I martiri di Kasserine
di Marco Benedettelli, da il manifesto, 5 aprile 2011
Il giubbotto di Mohamed ha un buco all'altezza del fianco. È il foro del proiettile che si è portato via la vita del fratello, Walid Saadawi, morto nei giorni della rivoluzione sotto il fuoco dei cecchini di Ben Alì. Ora Mohamed non si separa più da quel giaccone. È un modo, come mille altri che costellano la sua quotidianità, per ricordarlo. Walid, insieme a tutti gli altri martiri di Kasserine, riposa nel cimitero al centro della città.
Kasserine è un conglomerato di case bianche, basse e polverose nel cuore della Tunisia, un incubatore, da sempre, di rabbia sociale, città abbandonata al suo destino di isolamento e arretratezza. Qui Ben Alì, nel 1994, nella sua ultima visita ufficiale fu accolto da un lancio di patate. Kasserine è stata uno dei motori della rivoluzione di gennaio. Gli scontri di piazza del 2011 le sono costati 65 morti. «Ma dopo la rivoluzione non è cambiato nulla. Poveri eravamo e poveri siamo rimasti», spiega amaro Mohamed nella stanza da letto di casa sua, che è anche il tinello dove ricevere gli ospiti. E dove arriva il vocio dei ragazzini che si rincorrono pochi metri più in là, nella Piazza dei Martiri, il centro del quartiere di Cité Ezzouhour, il più povero della città.
Oggi, nel mezzo della piazza, c'è un obelisco verniciato di bianco e rosso, i colori della Tunisia, con incisi i nomi dei ventuno martiri del quartiere. La vittima più piccola è stata una neonata di 6 mesi, uccisa fra le braccia della madre in un bagno pubblico. Il primo a cadere sotto il fuoco dei cecchini è stato un ragazzino di dodici anni. Tornava dal lavoro, si è unito al corteo dei manifestanti ed è stato colpito alla testa. Al posto della lapide, prima di gennaio c'era un orologio fissato su di una colonna con inciso un 7, il numero legato al 7 novembre del 1987, il giorno della salita al potere di Ben Alì. Le lancette di quell'orologio ora sono state spezzate e al loro posto le famiglie dei martiri hanno eretto quell'obelisco, pagato di tasca propria.
Sia i giovani, sia gli anziani genitori che nelle case mostrano le foto dei figli uccisi, continuano a sentire la rivoluzione come qualcosa che deve ancora compiersi, che ancora deve arrivare a maturazione. «Il governo di transizione qui non si è fatto vivo, continuiamo a sentirci isolati, abbandonati, come eravamo sotto Ben Alì», racconta Moshen, un agricoltore di Kasserine che ci guida lungo il quartiere, e la sua voce trova conferma in altre decine di impressioni raccolte. Le mura delle case intorno sono crivellate dai colpi dei proiettili, e la strada che porta alla piazza dei Martiri è fiancheggiato da edifici anneriti dal fumo degli incendi. Sono i commissariati delle Guardia Nazionale, e la sede del partito di Ben Alì, l'Rdc, presi d'assalto in quei giorni di gennaio, quando, dopo la morte di Mohamed Bouazizi - il ragazzo che si era dato fuoco nella vicina città di Sidi Bouaziz per protestare contro la sua povertà - le strade si sono riempite di giovani. Prima cinque, poi dieci, poi cinquanta, poi una moltitudine che come un fiume in piena si è gettata verso i palazzi del potere e ha sfidato i fucili e i proiettili della Guardia Nazionale impugnando solo bastoni e pietre.
Le ferite dappertutto sono ancora aperte, anche sulla pelle. Nizar Gribi, 34 anni, da due mesi è bloccato a letto per una ferita da proiettile all'addome. Ora è ridotto pelle ed ossa. Nella sua famiglia si contano altri tre feriti, fra cognati e suoceri. E ci sono i figli da sfamare. Solo l'affitto di casa gli costa 400 dirham al mese (circa 200 euro). La moglie, al suo fianco, gli solleva il pigiama con cura e ci mostra il ventre del marito lacerato dai proiettili. «Dopo la rivoluzione il governo di transizione ci ha dato un risarcimento di 3000 dirham. Poi tutti sono scomparsi. Eravamo senza lavoro con Ben Alì, siamo disoccupati anche ora. Speriamo che il sangue versato da mio marito e dai nostri ragazzi non sia caduto invano». Dice amareggiata.
Seheli Ghait è un ragazzo di trent'anni, fa l'idraulico, con altri coetanei di Kasserine ha fondato l'associazione Tent, una delle infinite realtà con cui la società civile tunisina cerca di darsi voce, dopo 23 anni di bavaglio e repressione imposto dalla dittatura di Ben Alì.
Oggi invece è il momento della partecipazione e della discussione, per le strade, sulle piazze, spontanea e attraverso l'associazionismo vivace più che mai in tutte le città del paese. I ragazzi di Tent si prefiggono di denunciare la condizione di abbandono sociale di Kasserine, e di dialogare coi cittadini sui criteri di formazione della nuova assemblea costituente che verrà votata, in Tunisa, il 24 luglio. «La scrittura della nuova Costituzione è una grande occasione. Ma noi, qui, purtroppo, ci sentiamo tagliati fuori dalla discussione», spiega Seheli. Kasserine è amministrata da un commissario, un colonnello dell'esercito che ha preso il posto dell'ex-sindaco, un fedele di Ben Alì. «Sono due mesi che cerco di parlare con il nuovo governatore ma non vengo ricevuto. Vorremmo confrontarci con lui sulle nostre nuove idee per la città. Non c'è nulla da fare però. Ci sentiamo ancora respinti», spiega ancora Seheli Ghait e aggiunge con amara ironia: «Se dopo la votazione dell'Assemblea costituente le cose continuano ad andar così, anche io penso seriamente di prendere la strada per Lampedusa».
L'immigrazione è un'altra ferita aperta. Non c'è famiglia, soprattutto nel quartiere più povero di Cité Ezzehour, dove oltre ai martiri della rivoluzione non si contino anche dei giovani ragazzi partiti di casa, a febbraio, per diventare harraga. Parola che in tutto il Maghreb si dà a chi migra e che significa, in arabo, «chi brucia», chi dà fuoco ai propri documenti, al proprio passato in cerca di un futuro migliore. È da metà marzo che nel quartiere non si hanno più notizie di quattro persone partite per l'Italia, proprio nei giorni in cui è affondata a largo di Sfax, il 14 marzo, la nave con a bordo quaranta tunisini diretti a Lampedusa. «Se avete notizie di loro, per favore portatecele» chiede implorante un ragazzo con la schiena attraversata da una cicatrice profonda, lasciata dai proiettili della Guardia Nazionale. I ragazzi scomparsi si chiamano Omri Nabil, Thiya Rabhi, Riath Janhawi, Akrem Nasri. Tutti amici del martire Walid Saadawi. Tutti, come era Walid, disoccupati, o in balia di qualche lavoro a giornata. Anche il fratello più piccolo di Walid Saadawi voleva partire per Lampedusa. «Ma gliel'ho impedito - spiega Mohamed, l'altro fratello maggiore rimasto a capo della famiglia Saadawi - mia madre ha già perso un figlio nella rivoluzione. Non voglio che un altro rischi di finire inghiottito nel mare». Altri ragazzi che gli siedono intorno, raccontano: «Per emigrare basta poco. Gli stessi militari, qui, per 30 dirham ti danno un passaggio a Sfax, dove c'è gente che organizza i barconi per l'Europa».
L'economia della zona si regge su agricoltura e pastorizia. Le poche aziende presenti lavorano per la fabbrica della Benetton che sorge appena fuori Kasserine. Dal 18 al 21 marzo gli operai di una industria chimica hanno occupato l'autostrada fra Gafsa e Touzer, protestando per il mancato sviluppo economico dell'intera regione. Disoccupato è anche Tunssi Nassrì, un giovane 22enne. Se gli domandi chi era Bel Alì, risponde «Era come Hitler, era come Mussolini». Tunssi non ha internet, non maneggia facebook, ma era da anni che sognava di veder andarsene via da Kasserine gli uomini della Rcd. Il giorno dei tumulti era sceso in strada insieme all'amico di infanzia Mohamed Khadrawi che è stato raggiunto da un proiettile ed è morto, mentre protestava al suo fianco. Ora i genitori di Mohamed tengono sempre la porta di casa aperta, mostrano la foto del figlio scomparso a chiunque vada a trovarli. Il ritratto mostra un ragazzino dal volto ancora imberbe e dal corpo acerbo, di chi ha appena superato l'adolescenza. «Sento ancora la sua voce risuonare per casa. Dov'è l'uomo che ha ucciso mio figlio? Qualcuno l'ha processato?», piange la madre. «Giocavamo insieme su questa via - ricorda Tunssì - che era piena di spie di Ben Alì. C'erano occhi che ti seguivano ovunque. Persone che andavano a far rapporto appena dicevi una parola di troppo. Quel giorno le abbiamo cacciate tutte. Molte hanno cambiato città, altre qui in giro non si fanno più vedere». Il regime di Ben Alì aveva un entourage di 140 mila affiliati, fra spie e informatori. Ma ora, a Kasserine come ovunque, si volta pagina. Con molta fatica.
(5 aprile 2011)
Il giubbotto di Mohamed ha un buco all'altezza del fianco. È il foro del proiettile che si è portato via la vita del fratello, Walid Saadawi, morto nei giorni della rivoluzione sotto il fuoco dei cecchini di Ben Alì. Ora Mohamed non si separa più da quel giaccone. È un modo, come mille altri che costellano la sua quotidianità, per ricordarlo. Walid, insieme a tutti gli altri martiri di Kasserine, riposa nel cimitero al centro della città.
Kasserine è un conglomerato di case bianche, basse e polverose nel cuore della Tunisia, un incubatore, da sempre, di rabbia sociale, città abbandonata al suo destino di isolamento e arretratezza. Qui Ben Alì, nel 1994, nella sua ultima visita ufficiale fu accolto da un lancio di patate. Kasserine è stata uno dei motori della rivoluzione di gennaio. Gli scontri di piazza del 2011 le sono costati 65 morti. «Ma dopo la rivoluzione non è cambiato nulla. Poveri eravamo e poveri siamo rimasti», spiega amaro Mohamed nella stanza da letto di casa sua, che è anche il tinello dove ricevere gli ospiti. E dove arriva il vocio dei ragazzini che si rincorrono pochi metri più in là, nella Piazza dei Martiri, il centro del quartiere di Cité Ezzouhour, il più povero della città.
Oggi, nel mezzo della piazza, c'è un obelisco verniciato di bianco e rosso, i colori della Tunisia, con incisi i nomi dei ventuno martiri del quartiere. La vittima più piccola è stata una neonata di 6 mesi, uccisa fra le braccia della madre in un bagno pubblico. Il primo a cadere sotto il fuoco dei cecchini è stato un ragazzino di dodici anni. Tornava dal lavoro, si è unito al corteo dei manifestanti ed è stato colpito alla testa. Al posto della lapide, prima di gennaio c'era un orologio fissato su di una colonna con inciso un 7, il numero legato al 7 novembre del 1987, il giorno della salita al potere di Ben Alì. Le lancette di quell'orologio ora sono state spezzate e al loro posto le famiglie dei martiri hanno eretto quell'obelisco, pagato di tasca propria.
Sia i giovani, sia gli anziani genitori che nelle case mostrano le foto dei figli uccisi, continuano a sentire la rivoluzione come qualcosa che deve ancora compiersi, che ancora deve arrivare a maturazione. «Il governo di transizione qui non si è fatto vivo, continuiamo a sentirci isolati, abbandonati, come eravamo sotto Ben Alì», racconta Moshen, un agricoltore di Kasserine che ci guida lungo il quartiere, e la sua voce trova conferma in altre decine di impressioni raccolte. Le mura delle case intorno sono crivellate dai colpi dei proiettili, e la strada che porta alla piazza dei Martiri è fiancheggiato da edifici anneriti dal fumo degli incendi. Sono i commissariati delle Guardia Nazionale, e la sede del partito di Ben Alì, l'Rdc, presi d'assalto in quei giorni di gennaio, quando, dopo la morte di Mohamed Bouazizi - il ragazzo che si era dato fuoco nella vicina città di Sidi Bouaziz per protestare contro la sua povertà - le strade si sono riempite di giovani. Prima cinque, poi dieci, poi cinquanta, poi una moltitudine che come un fiume in piena si è gettata verso i palazzi del potere e ha sfidato i fucili e i proiettili della Guardia Nazionale impugnando solo bastoni e pietre.
Le ferite dappertutto sono ancora aperte, anche sulla pelle. Nizar Gribi, 34 anni, da due mesi è bloccato a letto per una ferita da proiettile all'addome. Ora è ridotto pelle ed ossa. Nella sua famiglia si contano altri tre feriti, fra cognati e suoceri. E ci sono i figli da sfamare. Solo l'affitto di casa gli costa 400 dirham al mese (circa 200 euro). La moglie, al suo fianco, gli solleva il pigiama con cura e ci mostra il ventre del marito lacerato dai proiettili. «Dopo la rivoluzione il governo di transizione ci ha dato un risarcimento di 3000 dirham. Poi tutti sono scomparsi. Eravamo senza lavoro con Ben Alì, siamo disoccupati anche ora. Speriamo che il sangue versato da mio marito e dai nostri ragazzi non sia caduto invano». Dice amareggiata.
Seheli Ghait è un ragazzo di trent'anni, fa l'idraulico, con altri coetanei di Kasserine ha fondato l'associazione Tent, una delle infinite realtà con cui la società civile tunisina cerca di darsi voce, dopo 23 anni di bavaglio e repressione imposto dalla dittatura di Ben Alì.
Oggi invece è il momento della partecipazione e della discussione, per le strade, sulle piazze, spontanea e attraverso l'associazionismo vivace più che mai in tutte le città del paese. I ragazzi di Tent si prefiggono di denunciare la condizione di abbandono sociale di Kasserine, e di dialogare coi cittadini sui criteri di formazione della nuova assemblea costituente che verrà votata, in Tunisa, il 24 luglio. «La scrittura della nuova Costituzione è una grande occasione. Ma noi, qui, purtroppo, ci sentiamo tagliati fuori dalla discussione», spiega Seheli. Kasserine è amministrata da un commissario, un colonnello dell'esercito che ha preso il posto dell'ex-sindaco, un fedele di Ben Alì. «Sono due mesi che cerco di parlare con il nuovo governatore ma non vengo ricevuto. Vorremmo confrontarci con lui sulle nostre nuove idee per la città. Non c'è nulla da fare però. Ci sentiamo ancora respinti», spiega ancora Seheli Ghait e aggiunge con amara ironia: «Se dopo la votazione dell'Assemblea costituente le cose continuano ad andar così, anche io penso seriamente di prendere la strada per Lampedusa».
L'immigrazione è un'altra ferita aperta. Non c'è famiglia, soprattutto nel quartiere più povero di Cité Ezzehour, dove oltre ai martiri della rivoluzione non si contino anche dei giovani ragazzi partiti di casa, a febbraio, per diventare harraga. Parola che in tutto il Maghreb si dà a chi migra e che significa, in arabo, «chi brucia», chi dà fuoco ai propri documenti, al proprio passato in cerca di un futuro migliore. È da metà marzo che nel quartiere non si hanno più notizie di quattro persone partite per l'Italia, proprio nei giorni in cui è affondata a largo di Sfax, il 14 marzo, la nave con a bordo quaranta tunisini diretti a Lampedusa. «Se avete notizie di loro, per favore portatecele» chiede implorante un ragazzo con la schiena attraversata da una cicatrice profonda, lasciata dai proiettili della Guardia Nazionale. I ragazzi scomparsi si chiamano Omri Nabil, Thiya Rabhi, Riath Janhawi, Akrem Nasri. Tutti amici del martire Walid Saadawi. Tutti, come era Walid, disoccupati, o in balia di qualche lavoro a giornata. Anche il fratello più piccolo di Walid Saadawi voleva partire per Lampedusa. «Ma gliel'ho impedito - spiega Mohamed, l'altro fratello maggiore rimasto a capo della famiglia Saadawi - mia madre ha già perso un figlio nella rivoluzione. Non voglio che un altro rischi di finire inghiottito nel mare». Altri ragazzi che gli siedono intorno, raccontano: «Per emigrare basta poco. Gli stessi militari, qui, per 30 dirham ti danno un passaggio a Sfax, dove c'è gente che organizza i barconi per l'Europa».
L'economia della zona si regge su agricoltura e pastorizia. Le poche aziende presenti lavorano per la fabbrica della Benetton che sorge appena fuori Kasserine. Dal 18 al 21 marzo gli operai di una industria chimica hanno occupato l'autostrada fra Gafsa e Touzer, protestando per il mancato sviluppo economico dell'intera regione. Disoccupato è anche Tunssi Nassrì, un giovane 22enne. Se gli domandi chi era Bel Alì, risponde «Era come Hitler, era come Mussolini». Tunssi non ha internet, non maneggia facebook, ma era da anni che sognava di veder andarsene via da Kasserine gli uomini della Rcd. Il giorno dei tumulti era sceso in strada insieme all'amico di infanzia Mohamed Khadrawi che è stato raggiunto da un proiettile ed è morto, mentre protestava al suo fianco. Ora i genitori di Mohamed tengono sempre la porta di casa aperta, mostrano la foto del figlio scomparso a chiunque vada a trovarli. Il ritratto mostra un ragazzino dal volto ancora imberbe e dal corpo acerbo, di chi ha appena superato l'adolescenza. «Sento ancora la sua voce risuonare per casa. Dov'è l'uomo che ha ucciso mio figlio? Qualcuno l'ha processato?», piange la madre. «Giocavamo insieme su questa via - ricorda Tunssì - che era piena di spie di Ben Alì. C'erano occhi che ti seguivano ovunque. Persone che andavano a far rapporto appena dicevi una parola di troppo. Quel giorno le abbiamo cacciate tutte. Molte hanno cambiato città, altre qui in giro non si fanno più vedere». Il regime di Ben Alì aveva un entourage di 140 mila affiliati, fra spie e informatori. Ma ora, a Kasserine come ovunque, si volta pagina. Con molta fatica.
(5 aprile 2011)
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