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sabato 29 settembre 2012

Quando l’arroganza veste l’abito talare.


“Ma se in un luogo non vi si ricevesse,
né vi si desse ascolto, andate via di là
e scuotete la polvere da sotto i vostri piedi
in testimonianza contro di essi”
(Vangelo di Marco, 6,11)
E’ la seconda volta che Angelo Pittau mi mette alla porta come persona non gradita. La prima qualche mese fa in margine a un convegno sul volontariato, l’ultima oggi, 28 settembre, in occasione della commemorazione del vescovo Antonio Tedde, a 30 anni dalla morte. Avanzando la pretestuosa motivazione che il convegno era a invito, mi ha chiesto di allontanami come persona, appunto, non gradita. Gli ho solo risposto che me ne andavo scuotendo la polvere da sotto i piedi come al versetto di Marco di cui sopra. Avrei dovuto ben capire che questo figuro nutre nei miei confronti un astio mal e mai celato: evidentemente non ama le persone che ritengono di avere un cervello e si sforzano di farlo funzionare. Appare evidente da più segnali che la chiesa, anche nel nostro territorio, oggi è ripiegata in una autocelebrazione del passato e della ritualità a scapito della profezia e della speranza. Non si coglie ricerca autentica. Non c’è vera inquietudine, quella produttiva del cambiamento. Nessun’ansia di rinnovamento. La gente si agita (o meglio la si manovra) moltissimo in mille iniziative ma non si riflette mai sulla prospettiva, sulla direzione da prendere per il domani. Non molto tempo fa mi permisi di suggerire un incontro-dibattito sui vari scandali del Vaticano: ottenni un netto rifiuto debolmente motivato da risibili motivazioni, come becero attacco anticlericale, menzogne dei mass-media, e simili idiozie.
Insomma la chiesa locale assomiglia sempre più a una consorteria di amici degli amici che a quella realtà in divenire che una volta si definiva popolo di Dio.
Stai tranquillo, Angelo Pittau: d’ora in poi mi guarderò bene dal frequentare i tuoi convegni e pseudo dibattiti sia pure promossi da un sedicente “centro culturale di alta formazione”!


Gian Paolo Marcialis


lunedì 17 settembre 2012

Hannannakaiu: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. ...

Hannannakaiu: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. ...: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. Caro Giovanni, ciò che ora mi accingo a scriverti avrei voluto dirtelo quando eri ancor...
Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna.


Caro Giovanni,
ciò che ora mi accingo a scriverti avrei voluto dirtelo quando eri ancora tra noi. Ma purtroppo la vita ci ha un po’ allontanati ed io non ho potuto comunicartelo. Sono tante le cose che mi hai lasciato. La prima cosa il tuo amore verso l’America Latina, in particolare il Perù: attraverso i tuoi racconti, che a volte duravano ore, io restavo incantata ad ascoltarti di quel mondo a me sconosciuto. Poi, nella vita e negli anni hai portato anche me ad amare quei posti meravigliosi e conoscere il modo di vivere di quei popoli, la loro povertà ma anche la loro gioia di vivere, nonostante tutto…
Mi hai fatto conoscere anche due grandi sacerdoti, Oscar Romero, ucciso sull’altare dalla dittatura salvadoregna perché aveva scelto di stare dalla parte dei poveri: anche tu ti sei sempre schierato dalla parte degli ultimi. L’altro è stato don Ignazio Garau, di Ussaramanna, grandissimo uomo e sacerdote: Anche lui ha fatto l’esperienza dell’America Latina, a Curanilahue, un piccolo centro minerario del Cile.
Conservo un ricordo indelebile delle messe celebrate in mezzo alla natura, dove ognuno di noi poteva parlare ed esprimere il proprio pensiero, nei campeggi di Sibiri e Perd’e Pibera con gli amici di Villacidro e Ussaramanna, San Gavino…
Ho un grande rimpianto: non averti potuto salutare quando non stavi più bene in salute e poterti
dire “grazie” per tutto quello che mi hai insegnato. Tu forse non te ne sei mai accorto, ma tutto quello che nella mia vita ho fatto, l’ho fatto grazie anche ai tuoi insegnamenti e alla tua testimonianza.
Grazie, Giovanni, perché tu sarai sempre nei miei pensieri più belli e positivi! Cercherò ancora di portare avanti tutte le belle cose che mi hai trasmesso: l’amore per la libertà, la giustizia, l’amicizia.
Ciao, Giovanni !

Fanari Giuliana
L MASSACRO DIMENTICATO


Israele / Palestina DI ROBERT FISK
independent.co.uk

Sabra e Chatila. Entrai in quel campo, ecco ciò che vidi



Quei ricordi, ovviamente, non si cancellano. Lo sa bene l’uomo che aveva perso la sua famiglia in un precedente massacro e poi vide, impotente, i giovani di Chatila costretti a mettersi in fila e a marciare verso la morte. Ma il tanfo dell’ingiustizia soffoca ancora i campi profughi nei quali esattamente 30 anni fa furono massacrati 1700 palestinesi. Nessuno è stato processato e tanto meno condannato per quel massacro, che persino uno scrittore israeliano paragonò all’assassinio dei partigiani jugoslavi ad opera dei simpatizzanti nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Sabra e Chatila sono un monumento eretto ai criminali che l’hanno fatta franca.

KHAKED ABU Noor era un adolescente, un futuro miliziano ed era partito per le montagne poco prima che i falangisti alleati di Israele facessero irruzione. Si sente in colpa per non aver potuto combattere contro i violentatori e gli assassini? “Il sentimento che ci accomuna è la depressione”, mi risponde. “Abbiamo chiesto giustizia, abbiamo invocato processi internazionali, ma nulla è accaduto.

Nemmeno una sola persona è stata ritenuta colpevole di quell’orrore. Nessuno è finito dinanzi ad un tribunale. Forse per questo abbiamo dovuto soffrire ancora nella guerra del 1986 (per mano dei libanesi sciiti) e forse per questo gli israeliani hanno potuto massacrare moltissimi palestinesi nel 2008-2009 durante l’invasione di Gaza. Se i responsabili del massacro di trenta anni fa fossero stati processati, non ci sarebbero stati i morti di Gaza”. Ha le sue ragioni per pensarla a questo modo. L’11 settembre a Manhattan decine di presidenti e primi ministri hanno fatto la fila per commemorare le vittime dell’attentato criminale al World Trade Center, ma nemmeno un leader occidentale ha avuto il coraggio di far visita alle fosse comuni sudice e spoglie di Sabra e Chatila. Ad onor del vero, va detto che in trenta anni nemmeno un solo leader arabo si è preso la briga di visitare il luogo in cui riposano almeno 600 delle 1700 vittime. I potenti del mondo arabo piangono, a parole, per la sorte dei palestinesi massacrati nei campi, ma nessuno ha voluto affrontare un breve volo per rendere omaggio a questi morti dimenticati.

E poi chi se la sente di offendere gli israeliani o gli americani?

Per ironia – ma significativa – del destino, il solo Paese che ha svolto una seria indagine ufficiale, pur finita in un nulla di fatto, è stato Israele. L’esercito israeliano lasciò entrare gli assassini nei campi e rimase a guardare senza intervenire mentre le atrocità si consumavano.

La testimonianza più significativa è quella fornita dal sottotenente israeliano Avi Grabowsky. La Commissione Kahan ritenne l’allora ministro della Difesa di Israele, Ariel Sharon, personalmente responsabile per aver consentito ai sanguinari falangisti anti-palestinesi di fare irruzione nei campi “per ripulirli dai terroristi” – rivelatisi inesistenti come le armi di distruzione di massa dell’Iraq 21 anni dopo. Sharon fu costretto a dimettersi, ma in seguito divenne primo ministro fin quando fu colpito da un ictus. Elie Hobeika, il leader della milizia cristiana libanese che guidò gli uomini nei campi – dopo che Sharon aveva detto ai falangisti che i palestinesi avevano appena assassinato il loro capo Bashir Gemayel – fu assassinato qualche anno dopo nella zona est di Beirut. I suoi nemici dissero che era stato ucciso dai siriani, i suoi amici incolparono gli israeliani. Hobeika, che aveva stretto una alleanza con i siriani, aveva appena annunciato che avrebbe “detto tutto” sulle atrocità di Sabra e Chatila dinanzi ad un tribunale belga che voleva processare Sharon.

Naturalmente quanti di noi entrarono nei campi il terzo e ultimo giorno del massacro – il 18 settembre 1982 – hanno i loro ricordi. Io ricordo il vecchio in pigiama disteso a terra supino nella strada principale del campo con accanto il suo innocente bastone da passeggio, le due donne e il bambino uccisi accanto a un cavallo morto, la casa privata nella quale mi nascosi dagli assassini insieme al collega del Washington Post, Loren Jenkins. Nel cortile della casa trovammo il cadavere di una giovane. Alcune donne erano state stuprate prima di essere uccise.

Ricordo anche la nuvola di mosche, l’odore penetrante della decomposizione. Queste cose le ricordo bene.

ABU MAHER ha 65 anni. La sua famiglia era fuggita da Safad, oggi Israele, e abitava nel campo profughi nei giorni del massacro. Sulle prime non voleva credere alle donne e ai bambini che gli dicevano di scappare. “Una vicina di casa cominciò ad urlare, guardai fuori e vidi mentre la uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. La figlia tentò di fuggire; gli assassini la inseguirono gridando ‘Ammazziamola, ammazziamola, non ce la lasciamo sfuggire!’. Lanciò un grido verso di me, ma io non potevo fare nulla. Ma riuscì a salvarsi”. Le ripetute visite ai campi, anno dopo anno, hanno creato una sorta di narrazione ricca di stupefacenti particolari. Le indagini condotte da Karsten Tveit della Radio norvegese e da me hanno provato che molti uomini, proprio quelli che Abu Maher vide marciare ancora vivi dopo il massacro iniziale, in seguito furono consegnati dagli israeliani agli assassini falangisti che li tennero prigionieri e Beirut est per diversi giorni e, quando si resero conto che non potevano servirsene per scambiarli con ostaggi cristiani, li giustiziarono e li seppellirono in fosse comuni. Altrettanto atroci e crudeli le argomentazioni a favore del perdono. Perché ricordare alcune centinaia di palestinesi massacrati quando in 19 mesi in Siria furono uccise 25.000 persone?

I sostenitori di Israele e i critici del mondo musulmano negli ultimi due anni mi hanno scritto insultandomi per aver più volte raccontato il massacro di Sabra e Chatila, come se il mio resoconto di testimone di quelle atrocità fosse soggetto alla prescrizione. Sulla base dei miei interventi su Sabra e Chatila raffrontati con miei articoli sull’oppressione turca, un lettore mi ha scritto che “sono portato a concludere che nel caso di Sabra e Chatila, lei mostra un pregiudizio contro Israele. Giungo a questa conclusione per il numero sproporzionato di citazioni di questa atrocità…”. Ma è possibile esagerare nel ricordare un massacro?

La dottoressa Bayan al-Hout, vedova dell’ex ambasciatore a Beirut dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha scritto la più autorevole e dettagliata ricostruzione dei crimini di guerra di Sabra e Chatila – perché di questo si è trattato – ed è giunta alla conclusione che negli anni seguenti la gente aveva paura a ricordare.

“POI ALCUNI gruppi internazionali hanno cominciato a parlarne. Dobbiamo ricordare: le vittime portano ancora le cicatrici di quei fatti e ne saranno segnati anche coloro che debbono ancora nascere”. Alla fine del libro, al-Hout pone alcuni interrogativi difficili e pericolosi: “Gli assassini sono stati i soli responsabili? Possiamo definire criminali solo gli autori del massacro? Solo chi diede gli ordini può essere considerato responsabile? ”.

In altre parole, non è forse vero che il Libano aveva un parte di responsabilità a causa dei falangisti, Israele un’altra parte a causa del comportamento del suo esercito, l’Occidente un’altra parte per avere Israele come alleato e gli arabi un’altra parte per avere gli americani come alleati? Al-Hout chiude citando le parole con le quali il rabbino Abraham Heschel si scagliò contro la guerra del Vietnam: “In una società libera alcuni sono colpevoli, ma tutti sono responsabili”.

Versione originale:

Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk
Link: http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/the-forgotten-massacre-8139930.html
15.09.2012

Versione italiana:

Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
16.09.2012

Traduzione a cura di Carlo Biscotto