiali e sottoufficiali dell'Aeronautica militare italiana si sarebbero resi responsabili di false testimonianze, favoreggiamento, abuso d'ufficio, soppressione di atti pubblici, falsi documentali, insomma di un «vero e proprio depistaggio».
E il buon Giovanardi che chiedeva aiuto agli americani per sostenere la sua ridicola tesi della bomba a bordo?
Il sottosegretario parla di «sentenza fantapolitica o da romanzo», dimenticando l'amenita' da lui sostenuta di una bomba collocata nella toilette dell'aereo che avrebbe pero' lasciato intatto il water, distruggendo pero' l'aereo.
Nella sua protervia di difendere l'indifendibile, Giovanardi, l'ultimo dei mohicani schierato con l'Aeronautica militare, arriva ad affermare che «nessun aereo era in volo quella sera in vicinanza del DC 9 dell'Itavia».
Se lo dice lui…

venerdì 14 ottobre 2011

STUPIDAGGINI MADE IN USAStampaE-mail
Pontifex.RomaQuando i politici americani non sanno cosa fare rompono i co… a qualcuno: è il leit-motiv della politica estera di Washington oramai da quasi due secoli. Iniziarono con il Messico e Cuba gli Stati Uniti la loro espansione colonialista, loro nati come colonia britannica indipendente, e , dagli inizi dell’Ottocento fino ai giorni nostri non hanno più smesso di andare a ficcare il naso nelle questioni interne di mezzo pianeta. Questo ‘protagonismo’ globale degli USA ha , di riflesso, provocato un generale sentimento di odio nei confronti di quella che si è arrogata il titolo di ‘nazione favorita’ per la guida planetaria: il ‘destino manifesto’ americano che ha segnato le linee-guida negli ultimi due secoli oltre a conformarsi di un ipocrita e indesiderato bigottismo religioso d’impronta protestante-calvinista ha la pretesa di esportare, fosse anche manu militari, i principii della democrazia a stelle e strisce che si fonda su una particolarissima visione dei “diritti dell’uomo” ...
... che negano a qualunque nazione una propria via di sviluppo differente, una propria indipendenza economica e qualsivoglia genere di sovranità politica.
I diritti dell’uomo, sorta di dogma intoccabile della “religione” politica statunitense, spariscono ovviamente dal frasario dei delegati all’amministrazione della politica USA (siano essi democratici o repubblicani poco cambia) quando a negarli magari reprimendo brutalmente il proprio dissenso interno sono gli amici dell’America: è successo centinaia di volte che non vale neanche la pena di perdere tempo a contarle.
Il sostegno incondizionato dato dagli americani a feroci dittature anti-popolari, alle diverse giunte militari al potere negli anni Settanta in America Latina per esempio, o alle petrolmonarchie totalitarie del Golfo persico giusto per ricordare alcuni degli amici di Washington conferma questa politica ‘double-face’ mantenuta costantemente dai diversi inquilini della Casa Bianca quando di mezzo ci sono le relazioni bilaterali e , in particolar modo, gli interessi ‘nazionali’ della prima democrazia del pianeta.
A Washington non interessano affatto i diritti umani altrimenti non si spiegherebbero le contorsioni diplomatiche con le quali è stata avallata la repressione nel Bahrein, né l’appoggio incondizionato dato al regime criminale saudita che governa con una interpretazione assolutistica e intollerante le regioni meridionali della penisola araba e identica posizione potrebbe essere espressa per stati fantoccio degli americani e delle loro compagnie petrolifere quali il Kuwait o gli Emirati Arabi Uniti.
Ma, improvvisamente, gli americani si ricordano dei “diritti umani” quando ovviamente conviene e fa comodo tirarli in ballo per delegittimare un paese che, con ogni probabilità, ha il solo torto – agli occhi della finanza multinazionale che ha il suo centro nevralgico a Wall Street nel cuore del potere americano – di tenere fermo su alcune posizioni prime fra tutte quelle della sovranità politica ed economica.
Perché a dettare legge negli Stati Uniti sono le lobbie’s affaristico-commerciali, l’alta banca ebraica, le società massoniche: sono loro che costituiscono il vero, autentico, governo occulto degli USA e sono queste entità che lavorano nell’ombra e al lato del potere politico che determinano le principali decisioni in politica interna e estera che verranno stabilite dalla Casa Bianca e dal Congresso.
E Washington è la sede principale del complottismo su scala globale contro tutti quei popoli e quelle nazioni che non accettano di piegarsi al disegno egemonico della Plutocrazia Mondialista di creare un mondo unipolare, ad una dimensione, a guida statunitense, fondato sui valori della ‘democrazia’ plutocratica americana e sotto il dominio dei grandi alchimisti , autentici apprendisti stregoni dei giorni nostri, della finanza cosmopolita senza volto.
Ora è abbastanza assurdo leggere che la madre di tutti i complotti e la principale fonte di destabilizzazione planetaria accusi qualcuno di “complottare” …. Assurdo e inverosimile oltretutto specialmente se si pensa solamente per un attimo a tutta quella infinita serie di menzogne , bugie, mezze verità funzionali al Potere che sono state create ad hoc in occasione dell’auto-attentato terroristico dell’11 settembre 2001 che diede il via alla campagna contro il cosiddetto “terrorismo internazionale” lanciata dall’allora amministrazione Bush coadiuvata dai deliri su improbabili “scontri tra le civiltà” dei professori della scuola neo-conservatrice.
Ed è ancora più demenziale pensare di poter dare credito ad un’amministrazione americana quale quella retta da Barak Obama, l’abbronzata comparsa della politica USA ovvero il burattino della Sinagoga funzionale alle strategie egemonico-normalizzanti dei grandi finanzieri di Wall Street, che ha avallato il ri-finanziamento delle missioni militari all’estero (Iraq e Afghanistan) aumentato il numero dei militari inviati sui fronti ‘caldi’ a presidiare gli interessi delle multinazionali del petrolio e sostanzialmente tradito tutte quelle vuote promesse che, come sempre avviene in democrazia, furono il carburante elettorale utilizzato dai democratici per ritornare alla guida politica dell’America alias il Gendarme Planetario del Nuovo Ordine Mondiale.
Amministrazione americana che ha sprezzantemente carpito al Consiglio di Sicurezza dell’ONU lo scorso marzo una risoluzione di condanna contro la Libia per lanciare un nuovo assalto criminale contro il paese nord-africano e arabo dopo quello dell’epoca Reagan a metà anni Ottanta e stavolta con il consenso europeo e l’aiuto militare dei compari franco-britannici.
L’Imam Sayyed Ruhollah al Musawi al Khomeini (che Allah lo abbia in gloria) si riferiva agli Stati Uniti come al “Grande Satana” , fonte di tutti i problemi del pianeta e principale potenza colonialistica dell’era contemporanea: secondo la Guida della Rivoluzione Islamica iraniana era da Washington che dipendevano tutti i complotti e ogni strategia sediziosa che veniva a manifestarsi nei diversi paesi.
La storia degli ultimi trentadue anni dalla vittoria della Rivoluzione Islamica ha confermato il ruolo dell’America di vero e proprio nemico dei popoli e la sua funzione di cane da guardia armato fino ai denti degli interessi del capitalismo mondiale.
Oggi, dopo aver inventato falsi documenti per occupare militarmente l’Irak nel 2003 mediante l’esibizione , delegata all’ex generale Colin Powel, alle Nazioni Unite di ‘prove’ che l’allora presidente iracheno Saddam Hussein possedesse “armi chimiche” – delle quali non è mai stata trovata alcuna traccia – ; dopo aver soffiato sulle ceneri di tutte le cosiddette “rivoluzioni colorate” (dall’Ucraina alla Yugoslavia nei Balcani fino a quelle più recenti che hanno caratterizzato la cosiddetta ‘primavera araba’) gli Stati Uniti ci riprovano questa volta tornando ai consueti metodi propagandistici.
Nel mirino ritornala RepubblicaIslamicadell’Iran contro la quale nella giornata di ieri il Dipartimento di Stato USA ha lanciato pesantissime accuse in relazione ad un presunto ‘complotto’ che avrebbe visto una connection Iran-Contras per colpire l’ambasciatore saudita negli States ovvero l’ennesima cazzata interplanetaria creata ad hoc per distogliere il pianeta dai problemi reali della grave crisi che attanaglia l’economia americana e rilanciare la campagna di demonizzazione che vede Teheran nel mirino di tutte le amministrazioni statunitensi dall’epoca Carter fino ad oggi.
I media occidentali americano-centrici, asserviti ai diktat del padrone a stelle e strisce e supini di fronte allo strapotere della lobby ebraica che controlla ogni genere di informazione e qualsiasi canale di trasmissione, televisivo, informatico, cartaceo che sia, hanno ovviamente rilanciato la bufala “made in USA” parlando di un “complotto” iraniano contro l’America.
Un complotto che avrebbe, a leggere certe agenzie di stampa dei quotidiani di mezzo pianeta, dovuto far ripiombare l’America nel terrore e si sarebbe dovuto sviluppare mediante una serie di attentati contro obiettivi israeliani e sauditi nel cuore degli Stati Uniti, nella capitale Washington.
Un ‘piano’ dietro al quale, strano a ‘dirsi’, ci sarebbe niente popò di meno che lo zampino dell’Iran.
Questo a leggere qua e là le veline sioniste.
Il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ha immediatamente accusato l’Iran (anche questa non è propriamente una novità) di aver ordito un piano in connessione con alcuni esponenti dei narcotrafficanti messicani.
Secondo la ricostruzione fornita alla stampa mondiale il Dipartimento di giustizia americano avrebbe ricostruito le fila del presunto complotto iraniano partendo da una indagine dell’FBI; indagine che avrebbe portato all’arresto di due cittadini di nazionalità iraniana.
Giusto per mettere un po’ di ‘mistero’ si ipotizzavano attentati anti-sauditi e anti-israeliani anche in Argentina. Secondo quanto hanno riportato le agenzie di stampa infatti queste erano tra i bersagli di una vasta strategia del terrore che si sarebbe dovuta estendere ad altre sedi diplomatiche e consolari dei tre nemici giurati di Teheran in altri paesi del centro e sud America.
In gara sarebbe finito Mansoor Ababsiar cittadino americano di origini iraniane che, a sentire gli inquirenti dell’FBI, si sarebbe messo in contatto con un investigatore americano scambiandolo per un elemento dei narcos messicani.
Sarebbero stati, il condizionale in tutta questa storia non solo è d’obbligo ma ci pare assolutamente fondato, questi ultimi a dover compiere materialmente l’attentato contro l’ambasciatore saudita negli USA dietro il compenso di 1,5 milioni di dollari.
Mah…che dire?
Che una simile ricostruzione non solo non convincerebbe neanche l’ultimo ragazzino arabo disinteressato alla politica ma che, soprattutto, non convince minimamente neanche chi , osservatore non proprio disattento, conosce come di muove la Savama iraniana e quanto poco, pochissimo interesse abbiano i servizi di Teheran a cooperare con elementi esterni, tantomeno non islamici, e ancor meno se narcotrafficanti incalliti come quelli dei cartelli della droga messicani (oltretutto quasi tutti under controll , noti e stranoti alle forze dell’ordine tanto di quelle messicane quanto di quelle statunitensi).
Una bufala di metà ottobre e nient’altro.
Questa la sola verità plausibile su una non notizia gettata nella rete informativa per agitare un po’ le acque o, come hanno sostenuto le autorità iraniane commentando la notizia del presunto ‘complotto’ anti-saudita, “accuse assolutamente prive di qualunque fondamento” e, secondo uno dei più stretti collaboratori del Presidente Mahmood Ahmadinejad uno “scenario precostituito per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica americana dai loro problemi interni”.
Mentre ‘esplodeva’ a livello mass-mediatico la notizia del presunto complotto iraniano contro sauditi, sionisti e americani da Teheran le autorità della Repubblica Islamica diffondevano la notizia secondo cui il pastore cristiano iraniano Yossef Nadarkhani non sarebbe “mai stato condannato a morte” smentendo quelle voci, girate alcune settimane fa, di una sua condanna a morte.
La sentenza, secondo quanto diffuso dall’agenzia di stampa iraniana, non è stata ancora determinata.
L’ambasciata iraniana a Roma, rispondendo all’appello lanciato agli inizi del mese dal Ministro degli Esteri , Franco Frattini, informava inoltre che “al pastore sono stati riconosciuti tutti i diritti previsti dal codice penale e dalla legge iraniana” e che nei suoi confronti ancora la magistratura non si è pronunciata.
Menzogne, falsità, bufale, invenzioni propagandistiche per creare eventuali dissensi e problemi nelle relazioni bilaterali tra Iran e mondo occidentale, in particolare versola SantaSede, queste sono le armi di ricatto utilizzate dall’Occidente mondialista per demonizzare uno Stato sovrano come la Repubblica Islamica contro la quale, in trentadue anni (da quando nel1979 aTeheran presero il potere i rivoluzionari islamici khomeinismi), sono state inventate di sana pianta ogni genere di accusa e qualunque idiozia possibile e immaginabile.
Niente di nuovo dunque dal ‘fronte occidentale’: solo tanto squallore e miseria politica.
Una miseria che contrassegna chi si trova, come gli Stati Uniti, in pieno alto mare con una classe politica irresponsabile, incapace di trovare una qualche soluzione alla crisi economica interna così come a quelle di politica estera (il pantano aumenta intorno alle truppe yankee in Irak come Afghanistan).
Teheran non ha niente da temere da Washington se i guerrafondai a stelle e strisce devono ricorrere ancora a questi mezzucci né lo devono avere tutte quelle nazioni sovrane che continuano a mantenere alta la guardia di fronte all’arroganza occidentale e sionista nel Vicino Oriente (Siria) e nell’America Latina (Venezuela).
L’America: la madre di tutte le menzogne.
Il Grande Satana, nemico dell’uomo e della verità.
Fonte: dagobertobellucci
Segnalazione Agere Contra - Il sito della resistenza cattolica

lunedì 10 ottobre 2011

I CRISTIANI DI ORIENTE FANNO BLOCCO CONTRO IL NUOVO COLONIALISMO OCCIDENTALE
Postato il Sabato, 08 ottobre @ 17:10:00 CDT di supervice
Medio Oriente DI THIERRY MEYSSAN
Voltairenet.org
La guerra contro la Siria, pianificata da Stati Uniti, la Francia e Regno Unito per la metà di novembre del 2011, è stata fermata in extremis dal veto russo e cinese al Consiglio di Sicurezza. Secondo Nicolas Sarkozy che ne aveva informato il patriarca maronita in un agitato incontro tenuto all’Eliseo il 5 settembre, il piano prevede l'espulsione dei cristiani di Oriente da parte degli Occidentali. In questo contesto, in Europa è condotta una campagna di stampa per accusare i cristiani di Oriente di collusione con le dittature. Madre Agnès-Mariam de la Croix, igumena del monastero di San Giacomo il Mutilato a Qâra (Siria) risponde a questa propaganda di guerra.

Thierry Meyssan: Il sinodo speciale per il Vicino-Oriente ha sancito il carattere arabo dei Cristiani di questa regione, e ciò che introduce una rottura rispetto al XX secolo dove il cristianesimo, sebbene nato in questa regione, appariva come la religione del colonizzatore. Questa svolta ideologica ha condotto la Santa Sede e le Chiese di Oriente a sostenere la causa palestinese e quella delle forze della Resistenza antisioniste, Siria inclusa. Questa evoluzione era stata anticipata in Libano dal generale Michel Aoun e dalla sua alleanza con gli Hezbollah. I Cristiani di Oriente sono così diventati i nemici dell’Occidente?
Madre Agnès-Mariam de la Croix: Sì, il sinodo ha affermato con forza il carattere arabo dei cristiani di Oriente per l’immersione e la simbiosi con questo ambiente storico e culturale.
Non dimentichiamo che i cristiani di Oriente sono stati i pionieri del Rinascimento arabo, la Nahda, di fronte al colonizzatore ottomano. È questo, assieme ad alcune eminenti figure musulmane, che ha restituito vita alla lingua araba e alla sua estensione universale attraverso le traduzioni fatte, in o dall'arabo, per i grande intellettuali particolarmente ad Aleppo, Damasco e nel Monte Libano. Le prime tipografie del mondo arabo sono state realizzate da cristiani come Abdallah Zakher. Tuttavia, coi movimenti pan-arabi dell'inizio del XX secolo e le tensioni avute alla vigilia dei movimenti per l’indipendenza, talune fazioni cristiane si sono smarcate ideologicamente dai loro fratelli arabi di altre confessioni. Ciò è avvenuto in modo particolare la guerra del Libano, quando alcuni cristiani libanesi hanno ricusato con forza la loro appartenenza al mondo arabo per vantarsi delle ipotetiche radici fenicie, canaanite o di altre ancora. La crisi cristiana della guerra del Libano ha riportato le menti a una giusta valutazione della storia e dell’identità. I cristiani hanno riconosciuto di essere in missione sulla terra dei loro antenati - dalla Mesopotamia fino al Mediterraneo, passando dalle rive del Nilo - per testimoniare la loro speranza ai loro fratelli musulmani, che li avevano accolti come i liberatori dal colonizzatore bizantino all'epoca delle guerre islamiche. Bisogna custodire la memoria delle opere del padre Corbon, autore di testi che hanno molto influenzato i pastori delle Chiese cristiane nell’ambito dell’adozione e dell’identificazione con la causa araba
Da sempre, il Vaticano ha preso posizione per la causa palestinese, non per allineamento politico, ma per l’attenzione verso la Giustizia. Oggi questa posizione è ammessa da tutti i cristiani di Oriente, compresi i vecchi militanti anti-arabi. Tuttavia, l'ingerenza ingiustificata dell'Occidente – Stati Uniti e Francia in testa - negli affari regionali già sufficientemente ed amaramente sperimentata nella guerra in Libano e non ancora modestamente in Iraq, dove i cristiani, prelati in testa, sono ancora estremamente cauti. Non si tratta di diventare dei nemici degli Occidentali, ma di rendersi conto una volta per tutte che la sopravvivenza dei cristiani in Oriente non potrà essere più debitrice di un qualsiasi protettorato sulla Sublime Porta; il nostro avvenire dipende dall’unione convinta dei cristiani coi loro fratelli che coabitano con loro in Oriente, che riconoscono come fratelli di sangue al di là delle divergenze confessionali che sono meno grandi di quanto esse non sembrino.
I cristiani hanno sempre servito da paravento culturale per l'Occidente. Quando gli ottomani, il malato dell'Europa, non avevano altra alternativa che accogliere i diversi consoli occidentali che si univano ai loro missionari ad Aleppo (francesi, italiani, veneziani, genovesi, olandesi, austriaci, inglesi, eccetera), i cristiani erano l'interfaccia che permetteva loro di adattarsi all'Oriente misterioso. In definitiva, i cristiani non sono i nemici di nessuno. Hanno accolto bene gli Occidentali quanto i musulmani. Comunque sia, si riservano il diritto, dopo tante batoste, di criticare gli sbagli, la vista miope o gli impeti d'ira intempestivi dei vari paesi occidentali, che hanno promosso i propri interessi a scapito della presenza multisecolare dei cristiani e di altre componenti etnico-culturali del tessuto socio-demografico orientale. O si accettano i principi democratici e si prende in considerazione il nostro punto di vista, oppure si ammette che ancora una volta siamo di fronte a un sistema imperialistico che esige il silenzio e che vuole costringerci a ubbidire.
Thierry Meyssan: Si assiste nella stampa cattolica occidentale a un'offensiva in piena regola contro il nuovo patriarca maronita e le sue dichiarazioni ostili a un intervento internazionale per cambiare il regime in Siria. I suoi detrattori lo accusano di collaborazione con “la dittatura di Assad”. È vero che la minoranza cristiana in Orienta ha paura della democrazia?
Madre Agnès-Mariam de la Croix: Sono delusa dalla stampa cattolica che segue ciecamente la tendenza dettata dai padroni del mondo e che fa ripetere solamente come un pappagallo ciò che i media mainstream propagano già a sazietà. In questi giorni difficili, abbiamo difficoltà a chiarirci con i nostri correligionari che sono nel disprezza, nel malinteso e nella disinformazione più assolute, a parte alcune eccezioni alla cui forza rendo omaggio.
Gli Occidentali si sono abituati a essere i giudici, i padroni del pensiero, i patrocinatori e diciamo i tutori dei cristiani di Oriente. Ciò è dovuto alla troppo grande compiacenza di alcuni di noi verso una cultura alternativa che abbiamo adottato. Per di più, una cosa è essere francofono, un'altra è consentire ai francesi – o agli altri occidentali – di ergersi al ruolo di pedagoghi e tutori dei cristiani di Oriente. Il patriarca maronita ha detto ciò che pensava, di concerto ai suoi colleghi, gli altri patriarchi di Oriente. Non l'ha fatto per connivenza con una dittatura, ma in armonia con quello che ritengono che sia la Giustizia, il Diritto e l’interesse delle comunità cristiane. Certamente, i propositi del patriarca controbattono in un modo autorevole gli armeggi della comunità internazionale, che mira a instaurare a qualsiasi prezzo un regime fantoccio alternativo in Siria, come avvenuto in Libia. Il fatto di interessarsi così tanto agli affari siriani – cosa non avvenuto all'epoca della guerra del Libano quando venivamo massacrati nell'indifferenza! - al punto di farne "LA" notizia quotidiana dei media del Nuovo Totalitarismo, dovrebbe svegliare l'attenzione di ogni persona libera e critica.
Pretendere che i cristiani di Oriente e i loro pastori siano reticenti a sostenere le rivoluzioni arabe per timore della democrazia, è una calunnia maligna. I cristiani sono stati ovunque dei pionieri della libertà di espressione, dell'uguaglianza tra cittadini e della dignità del popolo. È falso dire che ignoriamo culturalmente la democrazia, che le nostre famiglie sono autoritarie e che in generale, non c'è democrazia nella Chiesa. Si tratta di una lettura riduzionista, superficiale; perché non parliamo dell’amore che regna delle nostre famiglie? Questa concordia fa sì che non abbiamo bisogno di una maggioranza per dirigere, perché il consenso è la realtà quotidiana che salda i vari membri di questo edificio. Quanto alla chiesa, è la comunione che presiede la relazione tra questi membri. Trattare la famiglia e la chiesa sotto la visuale della democrazia significa politicizzare queste realtà che sono infinitamente più profonde degli interessi della Polis. Sono stupita che i preti che lanciano dei seminari di preghiera e di digiuno siano in realtà imperniati su una visione politica unilaterale della famiglia, della chiesa, della società, al punto di diventare dei consulenti volontari che dettano come i colonizzatori un tempo i loro pareri assennati, come oracoli che, dall’alto di una stima di sé sovrabbondante, si ergono sul popolo siriano, considerato come immaturo, incolto, cieco e impotente.
Gli Occidentali sono gonfi di orgoglio a tal punto che non possono pensare ad altri schemi civili che non siano i loro, sebbene il loro mondo debba affrontare una crisi sociale, economica, morale, che è insolubile. Nelle società tradizionali che sono fedeli al sistema ancestrale ereditato dei tempi biblici, esistono altri sistemi, altri parametri che possono sostenere diversamente con successo la vita quotidiana della società. Penso al sistema patriarcale. Penso al sistema delle alleanze tra famiglie, tra le tribù, tra città, regioni e Stati; un sistema federale basato sulle libertà e gli interessi particolari della famiglia, della tribù, legati alla terra degli antenati. Purtroppo l'Occidente ha spazzato via il concetto di appartenenza alla terra, alla famiglia, all'etnia e, tutto sommato, anche a quello di identità ontologica. Il suo modello è basato non sul riconoscimento dell'individuo, ma su interessi secondari. È al principio dell'economicamente utile che si sacrificano – a profitto delle multinazionali – i principi della patria, della famiglia, dell’identità personale. Non si rende conto che siamo avviati verso un totalitarismo tanto più sfrenato e malefico rispetto a questi piccoli regimi autoritari che cerca di rovesciare. Essi hanno avuto tutti il merito di preservare il bene del tessuto sociale, identitario, familiare, tribale e di clan del nostro misterioso Oriente. Sono cosciente che la nostra vita felice è, vista da lontano, totalmente incomprensibile per l'Occidente.
Thierry Meyssan: Il Consiglio Nazionale Siriano di transizione (il CNS, che si è costituito in Turchia) è dominato dai Fratelli Musulmani. Questa confraternita è stata a lungo duramente repressa da Damasco. Le città dove sono storicamente presenti sono oramai il centro della contestazione. I Fratelli musulmani sono innanzitutto partigiani di un'applicazione moderna della Sharia. La loro preoccupazione non ai abbina a quella di numerosi movimenti cristiani che sono a favore di un ripristino della moralità?
Madre Agnès-Mariam de la Croix: Deploro che i sedicenti oppositori non abbiano preso in parola il presidente Bachar el Assad per dibattere con lui la serie di riforme che sta realizzando. Invece, questa opposizione ha chiuso le porte a ogni negoziato, non solo dalle dichiarazioni, ma anche con la forza delle armi, degli attentati e di altre violenze. Il CNS non si presenta come un'emanazione naturale di un'ispirazione reale del popolo siriano ai propri diritti legittimi, ma come il parto obbligato di una collaborazione occulta con gli interessi stranieri verso la Siria.
L'alleanza tra i Fratelli Musulmani e l'Occidente è un scandalo per i cristiani e per i musulmani che non vogliono che il religioso sconfini nelle loro vite civili. Nei regimi laici, instaurati dopo il colonialismo nella riscossa pan-araba, il sollievo più grande era data dalla distanza tra la religione e l’ambito civile. Ora, gli Occidentali che rigettano con ragione l'amalgama tra ambito civile e religioso cercano di favorirlo per rovesciare un regime laico! È ciò che fa paura alla maggioranza del popolo siriano. La Sharia applicata nella sua totalità, come cercano di instaurarla i Fratelli Musulmani, si fonda su regimi teocratici antiquati, oscurantisti, come quello dell'Arabia Saudita. Come si può nel XX secolo accettare una tale regressione e come possono i Fratelli Musulmani apportare degli aggiornamenti alla Sharia che, essendo di natura divina, non dovrebbe essere temperata o rettificata da alcun potere umano?
Sospetto una connivenza nascosta tra gli interessi neocoloniali dell'Occidente e la coercizione mentale effettuata tramite la Sharia. I poteri occidentali hanno purtroppo bisogno, per quanto democratici si presentino, di un sistema che li aiuta a soggiogare le masse con la copertura della pietà e della fedeltà alla religione. Tutto sommato, i poteri occidentali hanno paura dei cristiani che, secondo l'insegnamento del Vangelo, sono liberi di scegliere Bene o il Male e si affidano alla loro dignità di creature ragionevoli, responsabili dei loro pensieri, delle loro parole e delle loro azioni, e questo non è il caso del fondamentalismo musulmano.
Thierry Meyssan: Dei prelati occidentali che vivono nel mondo arabo si sono impegnati risolutamente nella "Primavera Araba". Hanno sottolineato che gli europei non devono essere dei privilegiati, ma che tutti i popoli hanno il diritto di vivere con gli standard occidentali e di beneficiare della democrazia. Tuttavia, il patriarca come il vostro sembra inquieto per la rivoluzione siriana. In definitiva, i cristiani hanno una posizione comunitaria su questo argomento o sono divisi politicamente?
Madre Agnès-Mariam de la Croix: Veramente credo che i prelati occidentali che vivono nel mondo arabo e che si sono impegnati solo mentalmente nella Primavera Araba, sono in realtà dei rivoluzionari di carta. Oltre tutto, non si sono presi la briga di ascoltare la tendenza reale dell'immensa maggioranza silenziosa, cristiana e musulmana. Questi prelati occidentali sono i primi a essere indotti in errore e a dimostrare che disprezzano i valori orientali quando dicono di essere impegnati, perché cercano di importare fuori contesto e con la forza di una propria convinzione lo standard occidentale come fosse la norma universale, unicamente sostenibile, del benessere e della dignità. Purtroppo, noi guardiamo in faccia questo standard, con gli occhi orientali: dove viene data importanza alla famiglia che si sgretola al punto che l'identità di genere è diventata un dibattito all'ONU, quando è un tema totalmente repellente per un orientale e perché non dirlo, dato che siamo liberi di esprimerci, che non accetteremo mai la banalizzazione degli aborti o l'isolamento degli anziani al di fuori della famiglia? È certo che lo standard occidentale è un riferimento solo per quegli orientali che sono sradicati della loro propria identità e che vivono in un mondo virtuale dove si lasciano plasmare sull'immagine dei propri idoli. Non è la rivoluzione che fa paura al patriarca e ai Cristiani, ma è l'ingerenza dell'Occidente che fa pensare che si tratti di una cospirazione o di un movimento indiretto, piuttosto che di un avvenimento interamente spontaneo. I cristiani possono essere divisi politicamente, è un loro diritto. Sono sempre stati pluralistici e va a loro merito. Non ne hanno di meno se, a causa della libertà che è inerente alla loro formazione religiosa, sono gli artefici e un riferimento per ogni rivoluzione degna di questo nome.

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Fonte: Les chretiens d'orient s'érigent en remparts face au nouveau colonialisme occidental