NATALE PAGANO
Il Natale non fa tutti
più buoni: fa tutti più vuoti. Il cristiano che fa shopping di regali e
strenne natalizie rappresenta un caso di sdoppiamento della personalità: in
tutta buona fede crede che Gesù nacque figlio di Dio a Betlemme, segnando in una
stalla lo spartiacque decisivo della storia umana; contemporaneamente, è perfettamente
cosciente che tale evento non condiziona la sua vita reale, in quanto l’epoca
moderna, disincantata e secolarizzata, è scristianizzata. Siccome l’economia
tende a inglobare ogni forma di espressione umana, quegli appuntamenti che
nonostante tutto mantengono in vita una sia pur debole fiammella di fede
ultraterrena si trasformano in orge di bancomat e scontrini. Babbo Natale e
l’albero dei doni, americanizzazioni di antichi miti pagani europei, vincono sul
Bambinello e sulla Vergine, perché più adatti a innescare la corsa agli acquisti
commerciali.
Questo lo sa benissimo anche
il devoto che va alla messa notturna del 25 dicembre, e lo accetta di buon
grado. Per quieto vivere, perché così fanno gli altri, per abitudine. Ma
soprattutto perché, dopo due secoli di sistematica estirpazione del sacro
dall’esistenza quotidiana, non riesce a percepire il divino. E lo sostituisce
malamente con una fedeltà a riti di massa che non sono morti solo perché una
parvenza di tradizione spirituale serve ad appagare il bisogno innato di
trascendenza e di comunità. E’ la sensazione di una notte, sia chiaro. Per il
resto c’è la carta di credito.
Eppure quel bisogno
preme, non si dà pace, è insoddisfatto. Non è umanamente sostenibile una
religiosità circoscritta a qualche giornata di contrizione ipocrita, o, bene che
vada, alla particola domenicale. E’ nelle difficoltà di ogni giorno che al
comune ateo travestito da credente manca la forza rassicurante e rigenerante del
divino, del numinoso. L’aura sacra
che un tempo avvolgeva ogni momento del nostro passaggio sulla terra si è
eclissata, scacciata con ignominia dalla spasmodica ricerca di ritrovare in
tutto una causa dimostrabile.
La morte di Dio ci ha
lasciati soli con una tecnica scientifica che ha razionalizzato la natura
mortificandola, e con una logica economica che va per conto suo, incontrollata e
disanimata, rubandoci la libertà di cambiare il corso della storia. Siamo soli
col denaro, vero nostro Signore. Dice bene Sergio Sermonti, scienziato
anti-scientista – un apparente ossimoro che gli è costato l’ostracismo pubblico:
«Come insegnava Goethe, non dovremmo chiederci il perché ma il come delle cose. Nel
chiedere il perché c’è un tacito presupposto che dietro ogni cosa ci sia
un’intenzione, un proposito (appunto, un “perché”) e quindi che ogni cosa sia
scomposta o scomponibile in fini e strumenti, o mezzi di produzione, come
un’azienda umana. Sotto tutto questo c’è una sottile mentalità ottimistica,
economicistica, produttivistica. No. Il mondo opera su un’altra dimensione,
galleggia nell’eterno, è sospeso nell’infinito, ed è per l’appunto questo
spostarci nelle sue dimensioni incantate il più raffinato e prezioso risultato
della conoscenza, e non, al contrario, quello di rovesciare il mondo ai nostri
piedi» (“L’anima scientifica”, La Finestra, Trento, 2003).
Per recuperare il senso del
divino, il cristianesimo ormai serve a poco. E’ troppo compromesso con la
modernizzazione, essendosene spesso lasciato usare come puntello e bandiera. Le
Chiese sopravvivono nell’acquiescenza allo stile di vita radicalmente
anticristiano dell’uomo consumato dai consumi. In particolare i Papi, incluso
l’ultimo, il tradizionalista Ratzinger, si sono arresi a Mammona, e non c’è un
prete a pagarlo oro che si scagli contro i moderni mercanti nel tempio:
preferiscono i facili anatemi sulle unioni omosessuali e le comode prediche
sulla fame in Africa. Il cristiano ha dimenticato il pauperismo di San Francesco
d’Assisi, ha rinnegato l’umanesimo dei pontefici rinascimentali, ha sepolto
l’antimodernismo del Sillabo, con Lutero e Calvino è stato all’origine stessa
dell’etica capitalistica. Si è adattato al materialismo con il Concilio Vaticano
II e allo showbusiness con Giovanni Paolo II: rinunciando alla lotta contro il
mondo, non costituisce nessuna minaccia per il MacWorld. Anzi gli fa da
angolo cottura spirituale.
Da chi o da cosa, allora,
può venire un aiuto per liberare la divinità prigioniera che scalpita dentro di
noi? L’ostacolo viene dal fatto che il cosiddetto progresso, scomponendo
razionalmente la natura e violentandola nell’insaziabile tentativo di piegarla,
l’ha resa muta e l’ha eliminata dalla nostra esperienza quotidiana. Da un lato
non ci fa più alcuna paura, la paura ancestrale che è il moto d’animo originario
di qualsiasi cultura. Dall’altro l’elemento naturale, incontaminato o non del
tutto antropomorfizzato (com’erano ancora le vaste campagne nell’Ottocento e nel
primo Novecento) si è via via ristretto e diradato. E’ letteralmente scomparso
dalla nostra vista.
Oggi la stragrande
maggioranza della popolazione mondiale vive concentrata come formiche in centri
urbani sovraffollati, dove il verde è rinchiuso in minuscole riserve
talmente artificiose che la regola è di non calpestare le aiuole. I bambini non
fanno più conoscenza con la terra perché non ne hanno più sotto casa, non
s’incuriosiscono scoprendo insetti e animali perché abitano circondati dal
cemento e non si sporcano nemmeno più, perché passano il tempo ipnotizzati
davanti a computer, televisione e videogiochi. Nei weekend o in vacanza le
famigliole si recano diligentemente al mare o in montagna, ma a parte qualche
bagno o escursione, inquadrati in ferie organizzate a puntino con tutti i
comfort, il contatto con le forze naturali è minimo, povero, addomesticato.
Sempre insufficiente a resuscitare una risonanza interiore fra l’io individuale
e il cosmo, fra il sentimento della propria limitatezza personale e il
sentimento di appartenere al tutto, all’organismo della vita. E’ in questa
corrispondenza che si può provare la percezione che in un orizzonte, in un
albero, in un filo d’erba, in un soffio di vento, in ogni singolo nostro respiro
esista un’anima, cioè un dio. Ma se non si sperimenta in sé questa immediatezza,
anche il discorso più ispirato resta lettera morta, una pia intenzione
romantica.
La gioia im-mediata di
sentirsi partecipe di un grande Essere ci è preclusa dal sovraccarico di
costruzioni mediate, razionalistiche, cervellotiche e meccaniche con cui
abbiamo imparato a guardare e toccare ciò che ci circonda. Questa è la malattia
che ci portiamo addosso: l’eccesso di ragionamenti che desertifica il nostro
bosco profondo. L’uomo scettico e che la sa lunga ha orrore della naturalità
nuda e pura, e se non può manipolarla con la sua scienza maniacale e coi suoi
aggeggi tecnologici, la respinge, dipingendola come un caos di animalità bruta e
senza controllo. Ma basta uno tsunami, un terremoto o l’esplosione di furia
omicida (anche questa è “natura”) per rendergli la pariglia e mostrargli che
Madre Terra, vilipesa e umiliata, è sempre lì, pronta a risvegliarsi.
Scegliere consapevolmente di
risvegliarla non è possibile, per ora, nemmeno nel privato del proprio foro
interiore. Il salto è accessibile solo a una condizione, oggi impraticabile a
livello di massa: il ritorno a un sistema di vita più semplice e scandito dai
ritmi naturali. Eppure, se tu che mi leggi non cominci almeno a porti il
problema, l’impossibile resterà impossibile per sempre. (a.m.)
da: www.alessiomannino.blogspot.com
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