Post più popolari

mercoledì 28 novembre 2012


Natascia e il suo viaggio in carcere
In una lettera pubblicata da Huffington Post Italia, il racconto di una ragazza arrestata il 14 novembre a Roma


Riportiamo di seguito parte della lettera che Natascia Grbic ha scritto sui fatti del 14 novembre. Le sue parole hanno trovato spazio in un articolo su Huffington Post Italia:

Sono una degli arrestati del 14 novembre. Sono tra quelli che quel giorno sono scesi in piazza insieme a tutta l'Europa per dire che non ci stanno al ricatto dei mercati e della finanza. Sono tra quelli cui è stato impedito nella maniera più brutale di manifestare il proprio dissenso sotto i palazzi del potere. Sono tra quelli che sono stati picchiati, umiliati e trattati come bestie su quella maledetta camionetta.

Sul 14 novembre è già stato detto e scritto tanto quindi [...] mi soffermerò più che altro sulla piccola vacanza in carcere gentilmente concessami dallo Stato italiano. Dopo i primi convenevoli della celere sul Lungotevere (calci sui reni, sulla faccia, e le immancabili manganellate sulla testa le quali, anche se vietate dalla legge perché banalmente potrebbero ucciderti, le forze dell'ordine proprio non riescono a fartele mancare), siamo stati trasportati sulla camionetta.

Lì, ovviamente, i poliziotti hanno fatto gli onori di casa: e giù a calci nelle palle, insulti, minacce di morte e vessazioni di ogni tipo. Persone con la testa aperta, mani rotte e il sangue che scivolava copioso sono state costrette a sedersi per terra, senza potersi reggere, sbattendo così il proprio corpo già martoriato sui lati del camioncino. Siccome però le forze dell'ordine non sono bestie ma esseri umani, sei ore dopo averci portato in questura hanno chiamato un'ambulanza. "Alla buon'ora", avremmo voluto dire.

Dopo dieci ore e manco un cracker nello stomaco, arriva il verdetto: carcere. Paura, panico, ansia e terrore iniziano a trasudare dal corpo per quell'unico pensiero: "E mo chi da' da mangiare al gatto?". Il poliziotto, che notavo avere un certo piacere nel comunicarmi la notizia, pregustandosi già una scenata isterica secondo lui tipicamente femminile, ha avuto un immediato calo della mascella nell'assistere alla telefonata tra me e mia madre in cui la istruivo sulle quantità di cibo da dare al felino.

Arrivata in carcere, sono privata di ogni cosa che potrebbe aiutarmi al suicidio: elastico dei pantaloni, lacci delle scarpe ("scusi, così mi stanno larghe, casco ogni tre passi" - "questioni di sicurezza" - "ma ho le lenzuola in cella, posso impiccarmi anche con quelle" - "eeeeehhhhhh"), reggiseno ("scusi come ci si ammazza col reggiseno?" "eeeeeeeeeeeeeeeeehhhhhhhh"), piercing ("io questi non li levo, non l'ho mai fatto, non so' capace" -"fa come te pare" - "allora tengo anche quest'altri" - "no, se ci riesci, li devi levare" - "ma perché?" - "eeeeeeehhhhhh"), accendino ("si può avere solo quello con la rotella, no con lo scatto" - "perché, che cambia?" - "che quello lo compri qui" - "ah ecco").

Rimango in magliettina, in un clima paragonabile solo a quello dell'Alaska, e chiedo una felpa: "Adesso non si può". Sfidando le intemperie quindi, mi avventuro nel reparto dell'isolamento cui sono stata destinata e lì scopro l'amara verità: ho la finestra della cella mezza aperta. Mai 'na gioia davero. Nessuno mi dice come chiuderla e, avendo io la praticità e la razionalità di un bradipo monco, mi costringo a dormire.

Le celle vengono aperte alle otto del mattino e richiuse la sera alle venti. "Rebibbia è un carcere aperto", dicono. Infatti, si poteva liberamente camminare avanti e indietro in un corridoio lungo dieci metri dove il massimo del divertimento era guardare la simpatica porta blindata che si apriva e chiudeva ogni tanto. Arriva la detenuta che porta le colazioni. Le chiedo quanto la pagano, lei schifata dice: "Ottanta euro al mese, per lavorare tutti i giorni dodici ore. Domani però vogliamo scioperare, non è possibile che qui ci sfruttino in questo modo e fuori non si sa nulla". Si potrebbe obiettare che in carcere c'è vitto e alloggio pagato dallo Stato, ma non è proprio così: qualunque cosa, anche quella più stupida che parenti e amici potrebbero mandarti da fuori, deve essere comprata all'interno della struttura. Con un sovrapprezzo chiaramente. Quindi, o hai alle spalle una famiglia che mensilmente versa dei soldi sulla tua "Jail - Card", oppure te la prendi allegramente in saccoccia e ti adatti a una vita che, oltre a essere già dura di per sé, diventa ancora più degradante.

Decido di farmi una doccia. Acqua calda neanche a parlarne. Ai piani superiori riescono a scaldarla nei pentoloni, ma all'isolamento non l'abbiamo, quindi dobbiamo adattarci. Poco male, alle brutte mi prenderà una polmonite. Cerco il phon per i capelli. Aria fredda. Polmonite assicurata. Chiedo un cambio alle guardie carcerarie perché, essendo vestita da due giorni allo stesso modo e avendo anche dormito con quella roba, oltre alla mia vita anche le mie condizioni igieniche iniziano a diventare abbastanza precarie. Mi spiegano che il loro guardaroba è molto disorganizzato e quindi non possono darmi nulla. Chiedo allora di poter chiamare mia madre, così da farmi avere dei cambi. Non ne ho diritto. Chiedo a loro di chiamarla. Non possono. "Quindi rimango così?", chiedo iniziandomi ad alterare. "Signorina guardi che non è mica in villeggiatura". Gli spiego che i detenuti non sono delle bestie e che hanno dei diritti, vengo immediatamente bollata come "scocciatrice" e rispedita nella mia sezione. Dopo aver smosso almeno tre piani e stalkerato diversi secondini, riesco a rimediare una felpa e due mutande.

All'isolamento siamo in cinque. A un certo punto sentiamo sbattere da dentro una cella e andiamo a vedere: c'è una ragazza messa in punizione. Non può uscire da lì per dieci giorni. Chiusa 24 ore su 24. Inorridiamo a questa scoperta. Già noi ci sentiamo come animali in gabbia, chiuse in un corridoio, figuriamoci se si è costretti per dieci giorni, senza uscire, in una cella di due metri per uno. La guardia ci intima di allontanarci, non possiamo parlarle, altrimenti ci viene fatto rapporto e ci vengono dati quarantacinque giorni di carcere in più. Chiaramente, appena si gira, andiamo dalla ragazza, le portiamo l'acqua, il caffè, le allunghiamo una sigaretta. Se c'è una cosa che t'insegna il carcere, è questa: lì dentro non ci si lascia sole. Non importa quello che hai fatto al di fuori: lì, ci si aiuta l'un l'altra nei momenti di sconforto, di paura e di solitudine. La galera ti taglia fuori dal mondo, i contatti con l'esterno per molti sono nulli e rischi d'impazzire. Non c'è ordine dall'alto che tenga quando c'è in gioco il pericolo di una solitudine più grande di quella che già si ha. Fanculo l'isolamento, fanculo gli ordini, fanculo le regole che ti vogliono annullare. Nessuno deve rimanere solo.

Mi arriva la spesa che ho fatto. Ho una bottiglia d'acqua naturale, la bevo e sento che è allungata con quella frizzante. E l'ho pure pagata. Impreco e vado dalla guardia a reclamare l'ora d'aria. Mi dice che non è possibile, non c'è l'assistente che può controllarci all'esterno e che quindi non usciremo. Inizio a scalpitare sempre di più e la mancanza di contatto con l'esterno inizia a devastarmi. Chiedo se i miei genitori hanno cercato di vedermi, se sono venuti i miei amici e i miei compagni. Non possono dirmi nulla. Inizio a incazzarmi veramente. Arrivano le venti e mi chiudono in cella. Le altre detenute accendono il televisore e sento il rumore delle camionette. Si parla della manifestazione del giorno prima. Mi tappo le orecchie per non sentirle, ma la rabbia monta lo stesso per quello che è stato fatto al corteo, a me e ai miei compagni e decido di mettermi a dormire. Tanto non ho nulla da fare.

Mi addormento, stavolta un po' in preda al magone. E a un certo punto eccoli: i miei compagni, i miei amici, i miei genitori e i miei fratelli sono lì fuori a urlare che non sono sola, a lanciare fuochi d'artificio e a cantare che "Si parte e si torna insieme". Lì ho iniziato a ridere, la prima risata della giornata. Sento le altre detenute che urlano felici, che sbattono con le pentole sulle sbarre. Io non posso, quelle dell'isolamento sono più grosse e non riesco ad arrivarci, neanche salendo sullo sgabello. Arriva una guardia, ha capito che sono la fuori per me. Un po' infastidita mi dice che deve controllarmi e se va tutto bene. Non potrebbe andare meglio, le rispondo. Mi addormento con le voci dei miei fratelli che, dopo essere stati al freddo per un'ora, se ne vanno. Stavolta non mi addormento col magone, ma felice e piena di una forza che avevo paura di aver perso.

Il giorno dopo va molto meglio. Sono arrivate delle nuove ragazze e una di queste è terrorizzata e piange di continuo. Stavolta è il mio turno di aiutare le altre e la consapevolezza di avere questo compito mi da' forza e tranquillità. Io non sono sola ma tante altre la dentro sì: è compito di chi ha questa fortuna far sentire parte di una comunità gli altri che invece lo Stato vuole esclusi. La giornata va avanti tra risate e un po' di lacrime quindi, ma quasi ci dimentichiamo di quelle sbarre che ci opprimono.

Dopo un po' succede quello che più mi aspettavo e temevo: mi vengono le mestruazioni. Cari maschietti che leggete, non sentitevi in difficoltà e non distogliete lo sguardo che questa è una cosa tanto naturale quanto rognosa. Specie se ti trovi in carcere. Premetto che mia sorella aveva tentato di mandarmi degli assorbenti, ma niente: le guardie all'ingresso non glieli hanno fatti passare. "Li devi comprare, arrivano mercoledì". Certo, e nel frattempo che si fa? Cara dignità, quanto vogliono distruggerti. Quindi eccomi lì, in palese difficoltà, ad andare a elemosinare tampax dalle assistenti del piano.

Dopo un'ora, sette richieste, e tanto disagio, sento una poliziotta che urla il mio nome. Convinta che mi stesse finalmente dando ciò che richiedevo da tempo, mi sento dire: "O esci mo a fatte l'ora d'aria o te tappo dentro". Inutile dire che lo charme e la buona educazione impartitami da mia madre sono andati a farsi benedire in tre secondi, permettendo al lato di chi ha fatto le scuole al Tufello di uscire indisturbato. Anche lì, a cavarmi d'impaccio dalla situazione, è arrivata una detenuta che, in tre secondi, da cosa facile qual era, mi ha allungato il tanto agognato assorbente salvando così quel poco di presentabilità che mi era rimasta. Tra l'altro, l'ora d'aria era peggio del corridoio: si è svolta in un quadrato di cemento minuscolo, con delle mura altissime, separato dalle altre detenute. Quel minuscolo pezzo di cielo che s'intravedeva è stato peggio della porta blindata della sezione che si apriva e chiudeva a intermittenza.

Finalmente la sera la buona notizia: esco. Scatto dal letto, correndo su quelle scarpe senza lacci. "Li rimetti ora?". No, voglio uscire subito. Dalla cella più isolata sento una preghiera "Non ti scordare di me per favore". Non lo farò. La ragazza in lacrime arrivata la mattina mi saluta. Chissà se ce la farà. Respiro. Gli abbracci, i baci, la felicità, i festeggiamenti poi, li abbiamo vissuti insieme. Questo invece è quello che vi posso raccontare nei tre giorni che ho passato solo fisicamente lontana da voi. Di come hanno provato a privarci della libertà, ma non ci sono riusciti. Di come non ci si sente soli quando si ha qualcuno fuori che urla e combatte con te. Della solitudine che può essere sconfitta quando si ha la consapevolezza di avere dei compagni al tuo fianco. Di come i detenuti ti accolgano e ti accudiscano con un amore enorme. Quando si ha tutto questo, niente può buttarti giù. "Si parte e si torna insieme", questo mi sono ripetuta nei momenti di sconforto. Non ho mai smesso di dubitarne. Hanno provato a piegarci, a spezzarci, a romperci, a metterci paura. Noi invece torniamo più forti di prima. Non ci hanno nemmeno scalfito.

mercoledì 21 novembre 2012

DIECI VOLTE PEGGIO DEI NAZISTI
Postato il Martedì, 20 novembre @ 06:00:24 CST di davide

Informazione Repubblica cancella il post di Odifreddi su Israele. Lui lascia: “Meglio fermarsi”
Il matematico aveva scritto parole dure sul conflitto in Medio Oriente accusando lo Stato ebraico di "logica nazista", ma il suo intervento è scomparso dopo 24 ore. Oggi il saluto ai lettori: "Continuare sarebbe un problema. D’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso o scrivo può non essere gradito a coloro che lo leggono"

Un post pubblicato domenica. Tema: il conflitto israelo-palestinese che in questi giorni sta vivendo un’altra pagina dai toni drammatici. Una presa di posizione molto dura nei confronti dello Stato ebraico, accusato di “logica nazista” nei confronti dei palestinesi.

Di seguito il post di Odifreddi cancellato dal blog

Ma la rimozione del suo intervento dal sito di Repubblica.it ha colto di sorpresa Piergiorgio Odifreddi (matematico, divulgatore scientifico, diventato noto anche per le sue posizioni critiche alla Chiesa cattolica). Ieri sera, infatti, il suo post nel blog “Il non senso della vita” non c’era più. Tanto è bastato, comunque, perché Odifreddi decidesse di scrivere un ultimo intervento, di commiato, per salutare i numerosi lettori che lo hanno seguito fin qui. D’altronde l’intervento in un blog non riflette la linea editoriale del giornale, che del resto nei casi più controversi – come potrebbe essere questo – può scegliere di pubblicare due interventi in antitesi (l’uno che intende confutare l’altro), davanti ai quali i lettori possono confrontarsi.

“Per 809 giorni Repubblica.it ha generosamente ospitato le mie riflessioni – scrive Odifreddi nel suo saluto – che spesso non coincidevano con la linea editoriale del giornale, e ha offerto loro l’invidiabile visibilità non solo del suo sito, ma anche di un richiamo speciale nella sezione Pubblico. Da parte mia, ho approfittato di questa ospitalità per parlare in libertà anche di temi scabrosi e non politically correct, che vertevano spesso su questioni controverse di scienza, filosofia, religione e politica. Naturalmente, sapevo bene che toccare temi sensibili poteva provocare la reazione pavloviana delle persone ipersensibili. Puntualmente, vari post hanno stimolato valanghe (centinaia, e a volte migliaia) di commenti, e aperto discussioni che hanno fatto di questo blog un gradito spazio di libertà. Altrettanto naturalmente, sapevo bene che la sponsorizzazione di Repubblica.it poteva riversare sul sito e sul giornale proteste direttamente proporzionali alla cattiva coscienza di chi si sentiva messo in discussione o criticato”.

“Immagino che il direttore del giornale e i curatori del sito abbiano spesso ricevuto lagnanze, molte delle quali probabilmente in latino – ammette – Ma devo riconoscere loro di non averne mai lasciato trasparire più che un vago sentore, e di aver sempre sposato la massima di Voltaire: ‘Detesto ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo’. Mai e sempre, fino a ieri, quando anche loro hanno dovuto soccombere di fronte ad altre lagnanze, questa volta sicuramente in ebraico”. Ma poi, ieri, ecco la cancellazione del post che “non è, di per sé, un grande problema: soprattutto nell’era dell’informatica, quando tutto ciò che si mette in rete viene clonato e continua comunque a esistere e circolare. Non è neppure un grande problema il fatto che una parte della comunità ebraica italiana non condivida le opinioni su Israele espresse non soltanto da José Saramago e Noam Chomsky, al cui insegnamento immodestamente mi ispiro, ma anche e soprattutto dai molti cittadini israeliani democratici che non approvano la politica del loro governo, ai quali vanno la mia ammirazione e la mia solidarietà”.

“Il problema, piccolo e puramente individuale, è che se continuassi a tenere il blog, d’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso o scrivo può non essere gradito a coloro che lo leggono: qualunque lingua, viva o morta, essi usino per protestare – Dovrei, cioè, diventare ‘passivamente responsabile’, per evitare di non procurare guai. Ma poiché per natura io mi sento ‘attivamente irresponsabile’, nel senso in cui Richard Feynman dichiarava di sentirsi in Il piacere di trovare le cose, preferisco fermarmi qui”. “Tenere questo blog è stata una bella esperienza, di pensiero e di vita, e ringrazio non solo coloro che l’hanno ospitato e difeso, ma anche e soprattutto coloro che vi hanno partecipato – conclude Odifreddi – La vita, con o senza senso, continua. Ma ci sono momenti in cui, candidamente, bisogna ritirarsi a coltivare il proprio giardino”.

Ma la scomparsa improvvisa del post aveva scatenato proprio i frequentatori più assidui del blog di Odifreddi che, utilizzando lo spazio del suo articolo precedente, non solo hanno chiesto insistentemente al matematico come mai quel testo fosse stato rimosso, ma lo hanno copiato e incollato a beneficio di chi non l’avesse letto. A quel punto, certo, si è sviluppato il dibattito tra chi è d’accordo con la tesi di Odifreddi e chi non lo è. ”Non c’era nessun delirio antisemita, filoislamico, comunista. Solo una condanna alla violenza” scriveva B.dg. ”Il post – secondo Giulioru – è un minkiata se l’ha o gliel’hanno tolto hanno fatto bene, non per i contenuti che sono aleatori come tutte le informazioni che ci imboccano, ma per l’uso di paragoni matematici che sono infantili e inopportuni. Uno, 10, 100 non è questione di moltipliche ma di follia umana che non ha formule né tempo né luoghi”.

I lettori del blog ora commentano invece l’addio del matematico al blog: “Con l’ultimo thread non ero d’accordo, come ho scritto – interviene Nivadi – Ciò non toglie che desidero continuare a leggere osservazioni non convenzionali e stimolanti facci sapere dove potremo leggerti. Smetterò di leggere il sito di Repubblica”. “Che gran peccato, il suo blog mi ha sempre offerto dei grossi spunti di riflessione – dice lucajeck_01 - A volte mi sono trovato in disaccordo con le sue vedute, ma è stato un piacere anche quello, poter testare il mio senso critico su argomenti complessi o comunque su punti di vista particolari è stato stimolante”.

Di seguito il post di Odifreddi cancellato dal blog

Dieci volte peggio dei nazisti (18)


Uno dei crimini più efferati dell’occupazione nazista in Italia fu la strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi “giustiziarono”, secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335 italiani in rappresaglia per l’attentato di via Rasella compiuto dalla resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32 militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna della “legge del taglione”, che sostituiva la proporzione uno a uno del motto “occhio per occhio, dente per dente” con una proporzione di dieci a uno, fu Hitler in persona.

Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l’ordine a Herbert Kappler, l’ufficiale delle SS che si era già messo in luce l’anno prima, nell’ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E quest’ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte 15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo la guerra Kesselring fu condannato a morte per l’eccidio, ma la pena fu commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu scarcerato per “motivi di salute” (tra virgolette, perché sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich Priebke furono condannati all’ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel 1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a Roma, nonostante sia ormai quasi centenario.

In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe. Il che d’altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per punire l’Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore! Cosa succederà durante l’invasione, è facilmente prevedibile. Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi.

Ma a far condannare all’ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?

Piergiorgio Odifreddi
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it

martedì 6 novembre 2012

SULCIS IN FUNDO

SULCIS IN FUNDO

di LUCA PAKAROV
rollingstonemagazine.it

Scendendo da Cagliari verso Carbonia la prima cosa che balza all’occhio è l’assenza di furgoni o camion nella strada principale, alla guida molti anziani con cappello, qualche famiglia, pochissimi giovani. A destra e a sinistra calve colline rosse brillanti che ricordano il Grand Canyon, nemmeno un’anima, piccoli bacini porpora o nella tortuosa e suggestiva strada da Nebida a Masua, coste mozzafiato, mare cristallino, cielo tridimensionale, indimenticabili location di spot pubblicitari.

Nel sud della Sardegna inferno e paradiso non si distinguono più. Anche quello che all’apparenza sembra un motivo paesaggistico è emanazione del mondo torvo e impenetrabile delle viscere che per decenni ha garantito la vita in superficie.


Le colline e i placidi laghi rossi sono antiche discariche di piombo, alluminia, zolfo e bauxite, “dimenticanze” delle miniere chiuse in tutta fretta negli anni ’60, “dimenticanze” di ogni amministrazione politica e immobile disastro ambientale. Le rovine grigie delle antiche miniere emergono dai costoni come denti marci e sembrano vecchie e malvagie sentinelle di un presente assente, un mondo del lavoro in bianco e nero, ormai perduto ed eroico, a cui è stato voltato le spalle. Le montagne ogni tanto franano a causa di un sottosuolo scavato come Emmental. Tracce di una dura civiltà, sudore, buio, polvere, morte, che invece di essere ripudiata richiama l’orgoglio per una tradizione che adesso, scopri, esiste ancora 400 metri sotto la statale. E non siamo in Metropolis di Fritz Lang, anche se, come nel film, pure in Italia la subdola operazione che si sta compiendo è quella di nascondere gli operai, come fossero estinti.

Il Sulcis Iglesiente è terra di emigrazione e di immigrazione. Notate bene immigrazione. E anche se oggi troviamo comunità di montatori, saldatori e altri professionisti in Kazakistan, in Siberia e in Sudafrica, basta buttare un occhio sui cognomi nelle lapidi dei cimiteri o sull’elenco del telefono per capire che qui la gente arrivava da ogni parte d’Italia per farsi una vita.

Ma è una storia di umiliazioni e tradimenti in cui sono i lavoratori le vittime di un sistema che timbra carte lontano dall’isola, che promette, muove vagonate di soldi e ferma quelle di carbone per interessi personali, in cui si decide di fermare l’unica azienda che produce alluminio per comprarlo dall’estero. Dove anche la criminalità organizzata abbandona il territorio perché non ci sono soldi da intercettare. Restano i demoni di sempre: affaristi, clientelismo, private necessità, incompetenza e un confronto bovino fra politici perversi.

L’unico Stato Sociale riconosciuto nella terra più povera d’Italia è la famiglia, le pensioni dei vecchi minatori (che, attenzione, stanno finendo, con tutto quello che ne conseguirà quando a breve si arriverà al dunque), gli amici che, in disoccupazione, vengono ad aggiustarti una porta o l’auto che non si avvia. Una solidarietà d’altri tempi perennemente in attività, che si palesa quando, durante lo sciopero generale di Carbonia del 2009, l’intera popolazione (il 100%!) scende in strada e partecipa. C'è stato uno sciopero generale anche oggi, 29 ottobre, proclamato da Cgil, Cisl e Uil territoriali, come ha dichiarato Fabio Enne, segretario generale della Cisl del Sulcis, ad Adnkronos, "per sollecitare gli atti e le azioni urgentissime e concrete in capo alla responsabilità della Giunta regionale, e perché sia chiaro al Governo che l'impegno assunto dallo stesso esecutivo nazionale per il 13 novembre deve accompagnarsi con altrettanti atti immediatamente realizzabili a contrasto della crisi".

Ci si chiede, come mai si vuole chiudere una delle fabbriche che produce l’alluminio migliore d’Europa? Perché si boicotta lo stabilimento spostando le produzioni altrove? Perché si mandano in malora fabbriche che poi, anche per mancanza di un progetto di bonifica, fanno più danni quando sono chiuse? Non servono nozioni astronomiche per capirlo, anche se parrebbe.
Pure se lontani da Roma, nell’isola c’è una classe politica completamente staccata dalla realtà, inerte, che non prende decisioni industriali ma solo politiche, che condanna al declino centinaia di famiglie. Qui il rapace sindaco di Iglesias, poi parlamentare, Mauro Pili del PDL, si chiuse di sua iniziativa nella miniera di Nuraxi Figus, per protesta, senza fare un’assemblea generale. Un atto politico che ha avuto molto eco al di là del Tirreno ma mal digerito dai suoi concittadini che, ancora una volta, hanno dovuto fare i conti con la speculazione emozionale di chi cerca di ribaltare i propri errori con atti clamorosi ma per niente efficaci.

La domanda, dal di fuori è: chi ve lo fa fare di lottare per un posto di lavoro del genere? Gianfranco, ex-giornalista che mi accompagna, mi fa notare: «Nel Sulcis c’è una cultura industriale radicata nel territorio, chi lavora non guarda se è sabato, domenica o Natale». C’è da ricordare che dopo la mattanza di Buggerru nella quale tre minatori persero la vita per manifestare contro la riduzione della pausa pranzo da 3 ore a un’ora, ci fu nel 1904 il primo sciopero generale italiano. Qualcosa di più di un evento storico perché, i nostri diritti, quelli che giorno per giorno ed efficacemente – c’è da dargliene atto – smantellano, sono nati proprio da lì. Anche per questo gli operai con i sindacati hanno una fortissima capacità di mobilitazione e di gestione politica della mobilitazione. Sempre Gianfranco mi racconta: «Quando preparavo la scaletta delle interviste, prima del sindaco e del vescovo, mettevo per importanza il segretario della CGIL di Carbonia ed Iglesias». Ed io eseguo di conseguenza.
Carbonia nacque con Regio Decreto dai deliri autarchici di Mussolini. È una grande piazza vuota delimitata dalla massiccia architettura fascista in cui spicca la Torre Littoria. Lontana dai contagi del continente, come in un garbato esilio, oggi si sta spegnendo. Qui c’è anche quella che fu la più grande miniera d’Italia, quella di Serbariu, 130 pazzeschi chilometri di tunnel dove, all’epoca, la propaganda del regime fotografava pasciute e sorridenti comparse travestite da minatori che raccontavano la miniera come un piacevole luogo di villeggiatura.

Roberto Puddu, segretario generale CGIL del Sulcis Iglesiente, mi spiega che con il presidente della provincia Soru c’era una leadership e un progetto definito, il suo problema, però, era che voleva vincere per il popolo e non con il popolo. Faccio la prima provocatoria domanda: «Ma a cosa servono queste aziende se è vero che non producono utili?». Mi viene risposto con una domanda – e provate a rispondere da soli – qual è il settore attualmente che non riceve aiuti? «Ferrara, per il suo giornale, prende 4milioni di euro per pubblicare 4 fogli, in proporzione abbiamo calcolato che vale 46 volte l’aiuto offerto per l’energia elettrica necessario alla produzione di alluminio. Solo che con quest’ultimo si mantengono migliaia di lavoratori». In effetti, in tutto il mondo, si elargiscono contributi pubblici che abbattono i costi della produzione di alluminio: «Se non ci fossero i contributi l’alluminio invece di 2200 dollari costerebbe 6800, e tu questo registratore lo pagheresti 200 euro invece che 100». Eppure sembra che soldi ne arrivino, solo che vengono spesi male: «La Regione avviò a Iglesias l’unica fabbrica di lana di roccia del Paese. Poi è stata ceduta ai privati con l’obbligo di esercirla per almeno 5 anni, sono arrivati a 7, hanno fatto un sacco di soldi, l’hanno smontata e portata in India. Duecento disoccupati».

Anche se in pochi credono al processo di riconversione ad energie non inquinanti quello che i sindacati vorrebbero è di aumentare l’estrazione e miscelare il carbone con altri combustibili per soddisfare, almeno in parte, la fame di energia elettrica del Paese, come cioè fanno in Germania con la lignite che usano in toto. Per far questo bisognerebbe invertire la politica industriale e investire in tecnologie innovative. Bisognerebbe, perché è arrivata prima la politica con tutti i suoi galoppini che ha bloccato anche l’altra risorsa, il turismo, fermando il progetto di unire l’aeroporto di Cagliari con la linea ferroviaria.

E, infatti, lentamente la conversazione finisce su Berlusconi che nell’incontro con i sindaci e la regione prima delle elezioni, raccontò barzellette e di un’improbabile, salvifica, telefonata a Putin per non far chiudere l’Eurallumina, in mano della russa RusAl. Il PDL vinse le elezioni con Cappellacci, la fabbrica qualche mese dopo chiuse, 750 lavoratori per strada. Fu il primo atto dello sfascio dell’intera filiera. Quello che chiaramente vuole dirmi Puddu è come certe tragedie che non lasciano indifferente l’opinione pubblica siano una cassa di risonanza che favoriscono, oltre all’esposizione mediatica dei politici, il finto interessamento di aziende minori nella trattativa per l’acquisizione di Alcoa al solo scopo di ottenere pubblicità (come nel caso della KiteGen di Torino che garantiva una nuova tecnologia che mandava nella stratosfera aquiloni per ottenere energia pulita o qualcosa del genere). «Il protagonismo quando non si riconduce ad un’organizzazione diventa personalismo ed individualismo... Uno si salva, ma gli altri?».

Quando chiedo qual è il piano d’emergenza, cosa succederebbe se chiudessero Alcoa e/o Carbosulcis, la risposta è lapidaria: «Il disastro». Il carbone allora si capisce bene è più di un fossile, è dignità e spessore culturale di un territorio e che non mantenerlo, oltre alla incredibile logica di dover comprare carbone ed alluminio dall’estero, si tradurrebbe in costi molto maggiori, a livello economico e sociale.
Sostituisco vescovo e sindaco con Roberto Cossu, trentacinquenne che non a caso si fa chiamare Diablo – nemmeno troppo vago omaggio ai Litfiba – ed ex-interinale Alcoa, voce dei Golaseca, un gruppo rock formato per tre quinti da dipendenti della grande azienda di Portovesme, che hanno dedicato il loro demo al matriarcato. «Si sta fra l’incudine e il martello, da una parte non si può morire di fame e dall’altra non si può morire di malattia». E ok, ma quello che più mi meraviglia per un musicista è la sua voglia di rimanere sul territorio dov’è nato. Mi racconta di quando ha continuato a lavorare con un dito rotto perché in ostaggio dal ricatto non scritto del rinnovo del contratto, come accade ai suoi colleghi. Impieghi che molti di noi non si sognerebbero di fare ma che, per ottenere un contratto, bisogna sgomitare.

«Nell’Alcoa non si lotta per gli ammortizzatori sociali, si lotta per lavorare. Per un lavoro svolto con la maschera antigas, con la polvere o con dei forni a 1400 gradi. Cassa integrazione e mobilità sono la morte dell’uomo». Fa autocritica Roberto: «Gli permettiamo di trattarci come vogliono», ma per il resto ha le idee fin troppo chiare: «Hai presente l’esplosivo che hanno trovato vicino all’Alcoa prima della manifestazione del 10 settembre? Anche se la stampa ha raccontato che si trattava di un ordigno fasullo, erano candelotti pronti, senza innesco... E infatti li hanno fatti detonare. È come dire: sappiate che qui il plastico non ci manca». «E c’è gente disposto ad usarlo?». «Secondo te? C’è gente disposto ad usarlo e che sa usarlo, stai parlando di persone disperate». Specifica che nessuno vuole arrivare alla violenza però la situazione è tesa: «Sono padri di famiglia, è gente che se parte non si ferma più». Conclude dicendo: «Questa nazione è un incubo».

Un dato significativo è che nell’ultimo anno l’incredibile spopolamento della regione si è bloccato poiché i lavoratori non hanno le capacità economiche di portare con sé le famiglie, preferendo inviare soldi a casa. I numeri sono impressionanti. La contraddizione, che poi non è una contraddizione se si pensa allo sfruttamento del lavoro, è che quando un’occupazione durissima diventa civile, con degli standard che permettono almeno qualche speranza di vita, non serve più. Il discorso all’oggi vale per ogni settore. Quello che succederà tra poco nessuno lo sa, pochi stanno tranquilli, chissà non si riparta proprio da Buggerru.
Luca Pakarov
Fonte: www.rollingstonemagazine.it

sabato 29 settembre 2012

Quando l’arroganza veste l’abito talare.


“Ma se in un luogo non vi si ricevesse,
né vi si desse ascolto, andate via di là
e scuotete la polvere da sotto i vostri piedi
in testimonianza contro di essi”
(Vangelo di Marco, 6,11)
E’ la seconda volta che Angelo Pittau mi mette alla porta come persona non gradita. La prima qualche mese fa in margine a un convegno sul volontariato, l’ultima oggi, 28 settembre, in occasione della commemorazione del vescovo Antonio Tedde, a 30 anni dalla morte. Avanzando la pretestuosa motivazione che il convegno era a invito, mi ha chiesto di allontanami come persona, appunto, non gradita. Gli ho solo risposto che me ne andavo scuotendo la polvere da sotto i piedi come al versetto di Marco di cui sopra. Avrei dovuto ben capire che questo figuro nutre nei miei confronti un astio mal e mai celato: evidentemente non ama le persone che ritengono di avere un cervello e si sforzano di farlo funzionare. Appare evidente da più segnali che la chiesa, anche nel nostro territorio, oggi è ripiegata in una autocelebrazione del passato e della ritualità a scapito della profezia e della speranza. Non si coglie ricerca autentica. Non c’è vera inquietudine, quella produttiva del cambiamento. Nessun’ansia di rinnovamento. La gente si agita (o meglio la si manovra) moltissimo in mille iniziative ma non si riflette mai sulla prospettiva, sulla direzione da prendere per il domani. Non molto tempo fa mi permisi di suggerire un incontro-dibattito sui vari scandali del Vaticano: ottenni un netto rifiuto debolmente motivato da risibili motivazioni, come becero attacco anticlericale, menzogne dei mass-media, e simili idiozie.
Insomma la chiesa locale assomiglia sempre più a una consorteria di amici degli amici che a quella realtà in divenire che una volta si definiva popolo di Dio.
Stai tranquillo, Angelo Pittau: d’ora in poi mi guarderò bene dal frequentare i tuoi convegni e pseudo dibattiti sia pure promossi da un sedicente “centro culturale di alta formazione”!


Gian Paolo Marcialis


lunedì 17 settembre 2012

Hannannakaiu: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. ...

Hannannakaiu: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. ...: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. Caro Giovanni, ciò che ora mi accingo a scriverti avrei voluto dirtelo quando eri ancor...
Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna.


Caro Giovanni,
ciò che ora mi accingo a scriverti avrei voluto dirtelo quando eri ancora tra noi. Ma purtroppo la vita ci ha un po’ allontanati ed io non ho potuto comunicartelo. Sono tante le cose che mi hai lasciato. La prima cosa il tuo amore verso l’America Latina, in particolare il Perù: attraverso i tuoi racconti, che a volte duravano ore, io restavo incantata ad ascoltarti di quel mondo a me sconosciuto. Poi, nella vita e negli anni hai portato anche me ad amare quei posti meravigliosi e conoscere il modo di vivere di quei popoli, la loro povertà ma anche la loro gioia di vivere, nonostante tutto…
Mi hai fatto conoscere anche due grandi sacerdoti, Oscar Romero, ucciso sull’altare dalla dittatura salvadoregna perché aveva scelto di stare dalla parte dei poveri: anche tu ti sei sempre schierato dalla parte degli ultimi. L’altro è stato don Ignazio Garau, di Ussaramanna, grandissimo uomo e sacerdote: Anche lui ha fatto l’esperienza dell’America Latina, a Curanilahue, un piccolo centro minerario del Cile.
Conservo un ricordo indelebile delle messe celebrate in mezzo alla natura, dove ognuno di noi poteva parlare ed esprimere il proprio pensiero, nei campeggi di Sibiri e Perd’e Pibera con gli amici di Villacidro e Ussaramanna, San Gavino…
Ho un grande rimpianto: non averti potuto salutare quando non stavi più bene in salute e poterti
dire “grazie” per tutto quello che mi hai insegnato. Tu forse non te ne sei mai accorto, ma tutto quello che nella mia vita ho fatto, l’ho fatto grazie anche ai tuoi insegnamenti e alla tua testimonianza.
Grazie, Giovanni, perché tu sarai sempre nei miei pensieri più belli e positivi! Cercherò ancora di portare avanti tutte le belle cose che mi hai trasmesso: l’amore per la libertà, la giustizia, l’amicizia.
Ciao, Giovanni !

Fanari Giuliana
L MASSACRO DIMENTICATO


Israele / Palestina DI ROBERT FISK
independent.co.uk

Sabra e Chatila. Entrai in quel campo, ecco ciò che vidi



Quei ricordi, ovviamente, non si cancellano. Lo sa bene l’uomo che aveva perso la sua famiglia in un precedente massacro e poi vide, impotente, i giovani di Chatila costretti a mettersi in fila e a marciare verso la morte. Ma il tanfo dell’ingiustizia soffoca ancora i campi profughi nei quali esattamente 30 anni fa furono massacrati 1700 palestinesi. Nessuno è stato processato e tanto meno condannato per quel massacro, che persino uno scrittore israeliano paragonò all’assassinio dei partigiani jugoslavi ad opera dei simpatizzanti nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Sabra e Chatila sono un monumento eretto ai criminali che l’hanno fatta franca.

KHAKED ABU Noor era un adolescente, un futuro miliziano ed era partito per le montagne poco prima che i falangisti alleati di Israele facessero irruzione. Si sente in colpa per non aver potuto combattere contro i violentatori e gli assassini? “Il sentimento che ci accomuna è la depressione”, mi risponde. “Abbiamo chiesto giustizia, abbiamo invocato processi internazionali, ma nulla è accaduto.

Nemmeno una sola persona è stata ritenuta colpevole di quell’orrore. Nessuno è finito dinanzi ad un tribunale. Forse per questo abbiamo dovuto soffrire ancora nella guerra del 1986 (per mano dei libanesi sciiti) e forse per questo gli israeliani hanno potuto massacrare moltissimi palestinesi nel 2008-2009 durante l’invasione di Gaza. Se i responsabili del massacro di trenta anni fa fossero stati processati, non ci sarebbero stati i morti di Gaza”. Ha le sue ragioni per pensarla a questo modo. L’11 settembre a Manhattan decine di presidenti e primi ministri hanno fatto la fila per commemorare le vittime dell’attentato criminale al World Trade Center, ma nemmeno un leader occidentale ha avuto il coraggio di far visita alle fosse comuni sudice e spoglie di Sabra e Chatila. Ad onor del vero, va detto che in trenta anni nemmeno un solo leader arabo si è preso la briga di visitare il luogo in cui riposano almeno 600 delle 1700 vittime. I potenti del mondo arabo piangono, a parole, per la sorte dei palestinesi massacrati nei campi, ma nessuno ha voluto affrontare un breve volo per rendere omaggio a questi morti dimenticati.

E poi chi se la sente di offendere gli israeliani o gli americani?

Per ironia – ma significativa – del destino, il solo Paese che ha svolto una seria indagine ufficiale, pur finita in un nulla di fatto, è stato Israele. L’esercito israeliano lasciò entrare gli assassini nei campi e rimase a guardare senza intervenire mentre le atrocità si consumavano.

La testimonianza più significativa è quella fornita dal sottotenente israeliano Avi Grabowsky. La Commissione Kahan ritenne l’allora ministro della Difesa di Israele, Ariel Sharon, personalmente responsabile per aver consentito ai sanguinari falangisti anti-palestinesi di fare irruzione nei campi “per ripulirli dai terroristi” – rivelatisi inesistenti come le armi di distruzione di massa dell’Iraq 21 anni dopo. Sharon fu costretto a dimettersi, ma in seguito divenne primo ministro fin quando fu colpito da un ictus. Elie Hobeika, il leader della milizia cristiana libanese che guidò gli uomini nei campi – dopo che Sharon aveva detto ai falangisti che i palestinesi avevano appena assassinato il loro capo Bashir Gemayel – fu assassinato qualche anno dopo nella zona est di Beirut. I suoi nemici dissero che era stato ucciso dai siriani, i suoi amici incolparono gli israeliani. Hobeika, che aveva stretto una alleanza con i siriani, aveva appena annunciato che avrebbe “detto tutto” sulle atrocità di Sabra e Chatila dinanzi ad un tribunale belga che voleva processare Sharon.

Naturalmente quanti di noi entrarono nei campi il terzo e ultimo giorno del massacro – il 18 settembre 1982 – hanno i loro ricordi. Io ricordo il vecchio in pigiama disteso a terra supino nella strada principale del campo con accanto il suo innocente bastone da passeggio, le due donne e il bambino uccisi accanto a un cavallo morto, la casa privata nella quale mi nascosi dagli assassini insieme al collega del Washington Post, Loren Jenkins. Nel cortile della casa trovammo il cadavere di una giovane. Alcune donne erano state stuprate prima di essere uccise.

Ricordo anche la nuvola di mosche, l’odore penetrante della decomposizione. Queste cose le ricordo bene.

ABU MAHER ha 65 anni. La sua famiglia era fuggita da Safad, oggi Israele, e abitava nel campo profughi nei giorni del massacro. Sulle prime non voleva credere alle donne e ai bambini che gli dicevano di scappare. “Una vicina di casa cominciò ad urlare, guardai fuori e vidi mentre la uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. La figlia tentò di fuggire; gli assassini la inseguirono gridando ‘Ammazziamola, ammazziamola, non ce la lasciamo sfuggire!’. Lanciò un grido verso di me, ma io non potevo fare nulla. Ma riuscì a salvarsi”. Le ripetute visite ai campi, anno dopo anno, hanno creato una sorta di narrazione ricca di stupefacenti particolari. Le indagini condotte da Karsten Tveit della Radio norvegese e da me hanno provato che molti uomini, proprio quelli che Abu Maher vide marciare ancora vivi dopo il massacro iniziale, in seguito furono consegnati dagli israeliani agli assassini falangisti che li tennero prigionieri e Beirut est per diversi giorni e, quando si resero conto che non potevano servirsene per scambiarli con ostaggi cristiani, li giustiziarono e li seppellirono in fosse comuni. Altrettanto atroci e crudeli le argomentazioni a favore del perdono. Perché ricordare alcune centinaia di palestinesi massacrati quando in 19 mesi in Siria furono uccise 25.000 persone?

I sostenitori di Israele e i critici del mondo musulmano negli ultimi due anni mi hanno scritto insultandomi per aver più volte raccontato il massacro di Sabra e Chatila, come se il mio resoconto di testimone di quelle atrocità fosse soggetto alla prescrizione. Sulla base dei miei interventi su Sabra e Chatila raffrontati con miei articoli sull’oppressione turca, un lettore mi ha scritto che “sono portato a concludere che nel caso di Sabra e Chatila, lei mostra un pregiudizio contro Israele. Giungo a questa conclusione per il numero sproporzionato di citazioni di questa atrocità…”. Ma è possibile esagerare nel ricordare un massacro?

La dottoressa Bayan al-Hout, vedova dell’ex ambasciatore a Beirut dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha scritto la più autorevole e dettagliata ricostruzione dei crimini di guerra di Sabra e Chatila – perché di questo si è trattato – ed è giunta alla conclusione che negli anni seguenti la gente aveva paura a ricordare.

“POI ALCUNI gruppi internazionali hanno cominciato a parlarne. Dobbiamo ricordare: le vittime portano ancora le cicatrici di quei fatti e ne saranno segnati anche coloro che debbono ancora nascere”. Alla fine del libro, al-Hout pone alcuni interrogativi difficili e pericolosi: “Gli assassini sono stati i soli responsabili? Possiamo definire criminali solo gli autori del massacro? Solo chi diede gli ordini può essere considerato responsabile? ”.

In altre parole, non è forse vero che il Libano aveva un parte di responsabilità a causa dei falangisti, Israele un’altra parte a causa del comportamento del suo esercito, l’Occidente un’altra parte per avere Israele come alleato e gli arabi un’altra parte per avere gli americani come alleati? Al-Hout chiude citando le parole con le quali il rabbino Abraham Heschel si scagliò contro la guerra del Vietnam: “In una società libera alcuni sono colpevoli, ma tutti sono responsabili”.

Versione originale:

Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk
Link: http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/the-forgotten-massacre-8139930.html
15.09.2012

Versione italiana:

Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
16.09.2012

Traduzione a cura di Carlo Biscotto