Difendiamo i nostri ragazzi
dal
fondamentalismo:
il caso Opus
Dei
di Anna Rita
Longo
Chi si avvicina in giovane età
all'Opera è destinato a precipitare in una lenta, ma inesorabile spirale di
fondamentalismo. Una soluzione? Divulgare la conoscenza della vera realtà
dell'Opus Dei così come di altre situazioni manipolatorie
Sulle vetrate di un rinomato liceo
cittadino sono stati esposti i tabelloni con gli esiti dell’anno scolastico
appena terminato. Una ragazza dall’abbigliamento sobrio e un po’ rétro sta
prendendo diligentemente degli appunti sul proprio taccuino. Si sofferma sui
primi di ogni classe e ne trascrive sollecitamente i nomi. Penserà poi a
prendere informazioni sugli studenti in questione e a mettere in atto tecniche
personalizzate di approccio.
Tutto può cominciare così, con un
nome su un taccuino e l’invito a partecipare a una generica attività tra
l’impegnato e il ricreativo. Su un adolescente di 14 anni o poco più il clima
affettuoso, le attenzioni, i viaggi, la “bella gente” e l’atmosfera
internazionale esercitano un’attrazione irresistibile. Nessuno, dapprincipio,
pronuncia quel nome – Opus Dei – e, anche se lo facesse, quanti ragazzi, quante
delle loro famiglie hanno mai sentito nominare la milizia di Dio, fondata da san
Josemaría Escrivá De Balaguer? Il distacco da ciò che era la vita di prima,
dalla famiglia e dagli affetti, dalle proprie aspirazioni e dai propri sogni
comincerà con gradualità, si farà strada silentemente, fino al momento in cui ci
si annullerà in nome dell’Opera. Tutto questo anche prima dei 18
anni.
La potenza tentacolare dell’Opus Dei
si nutre di segretezza e di silenzio. “Umiltà personale e collettiva” è la
motivazione ufficiale: si tratterebbe, in ultima analisi, del precetto
evangelico di “non far sapere alla mano sinistra quel che fa la mano destra”, ma
lo scopo sembra piuttosto quello di evitare di far rumore, senza per questo
rendere meno penetrante la propria azione. Quanti anni hanno i giovani adepti
dell’Opera? Ufficialmente non meno di 23, mentre, in realtà, l’effettiva
cooptazione avviene diversi anni prima, in un’età delicatissima per lo sviluppo
umano e psicologico dell’individuo.
I canali di contatto sono molteplici
e spesso i rischi sono del tutto sconosciuti ai genitori degli adolescenti
avvicinati, che si ritrovano completamente sprovvisti di mezzi per contrastare
l’indottrinamento dei figli.
Ma, in pratica, di che cosa si
occupa l’Opus Dei? Nelle parole del fondatore doveva trattarsi di una “via per
la santificazione del lavoro quotidiano”, mentre, a giudicare dalle inchieste
che di recente ne hanno esaminato l’azione (citiamo, ad esempio quella di
Pinotti del 2006, BUR), sembra che ben più secolari ne siano gli scopi, che
coinvolgono politica, alta finanza e, in generale, tutti gli aspetti del potere
mondano.
Ma ciò che particolarmente fa
indignare è proprio questa attività di proselitismo rivolta ad adolescenti e
giovani, non ancora forniti degli strumenti per difendersi dalle sottili
strategie psicologiche messe in atto. L’esito di questo ben orchestrato attacco
è il lento ma inesorabile precipitare nella spirale di un fondamentalismo
condito di rituali che hanno del medievale – non a caso è previsto anche l’uso
del cilicio – e che rendono la vita dell’adepto, soprattutto se si parla dei
membri numerari, uno snervante ripetersi di gesti, preghiere, “pie” pratiche
dall’effetto alienante.
Quale sia dall’interno la vita del
numerario opusdeino è descritto con ammirevole precisione nel bel saggio di Emanuela
Provera, numeraria dal 1986 al
2000, pubblicato per i tipi di Chiarelettere. Il libro nasce dal confronto,
spontaneamente fiorito in un forum riservato su internet, tra diversi ex
numerari italiani, che hanno contribuito a dipingere un quadro sconcertante ma
ignoto ai più. Una brutta storia fatta di coercizione e di proselitismo senza
scrupoli, causa di immani sofferenze per molte famiglie, impreparate ad
affrontarne le conseguenze. È questa la ragione per la quale auspico la massima
diffusione del saggio della Provera, a tutela della libertà dei nostri ragazzi e
della serenità delle loro famiglie.
Puntualizziamo ora, con l’aiuto
dell’autrice, che si è gentilmente offerta di rispondere alle nostre domande,
alcune questioni centrali in merito al rapporto tra Opus Dei e
adolescenti.
Nel suo libro lei ha parlato
diffusamente delle tecniche di reclutamento dell’Opus Dei e della loro
efficacia, in particolar modo sulle giovani menti. Quali sono, a suo avviso, i
rischi che i nostri ragazzi corrono in seguito alla loro affiliazione alla
“milizia di Dio”?
Sì, è vero, ne ho parlato e ne parlo
continuamente perché le tecniche utilizzate dall’Opus Dei per fare apostolato,
cioè per avvicinare altre persone all’istituzione, inducono ad una sorta di
destrutturazione, cioè di privazione dei punti di riferimento che l’individuo
eredita dalla propria famiglia o ambiente sociale. Queste modalità, cosiddette
di “formazione”, hanno successo soprattutto se rivolte ai giovani che,
naturalmente, cercano appigli estranei alla famiglia in un sano tentativo di
emancipazione da chi li ha cresciuti.
La prassi ascetica nell’Opus Dei
prevede che con la direzione spirituale, ossia attraverso il “colloquio
fraterno” e la “Confessione sacramentale”, il giovane consegni la propria
intimità a due persone appartenenti all’Opus Dei. Il mondo interiore del
ragazzo/a, fatto di progetti, pensieri, emozioni, desideri, stati d’animo, gioie
e dolori, viene canalizzato e orientato dai “direttori dell’Opera” che, in altre
parole, svolgono la funzione dei “superiori” come nei seminari per preti
diocesani. Ma i direttori dell’Opera tra l’altro, essendo laici, non hanno la
sacra potestas per svolgere tali funzioni.
Il problema nasce quando i
“direttori” non comprendono (o intenzionalmente non vogliono comprendere) che
alcune espressioni di quel delicato mondo interiore richiederebbero di essere
trattate in seno alla famiglia, con la presenza dei genitori o attraverso una
sana vita sociale dalla quale, invece, i ragazzi vengono allontanati. In altri
casi potrebbe risultare opportuno ricorrere alla consulenza di un medico, magari
psicoterapeuta invece di suggerire il rimedio della preghiera o della
Confessione sacramentale. Così i responsabili del lavoro formativo – appunto i
direttori/direttrici – diventano colpevoli di “manipolazione mentale”, induzione
alla disistima e all’isolamento. Qualche legale, consultato da ex membri
dell’istituzione, ha ipotizzato anche il reato di omissione di soccorso in
considerazione del fatto che nell’Opera abbondano situazioni di disagio fisico e
psicologico. Talvolta sarebbe sufficiente lasciare le persone libere di dare una
direzione alla propria vita, senza inculcare l’idea di una vocazione all’Opus
Dei magari imponendo il sacerdote confessore, come invece avviene abitualmente
nell’istituzione.
In Italia manca la tutela giuridica
di queste situazioni limite, anche “grazie” alla depenalizzazione del reato di
plagio e ad una classe politica che non ritiene mai di dover prendere in
considerazione i danni provocati da realtà riconducibili alla Chiesa cattolica,
sia quelli di carattere psicologico che quelli economico-finanziari.
Leggendo le storie raccontate nel
suo libro viene spontaneo chiedersi se si tratti di casi limite o della norma.
Che cosa può dirci in merito?
Io personalmente e molti ex
appartenenti all’istituzione abbiamo subito la dinamica del controllo mentale
generata dalle modalità che ho appena descritto; io stessa ho adottato questi
metodi nella formazione di ragazze giovanissime. Ritengo quindi che i casi
limite siano sistematici. Resta il dubbio se i direttori siano consapevoli di
fare del male alle persone. Da colloqui privati con persone ancora dentro l’Opus
Dei ho sentito varie volte ammettere che si sono commessi “errori e
superficialità”. Non ci sono mai state però ammissioni di colpa. Velatamente il
prelato dell’Opera, Javier Echevarría, parlando degli ex appartenenti
all’istituzione, pare che abbia chiesto genericamente scusa: «Se abbiamo offeso
qualcuno, chiediamo il loro perdono». Ma il più delle volte è lo stesso Prelato
a propagandare “l’accompagnamento spirituale personalizzato” offerto dall’Opus
Dei.
Nel suo libro lei ricorda che
Escrivá aveva una concezione assolutamente negativa del pensiero critico, che
andrebbe represso e combattuto. In questo senso sembra che l’Opera proponga un
ideale in contrasto con quello che è considerato lo scopo delle istituzioni
formative (la scuola in primo luogo), ossia proprio la formazione della mente
critica. Ritiene corretta questa valutazione? Alla luce di ciò, come conciliare
l’appartenenza all’Opus Dei con le esigenze educative degli
adolescenti?
Escrivá diceva che “È cattiva
disposizione ascoltare la parola di Dio con spirito critico” [Cammino n. 945],
ma la parola di Dio – secondo lui – proveniva dai direttori/direttrici che,
senza nessuna competenza professionale, pedagogica, medica, psicologica,
elargiscono “consigli” come fossero ispirazioni provenienti dall’Alto. In questo
modo, cioè attraverso il ricatto affettivo (del tipo «se non ascolti con
docilità il direttore/direttrice non fai la Volontà di Dio, sei disubbidiente,
non ti santifichi») si attua una vera e propria manipolazione volta ad annullare
ogni germe di sano spirito critico nelle persone che si affidano ai direttori
dell’Opera. Con l’accusa della “disobbedienza” spirituale si scoraggiano i
fedeli (giovani, adulti, donne e uomini) dal porsi in modo dialettico nei
confronti dell’autorità perché “non è superbia ma fortezza far sentire il peso
dell’autorità” [Escrivá, Forgia n. 884]. D’altra parte l’Opus Dei è piuttosto
abile ad ossessionare i giovani su questioni di sesso, provocando una vera fobia
che degenera in forme evidenti e ridicole di nevrosi. Lo stesso dicasi per i
temi del comunismo e del diavolo. In questo senso l’istituzione dovrebbe fornire
un supporto economico ai suoi ex aderenti che, in molti casi, devono ricorrere a
cure psichiatriche o psicoterapeutiche per seguire una terapia di
de-programmazione; con l’obiettivo di riappropriarsi dell’ identità perduta e
uscire da forme usuranti di alienazione.
Ritengo che non sia conciliabile
l’appartenenza all’Opus Dei con un corretto modo di rapportarsi agli
adolescenti, se non altro perché li si lascerebbe tranquillamente in balia di
direttori/direttrici dell’Opera che – a loro volta privati della libertà
individuale – esercitano coercizione psicologica sulle loro vittime.
A questo punto sembrerebbe opportuno
intraprendere attività di prevenzione del reclutamento forzato dei nostri
ragazzi. A quali strategie, a suo avviso, è possibile pensare per aiutare i
giovani a prendere decisioni ponderate, salvaguardando la loro personalità in
formazione da ogni forma di coercizione, diretta o indiretta?
Il problema non è di facile
soluzione perché riguarda principalmente i genitori, cioè i primi educatori dei
giovani. Ma gli adulti – in Italia e in questo periodo storico – brillano per
appiattimento culturale e privazione di contenuti valoriali forti. I genitori,
non cresciuti, il più delle volte trovano negli ambienti dell’Opus Dei una
specie di “ritorno gratificante” del loro (scarso) impegno verso la vita e i
figli, un involucro sicuro che mette al riparo dalle difficoltà e dalla
complessità del quotidiano con cui i loro figli dovranno prima o poi scontrarsi.
Queste nuove generazioni di adolescenti hanno genitori che hanno creduto di
“comprare” l’istruzione, la laurea, la posizione sociale, la realizzazione dei
figli. Tanti altri, invece, si sono avvicinati all’Opera perché sinceramente
cattolici e desiderosi di fornire una formazione sicura ai figli ma sono stati
ingannati dall’istituzione che proclama la laicità e il cristianesimo vissuto al
100 per cento costringendo invece i propri fedeli numerari a vivere come preti e
frati.
Una soluzione potrebbe essere quella
di divulgare la conoscenza della vera realtà dell’Opus Dei così come di altre
situazioni manipolatorie, che si trovano anche fuori dalla Chiesa cattolica. È
importante che chi ha ruoli formativi coltivi la passione per la libertà e
diffonda una cultura di non violenza nelle relazioni interpersonali, aiuti i
giovani ad amare la lettura, l’approfondimento dei temi di attualità, per
sviluppare in loro un atteggiamento intellettuale onesto e radicato nella
crescita individuale. A suggerirlo non è solo la grande filosofia ma anche la
più classica teologia morale cattolica: “L’essere umano deve sempre obbedire al
giudizio certo della propria coscienza” (Catechismo della Chiesa Cattolica,
articolo 1800). Norma disattesa innanzitutto dagli esponenti della chiesa
istituzionale che, a loro vantaggio, diventano i più accaniti fautori del
pensiero unico e formano persone manovrate da altri, infelici, dannose per la
società.
(3 febbraio
2012)
Nessun commento:
Posta un commento