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martedì 27 dicembre 2011

La fede cieca ed incondizionate nel Dio Mercato

Per decenni il sistema di potere creato dalla borghesia capitalista ha predicato nel mondo, a partire dal secondo dopoguerra, quella che si potrebbe qualificare come la religione più diffusa e vincente di ogni tempo e luogo, la fede cieca e incondizionata nel Dio mercato e nel totem della finanza, il culto idiota e mondano del denaro e del successo, il feticismo della merce e del profitto, la morale utilitaristica dell’avere e dell’apparire ad ogni costo in luogo dell’essere, sacrificando e calpestando tutto e tutti.
Azzardo alcune riflessioni preliminari di ordine filosofico ed esistenziale, quindi politico. Il re è nudo, si potrebbe osare. La realtà, che supera puntualmente ogni immaginazione, ispira e suggerisce un’elaborazione critica di straordinaria attualità storica.
Il corollario finale è stato l’avvento di una sottocultura di massa improntata al consumismo più esasperato, acritico ed alienante, all’edonismo ebete, individualista e conformista, quella che nell’età contemporanea è l’ideologia più ottusa e onnipotente, una mentalità autoritaria e pervasiva, più feroce e persuasiva rispetto a qualsiasi tipo di assolutismo e totalitarismo che si sia mai conosciuto nella storia millenaria dell’umanità.
Negli ultimi cinquant’anni, alle popolazioni del mondo occidentale è stato imposto uno stile di vita ultraconsumista: ci hanno bombardato il cervello per convincerci che bisognava lavorare e produrre al massimo per guadagnare e consumare il più possibile con il risultato che gli individui sono in gran parte stressati, assai insoddisfatti e infelici.
Pertanto, si potrebbe dedurre che la scelta più saggia sia quella di moderarsi in modo da lavorare il meno possibile e, di conseguenza, avvelenarsi il meno possibile, sentirsi meno stressati e puntare ad arricchirsi, non tanto sul versante strettamente materiale, quanto a livello umano, ossia affettivo e spirituale. In altri termini si può scegliere di condurre uno stile di vita più sobrio sul piano dei consumi in modo da permettersi un’esistenza più emancipata dal bisogno, ovvero più libera dallo stress e dalle tossine della vita moderna.
Certo, se un individuo non si accontenta di un cellulare, ma ne vuole due di ultima generazione, se invece di un’auto per ogni famiglia si avverte il “bisogno” di un’auto a persona, se si desidera la villa in campagna e l’appartamento al mare, insomma si inseguono ossessivamente le mode consumistiche, si moltiplicano i falsi bisogni indotti dal mercato, è inevitabile che non basta uno stipendio, è inevitabile essere assoggettati ad un “benessere” fittizio, essere succubi del bisogno e del lavoro, infelici e stressati.
Sia chiaro che tale ragionamento non inneggia alla filosofia, oggi in voga, della cosiddetta “decrescita”, né corrisponde ad una visione “pauperistica” o “francescana” del mondo, ma si limita a suggerire un’ipotesi che è tanto necessaria quanto realistica e praticabile, un’attitudine pragmatica che potrebbe rivelarsi utile per affrontare le gravi difficoltà legate all’attuale fase di austerità e di recessione dell’economia capitalista.
Bisogna rendersi conto che la decrescita è già presente oggettivamente nella realtà dei fatti, sia in Italia che altrove, nel senso che il tasso di crescita economica del nostro Paese è in costante diminuzione da quasi mezzo secolo, a partire esattamente dal “boom economico” degli anni ‘60. Occorre prendere onestamente atto che la decrescita o, meglio ancora, il sottosviluppo e la miseria, sono le conseguenze di un sistema di distribuzione iniqua, irrazionale e distorta delle ricchezze sociali, sono il risultato delle contraddizioni strutturali insite nel funzionamento del modo di produzione capitalistico.
Tornando al tema precedente, è ovvio che il discorso non vale in termini assoluti bensì relativi, per cui sono esclusi, ad esempio, coloro che versano in condizioni di estrema (o relativa) povertà o chi vive in realtà metropolitane in cui il costo della vita è altissimo e si è costretti a spendere oltre la metà dello stipendio per pagare l’affitto mensile. In questi casi temo che la filosofia “stoica” o la morale “francescana” servano a ben poco.
E’ chiaro che la condizione proletaria non va idealizzata, bisogna battersi per l’abolizione del proletariato in quanto classe, e la sobrietà intesa come stile di vita, saggezza o moderazione, non va vissuta “stoicamente” ma come necessità contingente. Stiamo attraversando una fase in cui dobbiamo misurarci con le condizioni storicamente determinate, senza cedere alle mode consumistiche, né ad uno stile di vita francescano.
E’ altresì evidente che lo sfruttamento e la violenza di classe non possono durare a lungo senza essere accettati dagli sfruttati. A questo compito era deputata in passato la religione. Ma oggi questo strumento di convincimento è vecchio e superato, inadatto allo scopo nell’epoca dell’economia di mercato. Una nuova forma di condizionamento e debilitazione morale è intervenuta: dall’idolatria trascendente all’idolatria delle merci.
Le osservazioni esposte finora servono ad introdurre un ragionamento sul concetto di “proletariato” e sul significato (non solo simbolico) che assume oggi un vocabolo che per molti ha un sapore anacronistico e veterocomunista, di stampo addirittura ottocentesco. E’ noto che i proletari sono coloro che possiedono esclusivamente la prole, ossia i figli. Il termine indicava in origine una classe di lavoratori il cui ruolo, nel modo di produzione capitalistico, è di prestare la forza lavoro in cambio di un salario, ma nel corso del tempo il significato si è modificato, adeguandosi alle nuove circostanze storico-sociali.
Se in passato il termine designava specificamente una classe di operai che hanno come sola ricchezza la prole, in seguito il senso letterale si è aggiornato ed è stato sostituito da un’accezione più ampia che comprende la totalità dei salariati, inclusi i lavoratori intellettuali ridotti in uno stato di precarietà e che percepiscono un salario miserabile.
E’ altresì indubbio che negli ultimi cinquant’anni il proletariato che vive nei Paesi sviluppati del mondo occidentale, si è imborghesito, in particolare sotto il profilo mentale e culturale. Nel contempo conviene ragionare sul fatto che l’attuale crisi recessiva sta producendo effetti di proletarizzazione dei ceti intermedi, un tempo agiati e benestanti, ed immiserisce in modo doloroso le classi operaie degli Stati occidentali.
Non serve rammentare che un numero crescente di famiglie italiane (ma il discorso vale a maggior ragione per greci, irlandesi, portoghesi e via discorrendo) non riesce ad arrivare alla fine del mese, se non proprio alla terza settimana, quando tutto va bene.
Aggiungo una chiosa finale per chiarire che l’esperienza storica pregressa dovrebbe insegnarci che un rovesciamento radicale dell’ordine economico e sociale senza una corrispondente rivoluzione intellettuale in un senso antiautoritario, senza un processo di affrancamento culturale delle singole persone, non ha molto senso e rischia di rivelarsi fallimentare in quanto non produce un’effettiva emancipazione degli individui, come è accaduto nel caso delle rivoluzioni politiche e sociali compiute finora dal genere umano.
In sostanza, la trasformazione dell’esistenza si compie attraverso processi rivoluzionari paralleli che investono l’assetto della sociètà nel suo insieme e la formazione etica, civile, psicologica e spirituale delle persone, che altrimenti rischiano di sottostare ad una nuova forma di oppressione che non è solo politica e materiale, ma altresì culturale.

lunedì 26 dicembre 2011

“Vent’anni dopo il messaggio
di Don Peppe è ancora attuale”

La parrocchia di Casal di Principe ha deciso di distribuire il documento vergato da Don Diana nel Natale 1991 in cui tuonava contro la politica e le collusioni con la Camorra. Quel testo fu fra le cause della sua uccisione nel marzo 1994

A Natale di vent’anni fa, don Giuseppe Diana pubblicava il documento: “Per amore del mio popolo”. La curia di Casal di Principe lo distribuirà il 25 dicembre prossimo al popolo dei fedeli proprio come quel Natale del 1991. Lo farà per riannodare il filo della memoria con un martire della Chiesa, ma anche per indicare una via d’uscita a quanti ancora oggi sono imbrigliati nella rete dell’illegalità e della violenza. Quel documento, che è di un’attualità straordinaria, fu una delle cause della uccisione di don Diana per mano della Camorra, avvenuta il 19 marzo del 1994. Il parroco della chiesa di San Nicola di Bari di Casal di Principe tuonava contro la politica e le sue collusioni con la camorra. Puntava il dito contro la sua chiesa che non parlava con voce chiara. Denunciava la presenza di un’imprenditoria collusa e corrotta. Ma lo faceva quasi in solitudine, in un clima di violenza diffusa che ha prodotto decine e decine di morti. Don Peppino credeva nella “forza della parola”. La usava per spiegare, convincere e disarmare i giovani che erano affascinati dalla violenza camorristica. Alzava la voce per difendere la parte più debole del suo popolo. L’amore per la sua gente e la sofferenza di tante famiglie lo aveva spinto ad uscire dalla sagrestia per cercare di impedire a tanti giovani di percorrere i sentieri che portavano direttamente alla morte. E per questo era diventato il simbolo del riscatto della propria terra. Non glielo hanno perdonato. Ha pagato con la vita il coraggio di ribellarsi.

“La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Scriveva don Diana in quel documento del 1991. Fotografava la vita nelle contrade del suo territorio con una chiarezza unica: “I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”. Conosceva fin troppo bene la sofferenza di tante mamme che temevano di vedere distrutte le vite dei propri figli. Perciò scriveva: “Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra”. Era consapevole che la Chiesa deve svolgere un ruolo di primo piano nel costruire la speranza. Perciò parlò con le parole dei Profeti. Utilizzò le parole di Ezechiele per richiamare la denuncia. Le parole di Isaia per guardare avanti. Le parole di Geremia per richiamare la Giustizia sociale” e la “Genesi” per vivere nella solidarietà.

La politica la metteva sul banco degli accusati: “E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale”. Si appellò soprattutto ai suoi confratelli, ai Cristiani, al popolo di Dio, per aprire un varco nei clan della camorra che nel 1991 apparivano, nonostante le divisioni, come un unico monolite di violenza. Si appellò soprattutto al Popolo di Dio e ai sacerdoti:

“Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. (…) Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

E’ stato ucciso per quello che ha scritto. Ma il suo sangue è stato il seme che ha dato buoni frutti. Ora, il territorio che in tanti conoscevano come il regno della camorra, sta cambiando pelle grazie anche al suo martirio e sta cambiando anche nome: Casal di Principe non è il paese di Sandokan, ma è il paese di don Peppino Diana.


Alle 7.30 del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, don Giuseppe Diana viene assassinato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre si accingeva a celebrare la Santa Messa. Due killer lo affrontano con una pistola calibro 7.65. I quattro proiettili vanno tutti a segno, due alla testa, uno in faccia e uno alla mano, Don Peppe muore all'istante.

L'omicidio, di puro stampo camorristico, fece scalpore in tutta Italia. Un messaggio di cordoglio venne pronunciato anche da Giovanni Paolo II durante l'Angelus.

Don Peppe visse negli anni del dominio assoluto della camorra casalese, legata principalmente al boss Francesco Schiavone detto Sandokan. Gli uomini del clan controllavano non solo i traffici illeciti, ma si erano infiltrati negli enti locali e gestivano fette rilevanti di economia legale, tanto da diventare "camorra imprenditrice". Il barbaro omicidio, dicono gli atti processuali, maturò in un momento di crisi della camorra casalese. In questo periodo, una fazione del clan ordinò l'omicidio di don Peppe, personaggio molto esposto sul fronte antimafia, per far intervenire la repressione dello Stato contro la banda che ormai aveva vinto la guerra per il controllo del territorio. Il suo impegno civile e religioso contro la camorra ha lasciato un profondo segno nella società campana. Il suo scritto più noto è la lettera Per amore del mio popolo non tacerò, un documento diffuso a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana insieme ai parroci della foranìa di Casal di Principe, un manifesto dell'impegno contro il sistema criminale, che probabilmente decretò la sua condanna a morte. Ecco il testo:

“ PER AMORE DEL MIO POPOLO NON TACERÒ ”

Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

La Camorra

La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

Precise responsabilità politiche

E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Impegno dei cristiani

Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti.
- Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16-18);
- Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);
- Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18-23);
- Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5)
Coscienti che “il nostro aiuto è nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore anticipatorio della Preghiera che è la fonte della nostra Speranza.

NON UNA CONCLUSIONE: MA UN INIZIO

Appello

Le nostre “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”
Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa;
Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.
Forania di Casal di Principe (Parrocchie: San Nicola di Bari, S.S. Salvatore, Spirito Santo - Casal di Principe; Santa Croce e M.S.S. Annunziata - San Cipriano d’Aversa; Santa Croce – Casapesenna; M. S.S. Assunta - Villa Literno; M.S.S. Assunta - Villa di Briano; SANTUARIO DI M.SS. DI BRIANO ).


domenica 25 dicembre 2011

NATALE PAGANO
Il Natale non fa tutti più buoni: fa tutti più vuoti. Il cristiano che fa shopping di regali e strenne natalizie rappresenta un caso di sdoppiamento della personalità: in tutta buona fede crede che Gesù nacque figlio di Dio a Betlemme, segnando in una stalla lo spartiacque decisivo della storia umana; contemporaneamente, è perfettamente cosciente che tale evento non condiziona la sua vita reale, in quanto l’epoca moderna, disincantata e secolarizzata, è scristianizzata. Siccome l’economia tende a inglobare ogni forma di espressione umana, quegli appuntamenti che nonostante tutto mantengono in vita una sia pur debole fiammella di fede ultraterrena si trasformano in orge di bancomat e scontrini. Babbo Natale e l’albero dei doni, americanizzazioni di antichi miti pagani europei, vincono sul Bambinello e sulla Vergine, perché più adatti a innescare la corsa agli acquisti commerciali.

Questo lo sa benissimo anche il devoto che va alla messa notturna del 25 dicembre, e lo accetta di buon grado. Per quieto vivere, perché così fanno gli altri, per abitudine. Ma soprattutto perché, dopo due secoli di sistematica estirpazione del sacro dall’esistenza quotidiana, non riesce a percepire il divino. E lo sostituisce malamente con una fedeltà a riti di massa che non sono morti solo perché una parvenza di tradizione spirituale serve ad appagare il bisogno innato di trascendenza e di comunità. E’ la sensazione di una notte, sia chiaro. Per il resto c’è la carta di credito.

Eppure quel bisogno preme, non si dà pace, è insoddisfatto. Non è umanamente sostenibile una religiosità circoscritta a qualche giornata di contrizione ipocrita, o, bene che vada, alla particola domenicale. E’ nelle difficoltà di ogni giorno che al comune ateo travestito da credente manca la forza rassicurante e rigenerante del divino, del numinoso. L’aura sacra che un tempo avvolgeva ogni momento del nostro passaggio sulla terra si è eclissata, scacciata con ignominia dalla spasmodica ricerca di ritrovare in tutto una causa dimostrabile.

La morte di Dio ci ha lasciati soli con una tecnica scientifica che ha razionalizzato la natura mortificandola, e con una logica economica che va per conto suo, incontrollata e disanimata, rubandoci la libertà di cambiare il corso della storia. Siamo soli col denaro, vero nostro Signore. Dice bene Sergio Sermonti, scienziato anti-scientista – un apparente ossimoro che gli è costato l’ostracismo pubblico: «Come insegnava Goethe, non dovremmo chiederci il perché ma il come delle cose. Nel chiedere il perché c’è un tacito presupposto che dietro ogni cosa ci sia un’intenzione, un proposito (appunto, un “perché”) e quindi che ogni cosa sia scomposta o scomponibile in fini e strumenti, o mezzi di produzione, come un’azienda umana. Sotto tutto questo c’è una sottile mentalità ottimistica, economicistica, produttivistica. No. Il mondo opera su un’altra dimensione, galleggia nell’eterno, è sospeso nell’infinito, ed è per l’appunto questo spostarci nelle sue dimensioni incantate il più raffinato e prezioso risultato della conoscenza, e non, al contrario, quello di rovesciare il mondo ai nostri piedi» (“L’anima scientifica”, La Finestra, Trento, 2003).

Per recuperare il senso del divino, il cristianesimo ormai serve a poco. E’ troppo compromesso con la modernizzazione, essendosene spesso lasciato usare come puntello e bandiera. Le Chiese sopravvivono nell’acquiescenza allo stile di vita radicalmente anticristiano dell’uomo consumato dai consumi. In particolare i Papi, incluso l’ultimo, il tradizionalista Ratzinger, si sono arresi a Mammona, e non c’è un prete a pagarlo oro che si scagli contro i moderni mercanti nel tempio: preferiscono i facili anatemi sulle unioni omosessuali e le comode prediche sulla fame in Africa. Il cristiano ha dimenticato il pauperismo di San Francesco d’Assisi, ha rinnegato l’umanesimo dei pontefici rinascimentali, ha sepolto l’antimodernismo del Sillabo, con Lutero e Calvino è stato all’origine stessa dell’etica capitalistica. Si è adattato al materialismo con il Concilio Vaticano II e allo showbusiness con Giovanni Paolo II: rinunciando alla lotta contro il mondo, non costituisce nessuna minaccia per il MacWorld. Anzi gli fa da angolo cottura spirituale.

Da chi o da cosa, allora, può venire un aiuto per liberare la divinità prigioniera che scalpita dentro di noi? L’ostacolo viene dal fatto che il cosiddetto progresso, scomponendo razionalmente la natura e violentandola nell’insaziabile tentativo di piegarla, l’ha resa muta e l’ha eliminata dalla nostra esperienza quotidiana. Da un lato non ci fa più alcuna paura, la paura ancestrale che è il moto d’animo originario di qualsiasi cultura. Dall’altro l’elemento naturale, incontaminato o non del tutto antropomorfizzato (com’erano ancora le vaste campagne nell’Ottocento e nel primo Novecento) si è via via ristretto e diradato. E’ letteralmente scomparso dalla nostra vista.

Oggi la stragrande maggioranza della popolazione mondiale vive concentrata come formiche in centri urbani sovraffollati, dove il verde è rinchiuso in minuscole riserve talmente artificiose che la regola è di non calpestare le aiuole. I bambini non fanno più conoscenza con la terra perché non ne hanno più sotto casa, non s’incuriosiscono scoprendo insetti e animali perché abitano circondati dal cemento e non si sporcano nemmeno più, perché passano il tempo ipnotizzati davanti a computer, televisione e videogiochi. Nei weekend o in vacanza le famigliole si recano diligentemente al mare o in montagna, ma a parte qualche bagno o escursione, inquadrati in ferie organizzate a puntino con tutti i comfort, il contatto con le forze naturali è minimo, povero, addomesticato. Sempre insufficiente a resuscitare una risonanza interiore fra l’io individuale e il cosmo, fra il sentimento della propria limitatezza personale e il sentimento di appartenere al tutto, all’organismo della vita. E’ in questa corrispondenza che si può provare la percezione che in un orizzonte, in un albero, in un filo d’erba, in un soffio di vento, in ogni singolo nostro respiro esista un’anima, cioè un dio. Ma se non si sperimenta in sé questa immediatezza, anche il discorso più ispirato resta lettera morta, una pia intenzione romantica.

La gioia im-mediata di sentirsi partecipe di un grande Essere ci è preclusa dal sovraccarico di costruzioni mediate, razionalistiche, cervellotiche e meccaniche con cui abbiamo imparato a guardare e toccare ciò che ci circonda. Questa è la malattia che ci portiamo addosso: l’eccesso di ragionamenti che desertifica il nostro bosco profondo. L’uomo scettico e che la sa lunga ha orrore della naturalità nuda e pura, e se non può manipolarla con la sua scienza maniacale e coi suoi aggeggi tecnologici, la respinge, dipingendola come un caos di animalità bruta e senza controllo. Ma basta uno tsunami, un terremoto o l’esplosione di furia omicida (anche questa è “natura”) per rendergli la pariglia e mostrargli che Madre Terra, vilipesa e umiliata, è sempre lì, pronta a risvegliarsi.

Scegliere consapevolmente di risvegliarla non è possibile, per ora, nemmeno nel privato del proprio foro interiore. Il salto è accessibile solo a una condizione, oggi impraticabile a livello di massa: il ritorno a un sistema di vita più semplice e scandito dai ritmi naturali. Eppure, se tu che mi leggi non cominci almeno a porti il problema, l’impossibile resterà impossibile per sempre. (a.m.)
da: www.alessiomannino.blogspot.com



venerdì 23 dicembre 2011

Neocolonialismo globale

Un pezzo dell'Africa vacilla sotto i colpi della carestia e della siccità, con oltre dodici milioni di persone a rischio e, intanto, nel continente nero prosegue la svendita di terre a stati e multinazionali straniere. Una vera e propria guerra della terra, che ha per protagonisti stati come l'Arabia Saudita, gli Emirati, la Corea del Sud, la stessa Italia e non ultima la Cina. Siccità e carestia che hanno messo in ginocchio il Corno d'Africa non dipendono solamente da questioni relative al clima, ma da povertà, mal gestione dei governi, guerre, incuria della terra. Siamo in aeree del mondo dove la sicurezza alimentare dei popoli non è garantita. Gli stati africani cedono le terre agricole a società straniere. Terre che saranno destinate alla produzione di vegetali da trasformare in biocarburanti, oppure alla coltivazione di prodotti da esportare sul mercato internazionale. L'Etiopia - cominciamo da qui il viaggio nella svendita della terra, investita da una carestia senza precedenti - sta attuando una piano avviato dal 2009 che prevede per i prossimi anni la cessione di trentacinquemila chilometri quadrati di terra, una superficie più estesa dell'intera Lombardia, ad aziende straniere che potranno utilizzarle per un periodo compreso tra i cinquanta e i novantanove anni. Lo stesso ministero dell'agricoltura ha spiegato che la domanda è forte e sono 1311 le richieste ricevute, la più importante riguarda 300 mila ettari, avanzata da una società indiana. Caso emblematico, inoltre, è il progetto Gibe III una mega diga sul fiume Omo. Una costruzione a cui seguiranno canali di irrigazione che muteranno il sistema agricolo tradizionale a beneficio degli investitori stranieri. L'Unesco ha chiesto la sospensione del progetto. La Banca africana per lo sviluppo ha tolto il finanziamento al governo etiope, come ha fatto la Banca europea degli investimenti. Al loro posto sono arrivati i soldi di Pechino. Proprio la Cina che sta diversificando i suoi interessi in Africa: non solo materie prime in cambio di infrastrutture, ma oggi anche terra coltivabile per soddisfare i bisogni alimentari di Pechino. Nei prossimi cinquanta anni la Cina investirà cinque miliardi di dollari nell'agricoltura in Africa, dove ha siglato più di una trentina di accordi che prevedono l'accesso a terreni fertili in cambio di strade, sistemi di irrigazione, formazione e tecnologia. Il dragone, che conta il 40 per cento dei contadini del mondo, ha solo il 9 per cento delle terre coltivabili. Alla Cina non stanno certo a cuore le sorti delle popolazioni africane, ma l'intenzione di Pechino è quella di delocalizzare la produzione di cibo, un piano è già pronto, ma non solo. La Cina ha un problema interno da risolvere: masse di popolazione rurale che sopravvivono a stento e che possono rappresentare un fattore destabilizzante per l'intero paese. Non è fantascienza pensare che masse di contadini dagli occhi a mandorla verranno trasferiti in Africa, a scapito della manodopera locale. E già sta accadendo in Zambia, Uganda, Tanzania e Zimbabwe. E il Sud Africa non è da meno. Il gigante sudafricano, i cui prodotti agricoli già invadono i mercati dell'Africa Australe, ha recentemente avuto in concessione dieci milioni di ettari dal Congo Brazzaville per novantanove anni. Come al solito il ministero dell'agricoltura congolese ha smentito, precisando che i tratta di «un contratto di concessione di trent'anni, che riguarda le vecchie aziende agricole di stato abbandono ». La sostanza, tuttavia, non cambia. Il Congo Brazzaville è un paese con un enorme potenziale agricolo (solo il 4 per cento delle terre agricole è coltivato) non sfruttato e su cui il governo investe poco o nulla. Nel 2010 in occasione dei festeggiamenti per i cinquanta anni di indipendenza del paese sono stati spesi 35 milioni di euro, mentre la cifra del budget nazionale 2010 per il settore agricolo è stata di un decimo, ossia 3,5 milioni di euro. Perché proprio l'Africa? Fino ad ora sono state censite oltre 390 acquisizioni di larga scala di terra agricola in ottanta paesi. Solo il 37 per cento degli interventi è mirato alla produzione di cibo, mentre il 35 per cento è destinato alla produzione di agro-carburanti. Per la Banca mondiale, è nell'Africa sub-sahariana dove si concentra la maggior parte (45 per cento) della terra adatta alla coltivazione non ancora sfruttata. Da qui la caccia alla terra del continente nero. Da aggiungere, inoltre, che sulla terra, nel 2050, vivranno nove miliardi di persone. Per sfamarle tutte, secondo la Fao, sarà necessario produrre almeno il 70 per cento di cibo in più. Crescerà esponenzialmente la classe media e, dunque, ci saranno milioni di cinesi e indiani che avranno maggiori disponibilità economiche e consumeranno di più. Ciò vuol dire aumentare gli allevamenti con conseguente necessità di cereali per l'alimentazione degli animali. E dove si va? In Africa. Dove, è vero la terra non è in vendita, ma può essere "concessa" per novantanove anni. E le tariffe per la concessione variano da un dollaro all'anno per ettaro dell'Etiopia ai 13,80 dollari del Camerun. In Senegal o in Mali, nemmeno un dollaro. Insomma tutto risulta essere estremamente conveniente. Se la Cina corre, non sono da meno gli stati del Golfo Persico e l'Arabia Saudita, dove la popolazione raggiungerà i sessanta milioni di abitanti nel 2030 e le fonti d'acqua sono destinate a finire nel giro di trenta anni. Qui la produzione agricola non è più sostenibile e allora si va in Africa dove tutto è molto più conveniente. L'Arabia Saudita ha festeggiato del 2009 il suo primo raccolto di cereali e riso proprio in Etiopia. Tra i più voraci risulta essere la Corea del Sud, quarto produttore al mondo di mais, ha siglato accordi su circa 2,3 milioni di ettari. E la produzione di cibo, fa lo stesso percorso delle materie prime, emigra all'estero e serve a sfamare quella parte di mondo più fortunata, lasciando al proprio destino gli africani. Lo shopping senza regole e con contratti oscuri, rischia di non incidere sullo sviluppo dei paesi africani, non solo per quanto riguarda la sicurezza alimentare ma anche dal punto di vista dell'occupazione. Nel 2010 la Fao ha invitato i governi africani a evitare cessioni massicce di terra. Il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, ha parlato di neocolonialismo e di terza fase della globalizzazione. Gli africani di furto. E intanto lo shopping continua.di Angelo Ferrari
tratto da "Europa"

lunedì 12 dicembre 2011

L’ENERGIA CHE NON ASCOLTA. LE COMUNITÀ INDIGENE
DEL GUATEMALA IN LOTTA CONTRO L’ENEL
doc-2398. ROMA-ADISTA. «Contribuiamo con il nostro impegno ad uno sviluppo sostenibile»: così assicura, sul suo sito, l’Enel Green Power, la società del Gruppo Enel impegnata nello sviluppo e nella gestione delle attività di generazione di energia da fonti rinnovabili, presente in America Latina con 32 impianti (in Messico, Costa Rica, Guatemala, Nicaragua, Panama, El Salvador, Cile e Brasile). «La produzione diffusa di elettricità da acqua, sole, vento e calore della terra contribuisce - sottolinea l’azienda, «leader di settore a livello mondiale» - a una maggiore autonomia energetica delle nazioni e, allo stesso tempo, sostiene la salvaguardia dell’ambiente». Ma quanto sia sostenibile lo sviluppo promosso dall’Enel Green Power lo chiarisce ottimamente la vicenda della costruzione della centrale idroelettrica di Palo Viejo, nel municipio guatemalteco di San Juan Cotzal, avviata nel 2008 dall’impresa italiana in accordo con il governo del Guatemala e con le autorità municipali, ma senza informare e consultare le comunità indigene come previsto dalla legislazione nazionale e internazionale (v. Adista nn. 26 e 67/11). Nel più completo ribaltamento del suo slogan - “L’energia che ti ascolta” -, l’Enel, con il pieno supporto dell’ambasciata italiana, non solo ha respinto le richieste della comunità maya ixil, ma, denunciano gli indigeni, ha seguito la via delle intimidazioni e delle minacce, auspicando l’intervento delle autorità guatemalteche per ristabilire “lo Stato di diritto” in difesa dei propri investimenti. Dopo i momenti di drammatica tensione vissuti lo scorso 18 marzo, quando centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa avevano seminato il terrore nella comunità di San Felipe Chenlá, aveva preso il via a maggio, con la mediazione, tra gli altri, di mons. Álvaro Ramazzini, un nuovo tentativo di dialogo, che l’“Energia che ti ascolta” ha però mandato a monte, opponendo un netto rifiuto alle richieste degli indigenirelativamente al diritto di amministrare il 20% dell’energia elettrica prodotta, oltre che a un indennizzo di 8 milioni di quetzales annui nei primi vent’anni per i devastanti danni causati dall’opera. Sulla vertenza, espressione di «una nuova forma di colonizzazione e di saccheggio delle risorse naturale dei popoli indigeni» (vertenza di cui si sta occupando in Italia la “Campagna di solidarietà con le comunità Maya-Ixil del Guatemala”, coordinata da Pippo Tadolini, pippotadolini@tin.it), si è soffermato, durante la sua visita in Italia, Arnoldo Curruchich, assistente legale delle comunità ixil e socio fondatore del Consejo de las Juventudes Maya Garifuna y Xinca, in cui sono rappresentati tutti i 22 popoli indigeni del Guatemala. Adista lo ha intervistato all’indomani della sua partecipazione alla manifestazione nazionale in difesa del voto referendario e contro la svendita dei servizi pubblici locali, svoltasi a Roma il 26 novembre scorso. Di seguito l’intervista. (claudia fanti)
Ancora su "Sante patronee poveri cristi"
La Chiesa si autoesenta, sacrifici mai. Resta attaccata ai suoi privilegi, ma è prodiga di consigli sull’equità della manovra. È da agosto che l’opinione pubblica aspetta dalla Cei un segnale di disponibilità ad aiutare lo Stato a ripianare il suo debito colossale. In tempi passati i vescovi fondevano l’oro dei sacri calici per sostenere la difesa di un regno invaso. Ora che il nemico finanziario è molto più subdolo e spietato, non succede nulla. Dalla gerarchia non è giunto il più piccolo segnale di “rinuncia”. Solo la dichiarazione del Segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone, che ha affermato: “Il problema dell’Ici è un problema particolare, da studiare e approfondire”. Eppure quello che pensano gli italiani è chiarissimo. Sono contrari all’esenzione dell’Ici, sono contrari a spolpare le casse dello Stato ai danni della scuola pubblica, perché credono al principio costituzionale che chi fonda una scuola privata la paga con i propri soldi. Soprattutto gli italiani sono convinti a grande maggioranza che la Chiesa predica bene e razzola male. Vedere per credere l’indagine del professor Garelli sulla “Religione all’italiana”.

Quando si parla di soldi, la gerarchia ecclesiastica si rifugia subito nel vittimismo, accusa complotti da parte dei nemici della Chiesa, si attacca a errori di conteggio sbagliati per qualche dettaglio o di chi mette sullo stesso piano la Cei (organismo nazionale) e il Vaticano, realtà internazionale. Nessuno trascura l’aiuto sistematico che è venuto in questi anni alle fasce più povere da parrocchie, episcopato e organizzazioni come la Caritas o Sant’Egidio. Ma ora è il momento di gesti straordinari e di uno sfoltimento di privilegi come avviene in tutto il Paese. Ci sono fatti molto precisi su cui la gerarchia non ha mai dato risposta e che costituiscono privilegi inaccettabili specialmente nella drammatica situazione economica attraversata dal Paese. Ne elenchiamo alcuni, che indignano egualmente credenti e diversamente credenti.

Non limitare l’esenzione Ici agli edifici strettamente di culto è un’evasione fiscale legalizzata. L’attuale sistema di conteggio dell’ 8 per mille è truffaldino perché non tiene conto del fatto che quasi due terzi dei contribuenti – non mettendo la crocetta sulla dichiarazione delle tasse – intendono lasciare i soldi allo Stato. In Spagna, dove è stato a suo tempo copiato il sistema italiano, si conteggiano giustamente soltanto i “voti espressi”. In Germania il finanziamento alle chiese luterana e cattolica avviene con una “tassa ecclesiastica” che grava direttamente sul cittadino. Se il contribuente non vuole, si cancella.

L’attuale sistema dell’ 8 per mille è uscito fuori controllo. Doveva garantire una somma più o meno equivalente alla vecchia “congrua” data dallo Stato ai sacerdoti, ma essendo agganciata all’Irpef la somma che il bilancio statale passa alla Cei è cresciuta a dismisura. Nel 1989 la Chiesa prendeva 406 miliardi di lire all’anno, oggi il miliardo di euro che incassa equivale a quasi 2.000 miliardi di lire. Cinque volte di più! L’ 8 per mille è stato pensato (ed è approvato come principio dalla maggioranza degli italiani) per finanziare il clero in cura d’anime e l’edilizia di culto in primo luogo. Ciò nonostante la Chiesa si fa pagare ancora una volta a parte i cappellani nelle forze armate, nella polizia, negli ospedali, nelle carceri, persino nei cimiteri. Si tratta di decine di milioni di euro. Nessuno ignora quanti splendidi preti siano impegnati specialmente nelle prigioni, ma è il sistema del pagamento aggiuntivo che non è accettabile. Lo stesso vale per le decine di milioni aggiuntivi versati dallo Stato, dalle regioni e dai comuni per l’edilizia di culto, che è già coperta dall’ 8 per mille.

Per non parlare dei milioni di euro elargiti ogni anno attraverso la famigerata “Legge mancia”. Invitando a uno stile di vita più sobrio per la festa di Sant’Ambrogio in Milano, il cardinale Scola afferma che con gli anni si è stravolto il concetto di “diritti”. In un clima di benessere e “senza fare i conti con le risorse veramente disponibili si sono avanzate pretese eccessive in termini di diritti nei confronti dello Stato”. Verissimo. C’è da aggiungere che anche la Chiesa ha partecipato alla gara. Non è bastato che gli insegnanti di Religione venissero stipendiati dallo Stato, si è preteso che da personale extra-ruolo venissero anche statalizzati.

Contemporaneamente si è iniziato a mungere le casse statali per finanziare le scuole cattoliche. Altrove in Europa lo fanno, ma non c’è l’ 8 per mille. È l’ingordigia nel ricorso ai fondi statali che spaventa.
Quanto al Vaticano, i Trattati lateranensi garantiscono ad esempio un adeguato fornimento d’acqua al territorio papale. Non è prepotenza il rifiuto di contribuire allo smaltimento delle acque sporche? Costa all’Italia 4 milioni di euro l’anno. Cifra su cifra ci sono centinaia di milioni che possono essere risparmiati.
Il premier Monti può fare tre cose subito. Decretare che, come accade in Germania e altri Paesi, i finanziamenti statali vanno solo a enti che pubblicano il bilancio integrale di patrimoni e redditi: così gli italiani e lo Stato conosceranno il patrimonio delle diocesi. Limitare l’esenzione dell’Ici esclusivamente agli edifici di culto. Attivare la commissione paritetica prevista dall’art. 49 della legge istitutiva dell’ 8 per mille per rivedere la somma del gettito. Sarebbe molto europeo.

Da Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2011

7 dicembre alle ore 20.52 ·
  • Gian Paolo Marcialis Una chiesa credibile:''Un natale per i poveri'': e' il messaggio che i frati del Sacro convento di Assisi lanceranno domani dalla piazza inferiore della Basilica di San Francesco in occasione della cerimonia di accensione dell'albero di Natale e dell'inaugurazione del presepe. Tantissimi sono i pacchi dono giunti al complesso monumentale assisano che verranno consegnati alle famiglie piu' bisognose: 300 offerti da Coop centro Italia, 80 da Regione Molise, Confcommercio e benefattori molisani e altri ancora da pellegrini e cittadini che si stanno recando in Basilica.(ANSA).
    8 dicembre alle ore 8.26 ·
  • Gian Paolo Marcialis L'articolo "Sante patrone e poveri cristi" ha suscitato aspre polemiche e persino il parroco, don Corrado Melis, si è lasciato trascinare dall'impeto e durante l'omelia della messa dell'Immacolata ha lanciato strali “su chi semina zizzania”... Omelia che è stata da molti criticata come inopportuna e fuori luogo. Il problema dei senza tetto è in realtà sempre più evidente e grave, anche a Villacidro,sia a causa della crisi economica e sociale che ci sta colpendo, ma anche per dolorose situazioni personali e familiari sofferte. Fermo restando che alcune di queste persone non vogliono ricevere assistenza, meglio conosciuti come homeless, ci sono i “nuovi barboni” che sono diventati tali non per loro stretto volere. Il freddo ormai alle porte ci obbliga a cercare nuove strade per evitare nuove morti causate dalla debilitazione, dall’alcol, dalla solitudine. Anno dopo anno la raccolta di indumenti e coperte (che purtroppo spesso si ritrovano sulle bancarelle dei mercati) non riesce a tamponare il fenomeno. L’assistenza sanitaria è difficile, al pari degli extracomunitari senza permesso di soggiorno, è relegata alle organizzazioni umanitarie e caritatevoli. Sarebbe pensabile, e poco oneroso, costruire una stanza vuota, delimitata dal resto della chiesa, che abbia un accesso libero nelle chiese o nel seminario (che è vuoto per i poveracci ma ha trovato porte spalancate per ospitare -dietro lauito compenso- i ripetitori della Telecom)? Un piccolo rifugio in cui possano dormire alcune di queste persone sfortunate per vari motivi. Probabilmente non mancherebbero nemmeno del cibo e conforto da parte dei residenti della zona. Questa è una piccola idea che potrebbe essere attuata subito in modo da risolvere il problema delle morti per freddo in attesa che la chiesa paghi le tasse e sia povera come ha detto Don Gallo nel suo libro “Di sana e robusta Costituzione”.
    venerdì alle 11.06 ·
  • Sante patrone e poveri cristi



    Gianni Atzei è un villacidrese che dorme, a dicembre 2011, nel parco pubblico, su una fredda panchina, senza altri panni se non quelli che indossa durante il giorno.
    La sua è una storia difficile ma non è l’unico villacidrese a dormire sotto la volta delle stelle. Esiste nel borgo dei cedri un gruppo di persone senza tetto che sbarcano il lunario assistiti dalla Caritas e dormono dove capita: al parco, al Tiro a Segno, in un vano sotterraneo nella Piazza Seddanus.
    Di fronte a queste situazioni incredibili assistiamo a una “politica” della chiesa locale assolutamente criticabile. La chiesa, la curia, la parrocchia, il vescovado, possiedono diversi edifici dismessi (per esempio l’ex-seminario, l’edificio dell’ente Mauri). Ma che a nesuno venga in mente di mettere a disposizione una stanzuccia in questi edifici! Intanto si festeggia la patrona Santa Barbara: luci a profusione sulle pareti delle tre chiese del centro storico, messa solenne con corollario di autorità “civili e militari” (secondo la consueta retorica che il parroco non manca di sottolineare) e poi via con “su cumbidu” e, dulcis in fundo, i fuochi artificiali!
    Assistiamo con fastidio all’azione di una chiesa di potere, tutta tesa a dare “panem et circenses” al popolino e a ignorare il messaggio evangelico dell’ “ebbi fame…ebbi sete…ero ignudo…” ecc. ecc.
    Gian Paolo Marcialis
    Villacidro.info – 5 dicembre 2011

    martedì 29 novembre 2011

    Al di sopra della legge, il bene della persona.
    Una professione di fedeltà a Dio e al mondo
    DOC-2393. MONTEFANO-ADISTA. Cos’è l’essere umano, rispetto ai suoi simili? Un nemico, un lupo, come riteneva Plauto e dopo di lui Hobbes? Oppure un dio, come invece sosteneva Cecilio Stazio e, sulla sua scia, Ludwig Feuerbach? Ha ragione il biologo Richard Dawkins, l’autore de Il gene egoista, secondo cui non siamo altro che «robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni», oppure lo psicologo evoluzionista Michael Tomasello, per il quale invece siamo «altruisti nati»? Il teologo Vito Mancuso opta però per un’altra risposta ancora, per quanto suoni oggi, ammette, piuttosto illusoria, se non buonista: l’essere umano, per i suoi simili, è, semplicemente, «un fratello», un fratello con cui capita assai spesso anche di litigare, ma a cui si è comunque uniti da «qualcosa di più grande». Parte da qui la riflessione condotta da Mancuso attorno al suo libro Io e Dio (Garzanti, pp. 488, euro 18,60) e a quello di Alberto Maggi Versetti pericolosi (Fazi, pp. 190, euro 16, v. documento successivo), presentati congiuntamente lo scorso 16 ottobre nel convento dei serviti a Montefano, alla presenza di circa 400 persone. Due libri uniti, ha sottolineato Mancuso, dalla medesima concezione riguardo al senso dell’essere cristiani, individuando entrambi gli autori «l’assoluto della vita» non nella fede ma nella vita stessa, e dunque interpretando la prima in funzione della seconda. Così da tenere insieme, come scrive Mancuso nel suo libro, quello che oggi «non risulta quasi più possibile»: «un responsabile pensiero di Dio e un retto pensiero del mondo», che vuol dire «pensare insieme Dio e il mondo, Dio e Io, come un unico sommo mistero, quello della generazione della vita, dell’intelligenza, della libertà, del bene, dell’amore», che poi, per il teologo, è «l’unica autentica modalità di essere fedeli a entrambi, a Dio e al mondo».
    Se per Mancuso «fratello è colui con cui sento di condividere totalmente la cosa più preziosa che c’è in noi esseri umani, cioè il metodo con cui orientiamo la nostra libertà», è sicuramente questo sentimento a legare i due autori. Per entrambi, ha evidenziato infatti Mancuso, «il vero assoluto, in senso etico e ontologico, è il bene», quel bene che per Gesù, secondo quanto scrive Maggi, «non solo è al di sopra della Legge, ma della sua stessa vita, è la norma suprema che regge ogni comportamento morale». Per entrambi, l’umano è «il vertice del divino», al punto che «al di fuori di quello che è umano non è possibile fare un’esperienza di Dio». E, infine, per entrambi, ha sottolineato Mancuso, «la verità è qualcosa che si fa: non coincide con l’esattezza, non coincide con la dottrina, non coincide con le parole che si dicono; coincide con le azioni, ha molto più a che fare con le mani e con il cuore che con la lingua».
    Tra i due autori, tuttavia, ci sono, e non potrebbe essere altrimenti, anche delle differenze, a cominciare da quella relativa alla concezione della religione, che per Maggi, secondo Mancuso, «è sempre tendenzialmente negativa, mentre per me è sempre tendenzialmente positiva». Lungi dal contrapporre fede e religione, spiritualità e religione, Mancuso le ritiene inscindibilmente, per quanto asimmetricamente, connesse: a suo giudizio, cioè, il primato spetta alla spiritualità, ma questa non può darsi, pena la caduta nello spiritualismo, «senza una traduzione concreta anche a livello istituzionale». Per Maggi, invece, religione e fede, così come appaiono nei Vangeli, «appartengono a due diverse concezioni della divinità». Dovendo giustificare la propria esistenza, infatti, l’istituzione religiosa ha scavato un abisso tra l’uomo e Dio: «Più la divinità è lontana dall’uomo – ha affermato Maggi - e più c’è bisogno di un’istituzione religiosa, di un tempio, di una legge, di un culto, di sacerdoti che facciano da mediatori tra gli uomini e questa divinità lontana». Religione, dunque, «è quello che l’essere umano fa per Dio». Con Gesù, invece, «Dio non solo non è lontano dall’essere, non solo non è esterno, ma è, al contrario, nell’intimo più profondo di ogni persona». Così, ha precisato Maggi, «nella religione si vive per Dio, nella fede si vive di Dio; nella religione l’essere umano è sempre alla ricerca di Dio, rischiando anche di non trovarlo, nella fede non deve più cercare Dio, perché Dio è in noi, ma deve accoglierlo attraverso azioni che lo aprano alla vita». E, ha concluso Maggi, in questo in perfetta sintonia con Mancuso, «ogni volta che ci apriamo ad azioni che comunicano, che arricchiscono, che restituiscono la vita agli altri è come se il nostro cuore si dilatasse per permettere alla divinità che è in noi di espandersi ulteriormente».

    SANTITÀ? NO, GRAZIE
    di Alberto Maggi
    Fin dall'inizio della sua attività, Gesù ha avuto come accaniti avversari gli scribi e i farisei.
    Chi erano costoro, e come mai detestavano tanto Gesù, al punto da volerne la morte?
    Provenienti per lo più dalle file dei farisei, gli scribi erano laici che, dopo una severa selezione e un lunghissimo periodo di preparazione e di studio, ricevevano, attraverso l'imposizione delle mani, lo spirito di Mosè (Nm 11,16-17). Da quel momento erano considerati legittimi successori dei profeti, custodi del testo sacro e teologi ufficiali dell'istituzione religiosa giudaica.
    Gli scribi erano i soli che avevano la competenza e l'autorità giuridica per interpretare la Legge divina; il loro magistero era reputato espressione della volontà di Dio, e le loro parole le stesse del Signore. Le loro sentenze erano considerate infallibili: ubbidire a loro era come ubbidire a Dio.
    L'importanza degli scribi in Israele era tale che essi godevano di un prestigio maggiore di quello del sommo sacerdote e dello stesso re, perché si diceva che Dio «sulla persona dello scriba pone la sua gloria» (Sir 10,5), e nella Bibbia così veniva elogiato il ruolo dello scriba: «Svolge il suo compito fra i grandi, lo si vede tra i capi [...]. Egli non sarà mai dimenticato; non scomparirà il suo ricordo, il suo nome vivrà di generazione in generazione» (Sir 39,4.9).
    I farisei erano pii laici che attendevano la venuta del regno di Dio e, per accelerarne l'arrivo, s'impegnavano a osservare radicalmente e integralmente ogni singolo dettame della Legge, praticando, nella vita quotidiana, le severe regole per la purezza e la santità richieste ai sacerdoti nel limitato periodo nel quale prestavano servizio nel tempio di Gerusalemme.
    Per essere certi di osservare ogni singolo dettame, regola o prescrizione della Legge, i farisei erano riusciti a individuare in essa ben seicentotredici precetti, suddividendoli in duecentoquarantotto comandamenti e trecentosessantacinque proibizioni.

    LA SANTITÀ E LA COMPASSIONE
    Ritenendosi la vera e santa comunità d'Israele, i farisei evitavano di mescolarsi con le persone che non mostravano lo stesso zelo nell'osservare la Legge. Il loro stile di vita, non praticabile dalla maggioranza del popolo, li separava dal resto della gente, da qui il termine “farisei”, che significa appunto “separati/appartati”.
    Era soprattutto al gruppo dei farisei che appartenevano gli scribi, per cui spesso scriba e fariseo erano la stessa realtà, e Gesù nelle sue invettive più volte li accomuna: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti» (Mt 23,13).
    Come mai questi cultori ed esperti conoscitori della Legge, questi zelanti devoti che ne osservavano in maniera pignola e maniacale ogni minimo precetto o dettaglio, che pregavano dal mattino alla sera e che erano considerati sante persone tra il popolo, sono gli acerrimi nemici di Gesù, il Figlio di Dio?
    Il conflitto nasce dal fatto che Gesù ha parlato di Dio in un modo nuovo. Mentre il Dio degli scribi e dei farisei si rivela attraverso la sua Legge, eterna e immutabile, il Padre di Gesù si manifesta nell'amore, fedele e incondizionato.
    Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù è sacro l'uomo. Mentre la Legge esclude da Dio chi non la osserva, l'amore del Padre è offerto a tutti.
    Per scribi e farisei il peccato era una trasgressione della Legge e un'offesa a Dio, per Gesù il peccato è quel che offende l'uomo e lo ferisce.
    Scribi e farisei si sono messi a servizio di Dio e offrono la loro vita al Signore. Gesù, Figlio di Dio, ha messo la sua esistenza a servizio degli uomini (Lc 22,27) offrendo loro la sua vita.
    Il percorso degli scribi e dei farisei e quello di Gesù è pertanto opposto, perché diverso è il loro concetto di Dio, e quindi sono destinati a non incontrarsi mai e a scontrarsi sempre.
    Scribi e farisei per avvicinarsi sempre più al Signore si separano, di fatto, dal resto del popolo. Per loro, infatti, il Signore è nell'alto dei cieli (Dt 4,39), e per raggiungerlo occorre salire la mistica scala di Giacobbe «la cui cima raggiungeva il cielo».
    Gesù è il Dio che per amore è sceso verso gli uomini, e si è fatto lui stesso uomo.
    Scribi e farisei salgono, il Signore scende... e non s'incontrano mai. Anzi, a forza di salire verso il loro Dio nei cieli, scribi e farisei si allontanano sempre di più da quel Dio che si è fatto uomo.
    Il paradosso è che quelli che, per il loro stile di vita e le loro devozioni, si ritengono i più vicini a Dio, di fatto sono i più lontani. Più cercano di avvicinarsi a Dio, meno lo incontrano, e quindi meno lo conoscono.
    Con Gesù, Dio ha infatti assunto un volto umano e si manifesta nell'umano. Ciò significa che al di fuori di quel che è umano non è possibile fare alcuna esperienza di Dio.
    Scribi e farisei, a forza di spiritualizzarsi, si sono disumanizzati: il loro sguardo, costantemente teso a scrutare il cielo, li fa diventare refrattari e insensibili ai bisogni e alle sofferenze del popolo. Interamente assorbiti dalle loro devozioni, sono indifferenti alle necessità concrete delle persone.
    Il loro attaccamento alle cose celesti li fa essere distaccati da quelle terrene, tanto ardenti verso Dio quanto freddi verso i propri simili.
    Per Gesù più l'individuo è umano e più manifesta il divino che è in sé. Una spiritualità che disumanizzi la persona, soffocandone la vitalità, reprimendone i sentimenti, non procede in alcuna maniera dallo Spirito del Signore. Una spiritualità del genere non solo non permette di incontrare Dio, ma lo impedisce, perché Dio può essere conosciuto e incontrato in quel che è profondamente e intensamente umano.
    Per questo Gesù, nel suo insegnamento, prende radicalmente le distanze dalla spiritualità di scribi e farisei, e ritiene ormai il tempo maturo per proclamare la buona notizia del regno di Dio.
    E Gesù annuncia il suo messaggio ai discepoli, proponendo loro una nuova relazione con il Padre che, se accolta, provocherà un profondo radicale mutamento nel cammino dell'umanità.
    Il Dio che Gesù fa conoscere è esclusivamente buono, perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8), e l'amore non può essere comunicato attraverso una Legge o una dottrina, ma solo mediante gesti che trasmettono vita e l'arricchiscono. Ed è questo che le folle percepiscono da Gesù, e per questo sono attratte da lui: si sentono amate come mai prima era loro capitato.
    Con Gesù, il Dio che si è fatto uomo, cambia il rapporto degli uomini con il Signore. L'uomo, una volta accolto da questo amore gratuito e incondizionato, non vive più per Dio, ma di Dio, e come Gesù è spinto dallo Spirito ad alleviare le sofferenze dell'umanità. Prima di Gesù, il cammino dell'umanità era diretto verso Dio. Ma ora Dio in Gesù si è fatto uomo, c'è solo da accoglierlo e, con lui e come lui, andare verso ogni creatura.
    Gesù nella sua predicazione annuncia il regno di Dio, la società alternativa che lui è venuto a inaugurare: un mondo dove alla brama di accumulare si sostituisca la gioia del condividere, al posto della frenesia del salire si scopra la libertà di scendere, e alla smania di comandare si opponga la vera grandezza, quella del servire.
    Nel messaggio proclamato da Gesù, stupisce l'assenza dell'invito alla santità, caratteristica costante dell'insegnamento degli scribi. La spiritualità dell'Antico Testamento era infatti fondata sull'imperativo di Dio: «Siate santi perché io sono santo» (Lv 11,44). Mai Gesù fa suo questo invito e mai invita alcuno a essere santo.
    Nel codice di santità, contenuto nel Libro del Levitico (Lv 19-24), la relazione con Dio si realizzava mediante l'accettazione di verità assolute e per questo immutabili, di norme intoccabili, di osservanze e pratiche rituali ben determinate. Questa legge di santità generava una società discriminatoria, che escludeva quanti non potevano osservare i suoi innumerevoli precetti, dividendo, di fatto, il popolo tra uomini puri e impuri, tra giusti e peccatori.
    Gesù non pone come traguardo l'irraggiungibile santità di Dio, ma la sua compassione per gli uomini. Il Padre di Gesù non assorbe gli uomini, ma comunica a essi il suo Spirito, dilatando la loro capacità d'amore. È l'amore e non la Legge che può generare una società dove ognuno si senta accolto, giustificato, perdonato.
    Per questo il Cristo, piena manifestazione di un «Dio che è ricco di misericordia» (Ef 2,4), propone di essere misericordiosi come il Signore è misericordioso, obiettivo a tutti accessibile, perché essere compassionevoli come il Padre significa avere come lui un amore dal quale nessuno viene escluso, e questo rientra nelle possibilità di ogni persona.
    Mentre all'imperativo della santità di Dio seguiva tutta una serie di norme su ciò che era puro (e quindi permetteva la santità) e quel che era impuro (e ostacolava la santità), separando, di fatto, quanti osservavano queste regole da chi non poteva o non voleva osservarle, la pratica dell'amore e della misericordia non allontana da nessun uomo ma avvicina a tutti.
    Per Gesù l'assomiglianza alla misericordia del Padre non si realizza mediante attestati di ortodossia, né attraverso l'osservanza di norme religiose, ma attraverso l'attenzione alla persona, alla dignità, al bene e al benessere degli uomini, liberandoli da ogni sofferenza e angustia.
    Mentre la santità colloca al di sopra degli altri, la misericordia pone a fianco degli ultimi della società, delle persone emarginate ed escluse.
    La spiritualità proposta da Gesù non centra la persona in se stessa, nella propria perfezione, nella santificazione personale, ma nel dono concreto e generoso di sé agli altri. Non la propria virtù (parola assente nei vangeli), ma la necessità altrui è quel che distingue il credente in Gesù: «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; poiché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (Lc 6,35; Mt 5,44). Da qui l'invito a impegnarsi contro ogni forma di ingiustizia e sofferenza, per realizzare il disegno del Padre di rovesciare i potenti dai troni per innalzare gli umili, di ricolmare di beni gli affamati e di rimandare i ricchi a mani vuote.
    Per ascoltare Gesù affluiscono «da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone» (Lc 6,17). Tutti sono attratti dal suo messaggio e dalla straordinaria forza che da lui usciva, capace di guarire e di ridare vita (Lc 6,19).
    Cadono le barriere della razza e della religione e, nella tanto disprezzata Galilea, salgono dall'insigne Giudea, e persino dalla stessa Gerusalemme, la città santa, sede dell'istituzione religiosa. Non solo, a Gesù accorrono anche dal mondo pagano. Inizia così a delinearsi un regno i cui confini non sono limitati a Israele, ma estesi a tutta l'umanità: anche i pagani, considerati alla stregua dei rettili, sono i beneficiari dell'azione sanatrice di Gesù. (…).


    sabato 26 novembre 2011

    L’Italia di Berlusconi che crolla e che frana
    “Se esistesse un grande politico in Italia - ha scritto Curzio Maltese su “il Venerdì di Repubblica” - dovrebbe fare un discorso sulla bellezza. Perché è da qui che bisogna ripartire per uscire dalla crisi. Dalla capacità storica italiana di produrre bellezza. Quando si scorre l’album del boom economico anni Sessanta, quello che rimane è un’infinita serie di oggetti magnifici: la Vespa, la Giulietta, la Lancia, la 500, le lampade Fontana e Castiglioni, le plastiche Moplen, i frigoriferi Ignis, la poltrona Sacco, le cucine e si potrebbe continuare per pagine e pagine. Ancora oggi le quattrocento medie industrie esportatrici sulle quali si fonda ancora la ricchezza della nazione, devono gran parte del successo al senso del bello, che producano vestiti o macchinari, occhiali o simulatori di volo. A un giovane ambizioso, oggi bisognerebbe consigliare di seguire un corso di calligrafia, invece del master di finanza alla Bocconi per imparare a far soldi. Tanto, se andiamo avanti così, presto non ci sarà più niente su cui speculare”.

    Già, la bellezza: Stendhal diceva che è “una promessa di felicità”. Io, più modestamente, sostengo che sia la maggiore risorsa – e, naturalmente, la meno valorizzata – del nostro Paese. Se ho usato il verbo “valorizzare” e non l’odioso “sfruttare” è perché in Italia il patrimonio artistico e paesaggistico viene già sfruttato, maltrattato e offeso oltre i limiti del tollerabile; o, nel migliore dei casi, abbandonato a se stesso, lasciato a deteriorarsi nell’incuria generale, come se non valesse niente, come se non fosse una delle nostre principali attrazioni turistiche, come se potessimo continuare a cullarci nella presuntuosa idea che tutto ci sia dovuto e non dobbiamo fare nulla per preservare la nostra meraviglia.

    Quanto è avvenuto in questa settimana in Lunigiana e nel Levante ligure, la devastazione di alcuni paesi-gioiello dell’Alta Toscana e delle Cinque Terre, è soltanto l’ultima lezione che una natura sempre più bistrattata impartisce all’uomo, quasi un avvertimento (anche se mi tengo ben alla larga da chi parla di “punizioni divine” e altre scempiaggini) all’uomo affinché la smetta di deturpare ogni centimetro di costa, di lungomare, di collina, di valle e di montagna con orribili colate di cemento, capannoni industriali, stabilimenti balneari e tutte le altre diavolerie artificiali con le quali stiamo trasformando la vita reale in un’esperienza sempre più artificiale.

    Qualcuno, leggendo queste riflessioni, potrebbe pensare che io sia contrario alla modernità. Niente di più sbagliato: io sono uno dei massimi sostenitori del mondo globale, delle nuove tecnologie, dei social network, della società telematica, multimediale e multietnica, della riduzione delle distanze che oggi ci permette di comunicare in diretta con persone che si trovano dall’altra parte del Pianeta.
    A conferma di ciò, riprendo l’inizio del già citato articolo di Curzio Maltese, intitolato “La lezione di Steve Jobs sulla bellezza, un esempio per i politici”: “Quando Steve Jobs raccontava d’aver lasciato l’università per seguire un corso di calligrafia, non svelava soltanto un aspetto del proprio carattere e di una biografia straordinaria. La madre studentessa, com’è noto, aveva abbandonato il piccolo Steve dopo la nascita per finire gli studi. Jobs ricorda a tutti quanto è importante la bellezza nelle scelte della vita e quanto sia al centro del mercato. Senza quella scelta bizzarra e in apparenza futile, Apple non avrebbe avuto caratteri tanto belli”.
    Qualche settimana fa, alla morte di Steve Jobs, abbiamo assistito ad una sorta di commemorazione collettiva, globale, uno dei momenti più significativi di questo pessimo periodo segnato dalla crisi. All’improvviso, ci siamo accorti di quanto sia importante abbinare bellezza e profitto, benessere e sostenibilità ambientale, sviluppo umano e crescita economica, di quanto avesse ragione Adriano Olivetti nel sostenere l’importanza di una “città dell’uomo”, realizzata secondo canoni rispettosi delle esigenze umane ma anche dell’ambiente e di un’idea di architettura basata sull’eleganza, e di quanto sia iniquo il caposaldo di un certo capitalismo d’assalto secondo cui l’unica cosa che conta è l’arricchimento personale a scapito della collettività.

    Questo modello, introdotto trent’anni fa da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, che ha alla base il princìpio del “meno Stato”, dello Stato cattivo a prescindere, della “deregulation” e della privatizzazione come rimedio a tutti i mali della gestione pubblica dei servizi, è una delle cause principali, se non la principale, dell’attuale sfacelo economico.
    Per troppo tempo, si sono contrapposte due visioni sociali entrambe sbagliate: da una parte, lo statalismo sovietico che ostacolava ogni forma di iniziativa privata; dall’altra, il capitalismo sfrenato di una parte dell’Occidente che ha prodotto danni incalcolabili all’ambiente ma, quel che è peggio, ha creato una società nella quale non è più al centro l’uomo, nella quale l’uomo è stato ridotto a macchina da produzione e da consumo, nella quale valori fondamentali come la solidarietà, il rispetto, la buona educazione, la speranza in un futuro migliore sono stati sviliti e oggi non contano più niente.

    Questa, ad esempio, è la triste Italia di Berlusconi: un paese che crolla e che frana, che sprofonda nel fango morale gettato sugli avversari per screditarli e in quello materiale che ha devastato due regioni e una costa, avvelenata dai sostenitori del profitto a tutti i costi e dalla bruttezza di scempi paesaggistici che non abbiamo avuto il coraggio di contrastare come avremmo dovuto.
    Per ricostruire l’Italia, riprendendo un bel messaggio di Pierluigi Bersani, occorre mediare tra i due errori del passato: no allo statalismo a tutti i costi e no al capitalismo distruttivo; sì, invece, ad un capitalismo sostenibile che abbia al centro il concetto che chi ha di più deve dare di più, in cui il bene di ciascuno non può prevalere su quello della comunità ma deve esserne una parte importante, in cui l’egoismo e l’indifferenza siano considerati disvalori da eliminare e non punti di riferimento e la bellezza, la poesia, la cultura, l’allegria, la spensieratezza, la gioia di vivere e, per dirla con Italo Calvino, la leggerezza, intesa come l’espressione semplice di concetti ampi e profondi, tornino ad avere nella nostra società il posto che meritano.

    Ricostruire l’Italia e liberarla dall’inquinamento del berlusconismo e di una destra affaristica e incapace di assicurare al Paese il rinnovamento e il cambiamento di cui ha bisogno, significa anzitutto ripartire dalla tutela dell’ambiente.
    Per questo, accogliamo con entusiasmo la nascita del Forum Nazionale “Salviamo il paesaggio – Difendiamo i territori” (www.salviamoilpaesaggio.it), promosso tra gli altri da Carlin Petrini, che tra gli obiettivi si propone quello di effettuare un censimento degli immobili sfitti o non utilizzati da parte dei comuni, tenendo presente che negli ultimi dieci anni, in Italia, sono state costruite quattro milioni di case mentre pare che ce ne siano cinque milioni e duecentomila vuote. Senza contare i capannoni proliferati ovunque che stanno lì, enormi, in rovina, a testimoniare il tracollo di uno sviluppo industriale insostenibile e il fallimento di numerose imprese, con le inevitabili ricadute sociali e occupazionali.

    Poiché l’agonia di questo governo è ormai irreversibile e le urne si avvicinano di giorno in giorno, lanciamo al centrosinistra la più ambiziosa delle sfide: fare proprio l’appello di Petrini quando afferma che “non c’è bisogno di nuove case, non c’è bisogno di nuovi capannoni: è ora di capire che chi li fa li fa soltanto per il proprio tornaconto privato, e intanto distrugge un bene comune. Rispettiamo la proprietà privata, ma il bene comune deve avere la precedenza. Il paesaggio, forse a prima vista meno tangibile dell’acqua, è un bene comune perché tutelandolo si preservano l’ambiente, la sicurezza delle persone, le attività agricole, i suoli, la bellezza. Il privato, fatti salvi i suoi diritti, non può privare il resto della comunità di qualcosa d’insostituibile e di non rinnovabile. Il privato non può privare”.
    Siamo certi che chiunque sarà il leader del centrosinistra, comunque sia composta la coalizione, saprà raccogliere questa sfida che riguarda il futuro delle nuove generazioni.
    Roberto Bertoni

    lunedì 14 novembre 2011

    A Decimomannu, in Sardegna, piloti israeliani mettono a repentaglio la loro vita e quella dei residenti. Così come ogni aereo che solca i cieli sardi per le esercitazioni di tiro

    Decimomannu, Sardegna, 19 novembre 2010. Nel corso dell'operazione di addestramento chiamata 'Vega', un pilota israeliano compie unamanovra altamente pericolosa. Dopo il decollo dalla base sarda, secondo quanto riporta il blog di Davide Cenciotti, che ha ripreso la notizia dal sito JewPI.com, un F16 del 106° squadrone della IAF (Israeli Air Force) esegue una rotazione di 360 gradi (un 'tonneau', nel gergo dell'aviazione acrobatica). L'evoluzione è stata compiuta "senza motivo né vantaggio": con queste parole un tribunale militare israeliano ha condannato il pilota a sette giorni di carcere e un anno di sospensione dal volo. "La rotazione del velivolo - scrive Cenciotti nel suo blog - lungo il suo asse longitudinale è una manovra acrobatica che deve essere compiuta all'interno di aree specifiche e ad altitudini di sicurezza". Il sito JewPI riporta che l'aereo ha anche oltrepassato il muro del suono, causando un 'bang sonico' non autorizzato e al di sotto delle altitudini consentite. Della manovra altamente pericolosa, del 'bang sonico', dell'arresto e della sospensione del pilota nessun organo di stampa italiano ha mai parlato.
    La pratica degli F16 israeliani del 'sonic boom' a basse altezze è diventata frequente nella Striscia di Gaza dopo la rimozione degli insediamenti ebraici nel 2005. Da allora, i piloti si esercitano sulla popolazione civile palestinese, producendo boati assordanti paragonabili a quelli di una bomba o di un terremoto. A volte, secondo quanto riporta il quotidiano britannico Guardian (http://www.guardian.co.uk/world/2005/nov/03/israel), lo spostamento d'aria è talmente forte da far sanguinare il naso. A Decimomannu si addestrano tali piloti. Non è escluso che alcuni di loro abbiano bombardato la Striscia durante 'Piombo Fuso', provocando la morte di oltre mille civili.
    La base di Decimomannu dista pochi chilometri dall'abitato. Una decina di giorni fa si è conclusa l'edizione 2011 dell'operazione Vega, che ha visto centinaia di apparecchi da guerra europei - decine gli israeliani - e mezzo migliaio di militari prendere parte a esercitazioni di electronic warfare. L'operazione Vega rientra nella cooperazione militare Italia-Israele, stabilita dalla Legge 17 maggio 2005, e nel "Programma di cooperazione individuale" con Israele, ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell'attacco israeliano a Gaza. Esso comprende una vasta gamma di settori in cui "Nato e Israele cooperano pienamente": aumento delle esercitazioni militari congiunte; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; allargamento della "cooperazione contro la proliferazione nucleare". "Ignorando che Israele - scrivono il Manifesto nell'edizione sarda il 22 novembre 2010 e il Manifesto nell'edizione nazionale il 4 novembre 2011 - unica potenza nucleare della regione, rifiuta di firmare il Trattato di non-proliferazione ed ha respinto la proposta Onu di una conferenza per la denuclearizzazione del Medio Oriente". La base è infatti fornita dei più sofisticati apparecchi e dei sistemi per l'addestramento al tiro. E' inoltre l'aeroporto con il più alto numero di decolli e atterraggi presente in Europa, con una media di circa 60mila movimenti annui, pari a circa 450 movimenti giornalieri.
    Il sito non ufficiale di Decimomannu (http://www.awtideci.com) riporta: "In pochi minuti di volo sono raggiungibili diverse aree adibite a poligoni aria-aria, aria-terra e bassa navigazione". Tra queste, la tristemente nota Quirra e Capo Frasca, ultima propaggine dell'area naturalistica del Sinis. Le aree coprono buona parte della Sardegna meridionale.Non è noto sapere quali armamenti siano stati usati per la dotazione degli F-15 ed F-16 israeliani impegnati nelle esercitazioni (così come di nessuno degli aerei di tutte le forze Nato che periodicamente si esercitano sui cieli sardi). Mentre l'Aeronautica diffonde la versione di una guerra esclusivamente ‘elettronica', sempre il sito non ufficiale riferisce che, nella zona di Capo Frasca, "operazioni principali sono il bombardamento al suolo e l'uso di cannoni o mitragliatrici di bordo. Il poligono offre una serie di bersagli adatti allo scopo. Apposite torri di controllo gestiscono il traffico aereo impegnato nelle sessioni di addestramento". In particolare, per Capo Frasca, designato con la sigla R59 nella mappa radar, "le operazioni sono bombardamento al suolo e uso di mitragliatrici di bordo. Il poligono offre una serie di bersagli utili allo scopo". In definitiva, gli aerei, Nato e non, decollano da Decimomannu, sorvolano aree civili, spesso con manovre 'altamente pericolose e scaricano il loro potenziale distruttivo in aree paesaggisticamente intatte, contaminando l'ecosistema, la biodiversità e - come si è visto per Quirra, e da poco anche per Capo Frasca - anche gli esseri umani. In quest'ultimo poligono sono stati testati i missili teleguidati AIM dell'Eurofighter prima dell'entrata in servizio. Come per il poligono di Quirra, anche qui cominciano a emergerestorie di malattie oncologiche, ematiche o linfatiche, come ben esemplifica la vicenda del maresciallo Madeddu,riportata dal quotidiano 'Unione Sarda' il 30 maggio 2011.
    Decimomannu ha un lungo bollettino di incidenti aerei. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale 64 aerei hanno subito danni, sono precipitati al suolo o in mare, in località che abbracciano tutta la Sardegna meridionale: Capo Frasca, stagno di Cabras, Capo Carbonara, Orroli, Capo Ferrato, Alghero, Arborea. Ventitré piloti sono morti, e numerosi aerei o pezzi di aereo sono andati perduti. L'aeroporto è stato e continuerà ad essere un pericolo per gli abitanti della Sardegna. A dispetto del motto che campeggia beffardo sul sito ufficiale della base: Decimomannu, dove gli aviatori del mondo libero si addestrano per mantenere la pace.