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martedì 10 gennaio 2012

LA FEBBRE DEL GIOCO
Il settore del gioco legale - da quanto emerge dal dossier di Libera - da lavoro a circa 120 mila addetti e muove gli affari di circa 5000 aziende, grandi e piccole. Il giro d'affari complessivo (71,6 lmld) del gioco legale in Italia equivale al 4% del Pil nazionale. L'Italia, in pratica, si colloca al primo posto in Europa e al terzo nel mondo tra i paesi che giocano di più. Sono dati importanti che confermano la propensione al gioco e alle scommesse di milioni di italiani. C'è sul piano sociale un allarme per l'impatto che il gioco, anche legale, ha sulle persone e sulle famiglie ancor di più in tempi di crisi.

I giocatori a rischio o con dipendenza
Sono due milioni - secondo il Dossier «Azzardopoli» di Libera i giocatori a rischio e 800 mila quelli che hanno una vera e propria dipendenza. «Libera - ha detto Luigi Ciotti - vuole sollecitare, senza evocare scenari di proibizionismo e colpevolizzare nessuno, una risposta da parte di tutte le istituzioni e del governo». Un appello alla assunzione di responsabilità rivolto anche «a chi gestisce in maniera legale» le attività di gioco. «C'è - ha sottolineato Ciotti - un rischio dipendenza crescente anche in virtù di un marketing avvolgente. Lo slogano 'più giochi per tutti' è una cosa inquietante». Il rischio è la distruzione individuale e sociale che coinvogle centinaia di migliaia di famiglie 'intrappolate' in una dipendenza economica di debiti che spesso è l'anticamera dell'usura. «C'è un problema di democrazia - ha sottolineato Ciotti - per la democrazia si basa anche sui diritti». In Italia, ha ricordato il fondatore di Libera, non è stato ancora riconosciuto il diritto all'assistenza per i giocatori patologici. Così come avviene in altri Paesi europei.

Roma da primato
Settantasei miliardi di euro il fatturato del mercato legale del gioco nel 2011: 10 miliardi quello illegale; 1260 europro-capite la spesa per i giochi. Quattrocentomila slot machine in Italia,una «macchinetta mangia-soldi» ogni 150 abitanti, con un primato per la capitale: duecentonovantaquattro sale e più di 50mila slot machine distribuite tra Roma e provincia. Questi i dati che emergono dal dossier di Libera, «Azzardopoli, il paese del gioco d'azzardo», curato da Daniele Poto epresentato da don Luigi Ciotti nella sede della Fnsi, relativo alladiffusione del gioco d'azzardo, legale e illegale, in Italia. «Sono ben 41 i clan che gestiscono i giochi della mafia in tutto il paese - afferma Poto -Sono praticamente l'undicesimo concessionario, quello 'occulto' che si affianca ai dieci ufficiali».

Sono ottocentomila le persone in Italia,secondo il dossier, dipendenti dal gioco d'azzardo e quasi due milioni i giocatori a rischio. Dieci le procure della Repubblica che nell'ultimo anno hanno effettuato indagini sul fenomeno: 22 le città dove nel 2010 sono state effettuate indagini e operazioni delle forze di polizia con arresti e sequestri direttamente riferibili alla criminalità organizzata.

Le macchinette e i clan
«Negli ultimi anni la mafia si è infiltrata nel mondo delle macchinette: alterando le reti telematiche che dovrebbero collegarle al monopolio, inquesto modo non viene pagato il 12% dovuto allo Stato», ha aggiunto Diana DeMartino, Direzione distrettuale Antimafia. «Riguardo in particolare alterritorio di Roma - ha proseguito De Martino - qualche mese fa ci sono stati controlli a tappeto sulle sale gioco e le slot machine e molte di queste non erano collegate al concessionario. Sembra inoltre che molti clan camorristicisiano attive nel basso Lazio».

Il primato per il fatturato legale dei giochi, continua il dossier, spetta alla Lombardia con 2 miliardi e 586mila euro, seguita dalla Campania con 1,7 miliardi. All'ultimo gradino del podio il Lazio con 1,6 milardi di euro. «Vogliamo sollecitare una risposta da tutti a cominciare dalle istituzioni e chiediamo un'assunzione di responsabilità da parte delle imprese chegestiscono legalmente questo business - dice don Ciotti -. Le loro campagne pubblicitarie sono trappole psicologiche che recano un danno anche economico alle famiglie. Chiediamo leggi giuste e prevenzione. La lotta a questo fenomeno la si fa in Parlamento».

Milioni di euro investiti (con un sovrapprezzo anche del 5-10%) per l'acquisto di biglietti vincenti al Lotto, Superenalotto e 'Gratta e Vinci' da parte dei clan per giustificare e ripulire il denaro sporco. Anche questo è emerso da indagini recenti dell'Antimafia sull'utilizzo delle lotterie e dei giochi da parte della criminalità organizzata. Ma l'interesse delle organizzazioni malavitose è soprattutto concentrata nel controllo del gioco illegale e nella distribuzione territoriale delle cosiddette macchinette (slot machines e video poker). I 41 clan censiti nel rapporto (dai Casalesi di Bidognetti e Mallardo ai Santapaola, ai Mancuso e Lo Piccolo) messi insieme costituiscono l'undicesimo concessionario occulto del Monopolio.

Il Dossier 'Azzardopoli'
E' stato presentato oggi dall'associazione Libera, alla presenza del sostituto procuratore della Dda, Diana De Martino, scatta un'istantanea allarmante sul ruolo delle mafie nel settore dei giochi illegali che non rappresenta solo un canale di riciclaggio ma è diventata per i boss una gallina dalle uova d'oro per moltiplicare i profitti. «Il settore dove si concentrano i clan - ha detto il sostituto procuratore della Dda, Diana De Martino - è quello delle macchinette perchè è il comparto dei giochi che ha la maggiore 'produttività'». Diverse inchieste condotte dalla Dda in diverse città hanno evidenziato proprio un controllo anche 'militarè sul territorio da parte dei vari clan criminali nella allocazione e nella gestione dei proventi derivanti da queste attività. De Martino, ha ricordato l'inchiesta 'Hermes' della Dda di Napoli dove un personaggio legato ai clan controllava, da monopolista, tutta la distribuzione e il ricavato del gioco in questo settore ad alto valore aggiunto. «Obbligava tutti gli esercizi commerciali a mettere queste macchinette e dettava le condizioni. Era diventato un vero e proprio sportello bancario per i clan. Ci vuole una grande attenzione perchè questa è la nuova frontiera dei clan i cui rischi sono pochi anche perchè le sanzioni penali non sono paragonabili ai reati connessi al traffico di droga ma, allo stesso tempo, i guadagni sono enormi».




("L'Unità" - 9 gennaio 2012)

sabato 7 gennaio 2012

Come se fossimo veri cristiani. Intervista a don Andrea Gallo

Don Andrea Gallo, uomo di cultura è prete di strada genovese, è da sempre al servizio degli ultimi nelle periferie della sua città. Già missionario in Brasile, negli anni ‘50, è fondatore e animatore della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova. Ha pubblicato molti libri, tra cui, nel solo 2011: Non uccidete il futuro dei giovani (Dalai), Se non ora, adesso (Chiarelettere), Il Vangelo di un utopista (Aliberti).
Don Andrea Gallo, uomo di cultura è prete di strada genovese, è da sempre al servizio degli ultimi nelle periferie della sua città. Già missionario in Brasile, negli anni ‘50, è fondatore e animatore della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova. Ha pubblicato molti libri, tra cui, nel solo 2011: Non uccidete il futuro dei giovani (Dalai), Se non ora, adesso (Chiarelettere), Il Vangelo di un utopista (Aliberti).

Partiamo dai fatti di Torino e Firenze. In Italia, nel terzo millennio, si parla ancora di razzismo?
Purtroppo sì, perché in tutti questi anni, nonostante la chiarezza al riguardo della nostra Costituzione - nata dopo un periodo di regime nazifascista che aveva fatto del razzismo uno dei suoi punti cardine - la coscienza antirazzista degli italiani si è andata via via affievolendo, anche per la responsabilità delle agenzie educative, la scuola in primis. Vedo che ancora oggi la scuola, anche nei casi migliori, propone il rispetto per l’altro ma niente di più, nessuna integrazione. Poi ci sarebbe il ruolo - di primo piano - della Chiesa.
Più precisamente?
La Chiesa avrebbe un patrimonio evangelico di fraternità universale, eppure a volte si mantiene troppo sul generico, soprattutto per quanto riguarda la prassi. Per fare un esempio, così come non è mai esistita un’educazione sessuale, similmente non è mai esistita un’educazione all’integrazione, all’accoglienza, alla solidarietà.
Ce n’è anche per la politica?
E' chiaro che qui siamo di fronte a una responsabilità anche dell’Europa, che non si è preoccupata di valutare e gestire i problemi dell’immigrazione in un senso complessivo, con particolare attenzione a quei Paesi, come l’Italia, più soggetti agli sbarchi (a causa dell’ampiezza delle sue coste). È chiaro infine che ci sono gruppi politici con responsabilità precise: vedi la Lega, che non ha perso occasione di esibirsi con gesti volgari di intolleranza, creando a poco a poco quel clima di rifiuto dell’altro che tutti respirano. Firenze non è che la punta dell’iceberg di una mentalità sviluppatasi in assenza di una specifica educazione all’integrazione e all’accoglienza. Ho un motto, che mi ha insegnato don Luigi Di Liegro, Direttore della Caritas di Roma: “Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei”. Mentre dovremmo ricordare bene che l’Italia che dal 1850 al 1950, ha visto emigrare 30 milioni di persone, in tutto il mondo. Lo dimentichiamo troppo facilmente: in questo senso, siamo un po’ tutti responsabili.
Quale avrebbe dovuto essere (e quale è stata) la risposta dei cristiani a questi fatti?
Be’, ci sono immediatamente delle proteste, un grande corteo ecc. I cristiani tuttavia non dovrebbero solo reagire a queste cose, ma impegnarsi e prevenirle con l’educazione a tutti i livelli. Combattendo ad esempio per i diritti dei “diversi”: si pensi ai gay, alle lesbiche, ai transessuali, ma anche ai rom e così via. Invece le proteste sembrano provenire da una minoranza: la grande maggioranza resta indifferente, o timorosa (anche a causa dei mass media, che dovrebbero essere sensibili a queste tematiche e invece spesso non fanno che fomentare l’odio). Conosco associazioni cattoliche impegnate (e anche laiche), tuttavia non c’è una nazione attenta a questo spirito, non dico evangelico e cristiano, ma nemmeno quello dell’art. 2 della Costituzione. Io recentemente ho dichiarato in pubblico: se fossi il vescovo della mia città - visto che sono 15 anni che deve nascere una piccola moschea a Genova - direi: fintanto che non vedo iniziare i lavori del luogo di culto islamico, la chiesa cattolica resta chiusa la domenica. Dovremmo sentirlo forte il grido di Gesù, che è il salvatore di tutti.
Non siamo ancora maturi per l’integrazione.
Peggio: ci stiamo allontanando. Ti faccio un esempio: alla fine del mese, in seguito alla manovra economica del governo Monti, il costo del rinnovo del permesso di soggiorno passerà da 80 euro a 200 euro. Se questo è un segnale di integrazione! Altro che colpire l’evasione: si grava ulteriormente su persone che - avendo il permesso regolare di soggiorno - lavorano già regolarmente, con una busta paga regolarmente denunciata nella quale pagano le tasse. La nostra sembra una civiltà che decade, in viaggio verso la barbarie. I fatti di Genova e Torino sono dei segnali. Per dirlo con Giorgio Bocca: il virus del fascismo è in libera uscita. E la Chiesa dovrebbe fare di più che condannare le violenze: dovrebbe proclamare che se uno vuol essere cristiano e cattolico deve accogliere il fratello, da qualunque parte venga. In maniera molto più decisa.
La posizione della Chiesa sembra in effetti poco chiara: un alto esponente del clero come mons. Fisichella ha potuto affermare, non molto tempo fa che «quanto ai problemi etici, la Lega manifesta una piena condivisione con il pensiero della Chiesa». Condivide?
Ma capisci che sua eccellenza mons. Fisichella è veramente... e tra l’altro è il Rettore Magnifico dell’Università Lateranense. Ed è ancora colui che diceva che le barzellette blasfeme di Berlusconi bisognava contestualizzarle. E nessuno dice niente. Io che sono un prete di strada, se dico che - sulla base delle evidenze mediche - il preservativo è un argine al contagio delle malattie infettive, mi chiamano mille volte per redarguirmi. Ma Fisichella come fa a dire una cosa del genere? Dica pure quello che vuole. Mi chiedo però come è possibile che nessuno alla CEI intervenga in proposito.
Cosa ne pensa della destra cattolica e delle sue pretese esclusiviste e identitarie?
Non esiste la destra cattolica, esistono quelli che sono cristiani e quelli che non lo sono. Il cristiano non ha ricette politiche miracolose, egli va in mezzo agli altri, Gesù è chiaro in questo: siate il sale. Siate il lievito: che non si vede, però il pane vien fuori buonissimo. Come il chicco di grano che marcisce nel terreno, bisogna esser pronti a donare la vita per i diritti di tutti. E questo significa essere coerenti con quello che vuole il Padre, che sta dalla parte dei perseguitati, il cristiano non può mettersi da nessun’altra parte. Qualche notabile dell’UDC mi dice “tu sei impegnato, noi siamo cristiani moderati...”. Dite allora che siete un partito moderato, ma togliete la parola “cristiano”!
Potremmo risalire fino alla Democrazia Cristiana.
Purtroppo quella che doveva essere una grande testimonianza dei cristiani - lo fu per qualche anno la DC di don Sturzo - via via è diventata un “bordello”. Il cristiano sta insieme agli altri, testimonia e propone la sua morale, però non impone, rispetta le regole democratiche con la bussola della Costituzione. Prendi la legge sull’aborto: la legge sull’aborto non impone mica ai cristiani di abortire! O il divorzio, o qualunque altra controversia bioetica degli ultimi anni. Fra poco avremo di nuovo la crociata sul testamento biologico. Nulla di tutto ciò è cristianesimo, nulla di questo è annuncio della buona novella. Un cristiano che non è accogliente semplicemente non è cristiano, non può dirsi cristiano.
Sembra un cristianesimo di principi scollati dalla pratica.
Quando si accoglie qualcuno in casa propria, ci si dà da fare perché non gli manchi nulla e possa esser messo nelle migliori condizioni. Noi, invece di preoccuparci di questo, della condizione ad esempio dei nostri immigrati, acquistiamo i cacciabombardieri. Qui si impone un grosso esame di coscienza dei cristiani. Faccio un altro esempio: in Lombardia, grazie alla presenza di Comunione e Lottizzazione [sic], più del 90% dei medici fa obiezione di coscienza. Ma io dico che sono obiettori senza coscienza! (Tralasciamo la situazione di quei poveri medici degli ospedali cattolici, a rischio di licenziamento, che sono “costretti” all’obiezione di coscienza). Se proprio si vuol fare obiezione di coscienza, si provveda al contempo alla sostituzione, in maniera che i diritti vengano garantiti. Invece oggi, al contrario, è tutto addossato alla singola persona, che deve cercarsi qualcuno che “elemosini” la prestazione. Chi se ne lava le mani, ancora una volta, non è cristiano.
Come se per dare troppa importanza all’eternità, si perdesse di vista la quotidianità...
La Chiesa non può arroccarsi su certe posizioni di principio: la Chiesa è gloriosa e ricca di testimoni che in ogni punto della sua storia le hanno reso onore. Ma la Chiesa è semper reformanda! Noi siamo con Gesù nei nostri tempi! (ride).
La nostra epoca sembra non voler parlare più di giustizia e di pace: appena le si nomina, ci si sente dare del “comunista”. È capitato anche a Lei?
Oggi dare del comunista a qualcuno è un’offesa come un’altra. Io ho conosciuto comunisti onesti, e non per questo nego che il comunismo abbia portato nella storia alle tragedie che conosciamo bene. Parimenti, nessun cristiano potrebbe approvare i gulag o le deportazioni o la dittatura o la guerra. Bisogna abbandonare le etichette e guardare la concretezza della realtà. Quello che bisogna capire è che i carri armati sono carri armati: sia che rechino la stella rossa, sia che rechino quella bianca.
Perché i cristiani non rivendicano pace e giustizia tutti i giorni?
Perché non sono cristiani, è chiaro. Chiamano cristianesimo una religiosità fatta dell’andare a Messa la domenica, dei sacramenti, ma non è chi dice “Signore, signore” il cristiano, bensì chi fa la volontà del Padre. Qui c’è anche una responsabilità dei pastori e dei vescovi. Essere cattolico non vuol dire obbedire al papa e ai vescovi: è una teoria che non sta in piedi.
Una parola di speranza per il nostro vivere cristiano.
Ti dirò cosa penso quando mi alzo la mattina: il male grida forte, ma la speranza in un mondo migliore grida ancora più forte!

Addio a don Luisito Bianchi


Don Luisito Bianchi, 84 anni, è morto giovedì scorso, 5 gennaio 2012, all’ospedale di Melegnano (Milano), dopo un lungo periodo di sofferenze. I funerali saranno sabato 7 alle 11,30 presso l’abbazia benedettina di Viboldone (S. Giuliano milanese), dove egli risiedeva.
Don Luisito Bianchi era nato a Vescovato (Cremona) il 23 maggio 1927 ed era stato ordinato sacerdote il 3 giugno 1950. Laureto in scienze politiche a Milano fu insegnante presso il Seminario vescovile (1950-1951), missionario in Belgio (1951-1955), vicario a S. Bassano in Pizzighettone (1956-1958), quindi ancora insegnante in Seminario (1964-1967) e prete operaio nella città di Alessandria (1967-1971) e anche inserviente in ospedale. Da molti anni era cappellano dell'abbazia di Viboldone alle porte di Milano.
Ha pubblicato: "Salariati" (Ora Sesta, Roma 1968), studio sociologico sul salariato di cascina nel cremonese; "Come un atomo sulla bilancia" (Morcelliana, Brescia 1972, riediz. Sironi, Milano 2005), storia di tre anni di fabbrica; "Dialogo sulla gratuità" (Morcelliana, Brescia 1975, riediz. Gribaudi, Milano 2004), "Gratuità tra cronaca e storia" (1982). "Dittico vescovatino" (2001), "Sfilacciature di fabbrica" (1970, riediz. 2002), "Simon Mago" (2002), "La Messa dell'uomo disarmato" (1989, riediz. Sironi, Milano 2003), un romanzo sulla resistenza; "Monologo partigiano sulla Gratuità" (Il Poligrafo, Padova 2004), appunti per una storia della gratuità del ministero nella Chiesa; diverse raccolte di poesie tra cui Vicus Boldonis terra di marcite (1993) e Sulla decima sillaba l'accento, In terra partigiana, Parola tu profumi stamattina, Forse un'aia.
Nel 2010 pubblica "Quando si pensa con i piedi e un cane ti taglia la strada", dedicato ancora una volta al tema della gratuità.
Insieme a un sofferto attaccamento alla Chiesa la sua voce di uomo e di credente ha testimoniato soprattutto i valori evangelici dell’assoluta gratuità dell’annuncio cristiano, che rifiuta ruoli, privilegi, denaro e potere mondano. Egli è stato discepolo di don Primo Mazzolari ed estimatore di Ernesto Buonaiuti, ha vissuto con grande partecipazione il Concilio, di cui ha denunciato ogni tentativo, in atto, di insabbiamento.
La sua opera letteraria resterà nella storia della nostra cultura. Il suo capolavoro, “La Messa dell’uomo disarmato”, è il maggiore romanzo cristiano sulla Resistenza, che viene interpretata come una faticosa manifestazione della Parola.
Notizie sui libri di Luisito Bianche si possono trovare sul sito
www.viboldone.it e su quelli del suo editore www.sironieditore.it
Milano 5 gennaio 2012
Vittorio Bellavite
La messa dell'uomo disarmato
Un romanzo sulla Resistenza
Primavera del 1940: Franco lascia il monastero benedettino in cui era novizio e torna alla cascina dei genitori, La Campanella. Ha deciso: farà il contadino. L’Italia entra in guerra e Piero, suo fratello, è inviato come ufficiale medico in Grecia. Rientrerà pochi mesi dopo con i piedi semicongelati mentre altri giovani partiranno per la campagna di Russia. Franco è voce narrante di una vicenda corale, che fa perno sulla Campanella per includere la vita dell’intero paese – mai nominato ma collocato nella piana padana – un concentrato microcosmico dell’Italia rurale di allora: i contadini e gli ambulanti, le operaie della filanda, un misterioso professore in odore di socialismo, il maresciallo dei carabinieri, il segretario del fascio, l’arciprete.
L’8 settembre 1943 segna un momento di svolta nella vita di tutti: l’occupazione nazista spinge a compiere delle scelte, per alcuni radicali. Sullo sfondo di una potente “poetica della terra”, si impone il racconto della lotta di Resistenza, sulle montagne, di diverse bande partigiane: la storia di Lupo e di Balilla, di Piero e di Rondine, del Capitano e di Stalino, di Sbrinz. I resistenti trovano sostegno pratico e spirituale nei monaci del monastero in cui Franco è stato novizio: Dom Benedetto segue in montagna le bande, disarmato, abitato da dubbi laceranti ma ancor più da un urgente sentimento di fraternità; l’Abate mette a repentaglio la vita per proteggere i partigiani che gli si sono affidati. Anche Franco, e con lui quanti sono rimasti alla Campanella e nel paese, fanno la loro parte: la Grande Storia si chiude nella piccola storia. Il racconto, scandito dalle stagioni della terra, si avvia al termine seguendo negli anni la vita dei protagonisti fino a quando il senso di avvenimenti tanto grandi sarà finalmente a loro chiaro.
La messa dell’uomo disarmato è un romanzo di altissimo valore letterario e civile, in cui batte qualcosa che interroga la nostra più sincera umanità.
La storia di questo libro
Circolato in edizione autoprodotta e autofinanziata tra il 1989 e il 1995, questo romanzo è già stato a suo modo un best seller, al di fuori del consueto mercato librario, diffondendosi “di mano in mano, da amicizia ad amicizia”.
L’editore Sironi si è imbattuto in quest’opera straordinaria e in Luisito Bianchi. Ne è nata una reciproca elezione, grazie alla quale il romanzo viene ora reso disponibile a un più vasto pubblico.
Dal sito
Nel 60° della Liberazione
“Il sangue dei nostri martiri non è andato perduto, finché c’è la possibilità di farne memoria”
Intervista con don Luisito Bianchi
a cura di Gian Carlo Storti

Quest’anno è il 60° della Liberazione. Che messaggio possiamo lanciare ai giovani che impareranno conoscere – forse – la storia sui libri?
Avete nominato la pace, il 60° della Liberazione che è anche 60° di Resistenza. Questo ideale, questa utopia, che la Resistenza e la Liberazione ci hanno squadernato davanti garantito: che ci sarebbe stato un mondo più giusto dove le cause stesse delle guerre sarebbero state rimosse, e quindi ci sarebbe stata la pace. Invece siamo in piena guerra, facciamo il 60° nel modo che sappiamo, non è che ci sia la pace nel mondo e le cause delle guerre non è che si siano eliminate e nemmeno rimosse. Anzi, sono diventate ancora più crude, più acerbe, per il contrario di quello che doveva essere il sangue versato per la libertà e per rimuovere le cause delle guerre. Che è stato versato senza interesse, quindi usiamo pure la parola: gratuitamente. Il contrario del gratuito, appunto,
è stato questo interesse che ha dominato, che lentamente è subentrato, i blocchi, il potere che è stato ricostruito su antiche basi per lo sfruttamento dell’uomo e quindi dell’uomo più debole.
Direi che il messaggio deve essere quello della pace. I sessant’anni sono stati sessant’anni di guerra. Però quell’ideale, quel sangue gratuitamente sparso e il debito che abbiamo verso quel sangue che attraverso travagli ma anche esaltazioni dell’umanità ci è stato donato è prezioso conservarlo e farlo rivivere dopo sessant’anni, quotidianamente. Perché svegliandosi, vedendo il mondo com’è non abbiamo da vergognarci di essere uomini. E finché c’è la possibilità, c’è questa speranza di un mondo nuovo per poter essere uomini, significa lavorare perché veramente l’uomo sia riconosciuto. E finché ci sarà qualcuno che pensi che sia possibile tutto questo, credo che venga onorato anche il sangue gratuitamente sparso.
Come prete posso dire questo: che il sangue di Cristo che ogni giorno si rinnova nel corpo dato, nel corpo gloriosamente crocifisso e risorto, che ha versato il suo sangue gratuitamente senza chiedere niente, devo credere che sia efficace per qualcosa, che non sia andato perduto. Come il sangue di questi che possiamo chiamare i nostri martiri, non sia andato perduto finché c’è la possibilità di farne memoria, finché ci sarà qualcuno che ne farà memoria. Ossia attualizzerà - in quel momento in cui fa memoria - quello che è stato. Poi un prete, nel buio, certo, della fede - e sottolineo questo buio - crede, contro ogni logica umana, che quel pane, quel vino gratuitamente dati sono il corpo crocifisso e glorioso di Cristo. E quindi questo suo sangue dopo duemila anni è ancora efficace proprio in quel momento in cui io faccio memoria – “fate questo in memoria di me” – e l’efficacia della presenza, l’efficacia di Dio a favore di ogni uomo ha in sé il mistero di divinità: l’uomo che diventa l’immagine di Dio, nel Cristo figlio di Dio… Pensare che sia possibile questo, pensare che diventi efficace questo non solo per la società ma anche per la chiesa che crei questa buona notizia che Dio si è fatto uomo che non solo merita ma esige il rispetto che diamo al corpo di Dio.
Come facciamo conquistare questi giovani che soffrono la diversità…
Secondo me, intanto, non bisogna conquistare nessuno. In fondo questo dualismo, questo contrasto.. Non dico che storicamente la pagina della Bibbia riporti quello che è accaduto ma la riflessione teologica ci dice che la morte è entrata proprio da parte del fratello che ha ucciso… E Dio interviene nel tagliare la spirale della violenza: guai a chi tocca chi ha ucciso, guai a chi tocca Caino. È un retaggio che ci portiamo di dentro, questa divisione. Io, nella mia esperienza di uomo e di prete, ho cercato di fare unità… che poteva essere anche una divisione, nel senso che come uomo dico così ma come prete dico diversamente. Cercare di fare una unificazione fra l’uomo e il prete. … Fare questa unificazione che ha fatto Dio, perché Dio stesso ha fatto unificazione fra l’uomo e se stesso; perché si fece uomo, svuotò se stesso, dice Paolo, svuotò la propria divinità per fare posto all’umanità. Quindi ho l’esempio della unificazione, in Dio stesso, per cui tutto quanto porta a separazione, a divisione, è contro Dio.
Questi giovani… Di analisi storiche se ne possono fare, se ne possono aggiungere altre sociologiche. Ma non hanno chiesto loro di venire al mondo in quest’epoca, in quest’epoca in cui c’è la risorgenza del nazismo, del fascismo, di tutte le dittature che sembravano già ormai condannate dalla storia stessa. Non hanno chiesto loro! Sono entrati in un mondo che abbiamo noi lasciato, una generazione che dal 45 ha potuto vivere questo l’affievolimento... diciamo pure la parola proibita: degli ideali, delle utopie per un mondo unificato, per un mondo fraterno, solidale, mondo dove i poveri avrebbero avuto la possibilità, la dignità di essere considerati uomini alla stessa stregua di tutti. Abbiamo vissuto, lentamente, con lo scorrere del tempo, questo ritorno dello sfruttamento dell’uomo al servizio dell’uomo. E siamo arrivati ad una condizione in cui i giovani… cosa hanno trovato? Hanno trovato quello che le generazioni precedenti hanno lasciato.
Quindi non è che consideri il problema dei giovani come qualcosa a se stante. I giovani si inseriscono in una tradizione. Quello che si lascia, loro raccolgono. E naturalmente se c’è una divisione di dentro – come in ogni uomo c’è questa divisione – possono raccogliere una parte e lasciare un’altra. Insomma, è che bisogna lasciare questi valori con credibilità. In modo che chi prende, dica: per lo meno ci credeva chi mi ha lasciato questo. E la credibilità è nel fare. Non è nel parlare. Nel fare, fare sì che la Parola diventi carne. La preoccupazione per i giovani credo che sia normale per le persone anziane. Ma guai se dovesse diventare l’assillo dell’anziano perché i giovani diventino come lui. I giovani devono fare la loro corsa, prendendo il testimone delle generazioni che hanno vissuto questo. È inutile dunque che chieda ai giovani qualcosa che io non posso dare o no do o non voglio dare. Si danno modelli di comportamento, scelgono loro. Insomma, è un fatto di credibilità di quello che si lascia.
È in atto, oggi, una guerra di religione?
Bisogna vedere che cos’è la religione. Io penso che Cristo non è venuto a fondare una religione. Vorrei essere brutale: è venuto a distruggere ogni religione. Il tempio fu distrutto. Nel momento della morte, dell’unità fra Dio e uomo - ha tanto amato il mondo da dare il figlio suo – il velo del tempio si strappa, il levitismo è superato, ossia il levitismo che faceva sì che ci sia una religione, che ci sia una struttura di potere.
Bisognerebbe quindi domandarci che cosa si intende per religione. Se è una struttura di potere è evidente che c’è un’altra struttura di potere e due strutture di potere possono scontrarsi. Perché vogliono predominare. Ma non è questo per me il significato di fede che credo, spero di poter dire è la mia stessa vita, il mio stesso destino.
Io scarto, ecco, la possibilità di una guerra di religione, in nome di Dio. Si strumentalizza Dio, questo sì, e strumentalizzare Dio è il peccato più grosso. Io ho parlato per la strumentalizzazione dell’uomo, ma quando si strumentalizza Dio è veramente il colmo dei colmi perché strumentalizziamo in lui quella che è la sua stessa essenza manifestataci: Dio ha tanto amato l’uomo da dare il figlio suo. Non è che lo desse in puro spirito. Lo diede perché questa Parola onnipotente che era lui si fece carne, lo diede come corpo; quindi ammazzare un uomo è ripetere il gesto che fu all’inizio il segno della nostra salvezza, la croce.
Religione un conto, può darsi che due strutture di potere entrino in conflitto, ma non credo che oggi si possa in nome di Dio.. Ché Dio è un’altra cosa. Dio ha amato, Dio è amore. Quindi ogni guerra… è tutto un interesse, è un dominio. Certo, sul cinturone dei nazzisti, sul dollaro c’è il nome di Dio perché noi vogliamo ogni nostra azione come cristiani, cattolici-cristiani… Ma sono tutte catalogazioni umane queste: chi è che mi dice “ho la fede”? È un dono! Un dono gratuito. Quindi lo saprò quando ci sarà un giudizio, nel momento in cui vedrò. Rimane solo la carità […] Ma questo è Evangelo, ed Evangelo è la buona notizia e la buona notizia non può venire da uno scontro, la buona notizia viene dall’unificazione dell’uomo. […]
Dopo 60 anni i valori di quella bandiera, parlo della bandiera della Liberazione, oggi sono i valori della bandiera multicolore, della pace, quella bandiera che Lei ha sul balcone a casa sua, a Vescovato.
Non è per scegliere la pace.. È che Dio ha scelto la pace, ha fatto pace tra cielo e terra… tra l’uomo ed egli stesso. Il sangue gratuitamente sparso 60 anni fa, che si opponeva al dominio della forza dell’uomo che strumentalizzava l’uomo, è ancora valido. Come è valido quello che fu all’inizio per chi crede o cerca di aderire al messaggio dell’Evangelo. Qui a Viboldone c’è il Giudice. È un affresco che io ho davanti ogni giorno quando annuncio la Parola, che è immandorlato nei colori della pace ed è seduto sull’arcobaleno: i colori della pace. Ha fatto pace, è avvolto nella pace, è seduto sulla pace. E c’è un omino sotto che, rannicchiato, che ha gli occhi così… da rana, che dice “adesso arriva… arriva… arriva questo piede che trafora la nuvola di pace, mi da un calcio o mi raccatta.. Un calcio per mandarmi all’inferno o mi raccatta per mandarmi alla sua destra… E ho tutti i giorni questa visione… Sono io quell’omino che non so se sarò raccattato o scalciato, però una cosa so, … che è immandorlato nei colori della pace – l’iride, no? - ed è seduto sull’arcobaleno. E alle spalle - per dire tutta la bellezza di questa abbazia – alle spalle del Cristo giudice avvolto nei colori della pace, c’è il Cristo crocifisso. Si toccano di schiena, se dovessimo tirare via le pietre. Quasi che il crocifisso dica al giudice: stai attento, guarda io sono stato innalzato per attirare tutti a me… Quindi sai quanto è costato. Fantasie, certo, non dico poetiche, utopistiche. Ma l’utopia è un non luogo. Un topos, non-luogo. Mettiamo al posto di ‘u’ qualche altra cosa: per esempio la misericordia. Il luogo della misericordia. Per esempio la pace. Il regno dell’utopia, il regno della pace, il luogo della pace. Posso mettere tutti i nomi che creano il luogo. Normalmente metto la carità: Caristopia, il luogo della gratuità. Dio mi salva gratuitamente. Come posso poi dopo, al lato pratico, non pensare che l’uomo che incontro è anche lui un segno, un luogo della gratuità di Dio. E se questa ondata si allargasse agli stati, come potrebbe uno stato aggredire l’altro se c’è questa visione utopica nella quale l’ “u” viene tolta e resa concreta con qualcosa che rispetti questa gratuità di Dio, che rispetti questa misericordia, questa rispetti questa collaborazione, in fondo questa fraternità.

giovedì 5 gennaio 2012

Abolizione albo dei pubblicisti: 10 domande a Mario Monti

L’intervento del presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, non ha affatto diradato le incertezze che gravano sul futuro dei giornalisti pubblicisti e di tutti coloro che stanno affrontando la “gavetta” per poter essere ammessi a questo albo “di serie B” che comprende ormai 80.000 iscritti. Stando alle discquisizioni giuridiche non fa dell’inutile “allarmismo” chi paventa lo scenario dei pubblicisti “fuori legge” a partire dal prossimo 13 agosto.
Il problema principale rimane l’esame di Stato per l’ammissione agli ordini professionali. Principio sancito dalla Costituzione, ribadito nel decreto 138 del 13 agosto 2011, convertito in legge e recentemente modificato dal “decreto Monti“. In sostanza, si dice implicitamente che la legge istitutiva dell’Ordine, nella parte inerente l’albo dei giornalisti (per il quale, questo esame non è previsto), è incostituzionale.
E’ chiaro che ciò crea un problema non da poco sia per coloro che già sono iscritti (la loro posizione verrà in qualche modo “sanata”?), sia per coloro che vorranno in futuro iscriversi e che, molto probabilmente, oltre alla trafila burocratica dei due anni di articoli retribuiti (o fittiziamente retribuiti…) dovranno sostenere anche l’esame di Stato.
Nonostante un certo “catastrofismo” forse prematuro, ripropongo qui le domande fatte a Monti da un gruppo pubblicisti (via Mainfatti.it).
1) Come sarà possibile privare di un titolo chi lo ha già conseguito?
2) Se una testata giornalistica vorrà continuare ad avere la sua rubrica settimanale (per esempio ‘sulle implicazioni nella vita reale della fisica quantistica’ o ‘sulla lettura corretta dei neumi del canto gregoriano’) finora curata da un giornalista pubblicista, a chi si potrà rivolgere visto che “chiunque scriverà in modo continuativo (ad esempio più di dieci articoli l’anno) potrà essere oggetto di denuncia penale per esercizio abusivo della professione”? (in realtà, quella dei dieci articoli oltre i quali scatterebbe l’esercizio abusivo della professione sembra essere una informazione priva di fondamento, n.d..r.) I pubblicisti, infatti, sono nati anche come supporto “tecnico” per i giornali, per tutti quegli argomenti specifici e specializzati su cui i giornalisti professionisti non sanno scrivere (non essendo onniscienti).
3) Che fine faranno tutti quei giornali e periodici, cartacei e online, che hanno come direttore responsabile un giornalista pubblicista? Dovranno chiudere?
4) Stesso discorso per quei giornali o periodici che si reggono grazie al lavoro di pubblicisti: questi rimaranno senza un lavoro e la testata sarà costretta a chiudere, visto che non avrà più una redazione “a norma di legge”?
5) Spesso un pubblicista “acquisisce punteggio” (e mansioni) per il fatto di essere un giornalista nell’ambito di un altro lavoro. Cosa succederà nel “secondo” lavoro se non potrà più dichiarare nel proprio curriculum, ma anche in gratuatorie statali, di far parte di un Albo? Verrà declassato? Verrà licenziato?
6) Che fine faranno i soldi versati dai giornalisti pubblicisti all’INPGI?
7) Che fine faranno i soldi versati dai giornalisti pubblicisti all’Ordine dei giornalisti, anche al momento della loro iscrizione all’Albo?
8) Che fine faranno i soldi versati all’Agenzia delle Entrate, versati al momento della presentazione della domanda all’elenco dei pubblicisti?
9) Che fine faranno tutti quelle persone che in questo momento stanno completando le collaborazioni per potersi iscrivere all’elenco pubblicisti? Per loro, e per tutti coloro che attualmente collaborano come pubblicisti (con piccole, grandi o ridicole retribuzioni) a quanto ammonterà il “danno esistenziale” provocato dalla cancellazione del proprio lavoro – sogno – missione – mestiere – servizio – principio – vocazione – passione – amore – dannazione – fatica – passatempo – tutto?
10) Il prossimo anno, Freedom House a che posto della classifica sulla libertà di stampa inserirà l’Italia, attualmente giudicato come un Paese con una informazione “parzialmente libera”, alla 72esima posizione insieme al Benin, Hong Kong e India? I pubblicisti attendono quindi notizie sulla prima bozza del decreto del Presidente della Repubblica per capire come saranno riformati gli Ordinamenti, da cui dipende il destino di oltre 80mila giornalisti.

lunedì 2 gennaio 2012

Quando il giornalismo è roba per pochi È una vita che si tenta (così dicono, sarà vero?), di riformare quello che sembra l’unico ordine irriformabile: l’Ordine Nazionale dei Giornalisti. Io ne faccio parte da poco tempo anche se scrivo da molto. Posso assicurarvi che non è gratificante intellettualmente e moralmente, sentir parlare di giornalismo da parte di persone che non ne sanno nulla e malamente provano a fare gli esperti del momento. Intanto è sempre più difficile vivere di questo antico mestiere, in un sistema come quello italiano sempre più chiuso e immobile alle richieste dei giovani e all’evoluzione della nostra professione.
Alle volte pesa non aprire un dizionario, non chiedere per sapere ed ecco che nascono le cosiddette “bufale” mass mediali dell’era post moderna (mi perdoni il nobile animale dal quale noi tutti ricaviamo e degustiamo la tipica mozzarella). Ebbene i significati delle parole sono importanti, così come il loro stravolgimento a fini caotici, fini che piacciono molto nell’era del frenetico binomio distruggi e cancella da dare in pasto alla galassia sterminata del chiacchiericcio dei web media sociali (e non solo).
Pubblicisti cancellati? La crisi ha finito le gomme. Leggo sempre più frequentemente titoli come “Verrà cancellato l’Ordine dei Pubblicisti”. Semplice e chiaro: non esiste l’Ordine dei pubblicisti bensì l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, che è “custode” dell’Albo, suddiviso in diversi elenchi: elenco dei professionisti, elenco dei pubblicisti, elenco dei praticanti. Quindi, se proprio dovesse sparire qualcosa, il titolo da fare sarebbe questo: “Verrà cancellato (o Sparirà) l’elenco dei pubblicisti”. Ad esempio, io sono un giovane giornalista iscritto all’elenco dei pubblicisti. Semplice, no? Speriamo lo comprendano colleghi a volte un po’ sbadati, oltre ai tanti professionisti della comunicazione e a quanti scrivono senza leggere o approfondire la materia di cui scrivono e parlano.
2012: l’apocalisse per tutti o solo per i giornalisti? “Sparirà l’Ordine dei Giornalisti” è solo uno dei tanti titoli utilizzati in questi ultimi tempi, da parte di una qualificata (ma anche non qualificata) massa di persone, per annunciare la morte certa del nostro beneamato Ordine irriformabile. Nulla di più falso. Se proprio ci sarà qualcosa che proseguirà in questo sciagurato mondo, Maya permettendo, dopo il 21 dicembre prossimo, è proprio l’Ordine Nazionale dei Giornalisti. Mi dispiace per quanti ci speravano ma l’Ordine, così come altri ordini professionali, non sparirà. Io sono un giovane giornalista pubblicista e spero tanto che l’Ordine si riformi, in bene e sempre al passo con i tempi. La bella e utile “Carta di Firenze”, da ieri ufficialmente in vigore, è una riprova che gli organismi di settore a qualcosa servono, quando sono al fianco e appoggiano chi combatte per una professione svolta in maniera dignitosa. Con buona pace degli abolizionisti integralisti.
Sarà vero che il giornalismo è roba per pochi? Lo scorso 29 dicembre, come è rito, il Primo Ministro Mario Monti ha preso parte alla conferenza stampa di fine anno organizzata dall’Associazione della stampa parlamentare. In tale occasione gli è stata conferita la tessera onoraria dal Presidente del Consiglio nazionale dell’Odg, Enzo Iacopino. Proprio quest’ultimo ha speso parole importanti e dovute, in un momento come questo, su quanto sta accadendo nella rete mediatica virtuale e fisica in merito alla tanto discussa cancellazione dell’Ordine e di noi pubblicisti.
Il 31 dicembre scorso è stata pubblicata sul sito nazionale una sua ulteriore presa di posizione, per smorzare gli effetti negativi della massa incontrollata di bufale che circolano sul web, in questi ultimi giorni: commenti di cittadini sull’inutilità degli ordini, sgomento e rassegnazione per i giovani aspiranti giornalisti e, soprattutto, sgomento di colleghi pubblicisti per quello che potrebbe succedergli.
Sono certo che nessuno di noi smetterà di correre e di lottare per ciò che si è meritato in questi anni, avendo svolto una sacrosanta palestra di scrittura professionale. Nessuno può toglierci ciò che ci siamo guadagnati giorno dopo giorno “sul campo” (e penso a Giancarlo Siani e a tutti i giornalisti precari-eroi quotidiani). Nessuno può discriminarci dopo anni di professione. Nessuno può mortificare le nostre passioni, il nostro dovere di collaborare alla realizzazione del diritto-dovere d’informazione sancito dall’amata Carta Costituzionale. Nessuno può permettersi modifiche senza ascoltare chi lavora per davvero, non per finta, scendendo in strada, facendo telefonate, parlando con la gente e ascoltando tutti senza pregiudizi ma con il solo obiettivo di portare alla luce ciò che spesso viene abilmente tenuto in silenzio.
Nessuno, né la politica, né le bufale mass mediatiche o da bar, potranno cancellare il nostro diritto ad informare e ad essere informati. Ergo, se riforma ci sarà dovrà passare sulla nostra pelle e non aggirarla abilmente senza alcun consulto. Se ciò si dovesse verificare, se davvero poi a qualcuno balenasse per la testa la bella idea di eliminare decine di migliaia di professionisti senza ascoltarli, allora non ci sarebbe altra soluzione della restituzione di tutte le tessere: non solo dei pubblicisti, ma anche dei professionisti, per non dimenticare quella del professor Monti, già pubblicista di lunga carriera. A mio avviso dovrebbe essere il primo a restituirla se la politica e il Governo di cui egli è responsabile si addosserà di tale grave colpa.

Perché giornalisti pubblicisti non si nasce ma ci si diventa con merito e passione.

 (Con Rita Borsellino)