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venerdì 24 febbraio 2012

Fare giornalismo nell`era delle reti globali



di Pasquale Rotunno
nformazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Un’informazione che sappia coniugare la curiosità, l’intraprendenza e l’indipendenza con l’affidabilità, l’accuratezza, la verificabilità, la completezza. Ma come può migliorare la qualità dell’informazione? La pressione economica sulle redazioni giornalistiche è aumentata drasticamente. Le aspettative legate ai nuovi media e a internet lasciano il campo a difficoltà e incertezze. Il mercato pubblicitario registra una forte contrazione. Il giornalismo rischia di rimanere ostaggio di singoli grandi imprenditori, come Rupert Murdoch; o di vedere proliferare piccoli uffici giornalistici del tutto marginali. Lo studioso tedesco Stephan Russ-Mohl, docente di giornalismo presso l’Università della Svizzera italiana a Lugano, osserva e indaga da trent’anni la cultura giornalistica anglosassone, tedesca e svizzera. È da poco in libreria la versione italiana del suo diffuso manuale: “Fare giornalismo” (il Mulino).
Oltre a discutere con chiarezza tutti gli aspetti della professione, Russ-Mohl invita a non farsi abbagliare dalle meraviglie dell’era digitale e dell’innovazione tecnologica. La saturazione dell’informazione ha conseguenze simili alla stessa mancanza d’informazione. La nostra capacità di ricevere ed elaborare informazioni è, infatti, limitata. Come è possibile dunque fronteggiare ed elaborare adeguatamente la sovrabbondanza di notizie? Ognuno di noi percepisce la complessità del reale in modo diverso. Per i costruttivisti si tratta sempre di una realtà costruita. Eppure l’obiettività rimane un fine per quanti raccontano le notizie. Un’utopia, forse. Non per questo bisogna evitare di perseguirla. Fa un’enorme differenza se i giornalisti s’impegnano a mantenere il distacco dall’oggetto del loro scritto con lo scopo di informare il pubblico obiettivamente; oppure se prendono una posizione rispetto al tema trattato nell’intento esclusivo di influenzare il pubblico. A volte però “una finta obiettività diventa una cortina fumogena dietro alla quale si nascondono giornalisti di parte e spin doctors”. Questo gioco mascherato è peggiore del confronto aperto in cui i contendenti sono politicamente identificati.
L’esistenza di un Ordine dei giornalisti è una peculiarità italiana. A Russ-Mohl appare “di dubbia costituzionalità”. Tuttavia, ammette, “la posizione iconoclasta forse sottovaluta il rischio che l’assenza di un ordine potrebbe indebolire ulteriormente il giornalista di fronte all’editore”. Quanto alla deontologia, “là dove il diritto e la giurisprudenza non arrivano dovrebbe esserci almeno un codice etico a guidare e orientare le decisioni e le azioni dei giornalisti”. Quanto sono efficaci principi che non sono riconosciuti da tutti e che non sono vincolanti? Essi sono in grado di influenzare i comportamenti in una società sempre più complessa, pluralista e multiculturale? I codici etici e le norme professionali sono strumenti relativamente deboli. Manca di solito il potere di sanzione per poterli imporre. È importante quindi risvegliare l’etica della responsabilità: la consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. In Italia il dibattito sulla deontologia è tutto interno alle redazioni: “dovrebbe invece coinvolgere tutti gli interessati, da chi compra a chi consuma a chi ci guadagna a chi ne è oggetto”.
Persino nelle redazioni più rinomate la tutela nei confronti dei falsi non sempre funziona. Quanto lontano si può spingere il giornalista per far accettare il proprio lavoro? È lecito drammatizzare una storia per conquistare il pubblico aumentando così le vendite o i dati d’ascolto? Il redattore scientifico può riferire di una nuova cura sul cancro e illudere migliaia di pazienti? I media devono tenere per settimane in primo piano l’influenza aviaria o suina anche se i casi seri in Italia e nel resto d’Europa sono poche decine? I danni causati dalle notizie date in maniera irresponsabile hanno spesso un enorme impatto economico. Gli inglesi e gli svizzeri, rimarca ironicamente Russ-Mohl, “dovrebbero essere già estinti se la possibilità di ammalarsi di mucca pazza fosse stata anche solo la metà di quella affermata dai media!”.
Per i giornalisti non è facile mantenere le debite distanze dalle fonti di informazione, con le quali sono giornalmente in contatto e dalle quali in certa misura dipendono. Mantenere un buon rapporto con le fonti significa poter ottenere molte informazioni, talvolta anche in via esclusiva. Ma la prossimità con le fonti nasconde l’insidia della corruzione. E non sono rari i tentativi degli addetti alle Pubbliche relazioni di influenzare i servizi giornalistici mediante favori. Così come le richieste ai giornalisti di scrivere articoli benevoli in cambio di vantaggi.
Talvolta sono i giornalisti a pagare i testimoni nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Pratica ormai consueta, avverte Russ-Mohl. L’informazione a pagamento è in realtà una sorta di “normalità” cui i giornalisti sono abituati: si pagano le agenzie di stampa e si pagano le fotografie. Le notizie sono trattate come una merce, per quanto una merce molto particolare: chi non è giornalista reputa dunque moralmente accettabile il guadagno ricevuto dalla vendita di storie o fotografie esclusive. Certo la bramosia di denaro può indurre gli informatori a immaginare o a rendere più drammatiche le storie.
Ci sono casi in cui la protezione degli informatori va messa in discussione: ad esempio nel caso di criminali che mettono in pericolo la vita di altre persone. In questi casi il giornalista non è tenuto a coprire la fonte informativa. I giornalisti che vogliono mantenere la loro credibilità dovrebbero essere altrettanto critici anche quando scrivono su giornalisti e media.
Quali sono le informazioni che sono autorizzati a riprendere da altri giornalisti senza indicare la fonte e dove inizia il plagio? Il pubblico ha diritto di sapere da dove proviene l’informazione. Un discorso ancora più complesso riguarda gli inserzionisti.
Un principio irrevocabile del giornalismo di qualità dovrebbe essere la divisione netta tra la redazione e il settore pubblicità. In nessun caso la pubblicità dovrebbe influenzare i contenuti redazionali. Lo sviluppo delle inserzioni è invece legato, troppo spesso, alla condizione che i prodotti siano valutati in modo positivo anche nella parte redazionale. Ciò rappresenta un inganno per il pubblico. Gli inserzionisti sono, insomma, i principali clienti per le imprese dei media.
L’errore principale dei tentativi di risolvere dilemmi legati all’etica professionale è quello di enunciare norme universalmente valide. La maggior parte delle volte è necessario soppesare fra loro interessi contrapposti. La responsabilità etica non va addossata ai singoli giornalisti; ma condivisa anche dalle redazioni, dal management e dalla proprietà. Un’esigenza questa rimasta senza eco. Il giornalista ha l’obbligo di accuratezza ed è responsabile per le eventuali conseguenze delle notizie. Eppure non può avere ogni colpa: perché anche le aspettative dei colleghi e dei direttori ne influenzano il comportamento. Un sistema di norme professionali interne all’impresa editoriale, accettato dagli stessi giornalisti, offre la migliore difesa affinché il giornalismo possa mantenere intatta la sua autonomia. D’altra parte nelle società multiculturali e globalizzate contemporanee riuscire a fissare degli standard etici non è semplice. L’etica nel giornalismo può essere garantita solo in parte: “non sarà mai in grado di mettere sotto sopra i principi fondamentali del capitalismo o delle più radicate tradizioni culturali, proprie di ciascun paese”. Può, nondimeno, rappresentare un correttivo.
Migliorare la qualità dei giornali non è facile, conclude l’autore. Le iniziative in tal senso sono viste con sospetto da chi pratica la professione. Innanzitutto perché accolte come una minaccia all’indipendenza giornalistica.
Purtroppo, non esiste una ricetta unica per diffondere nelle redazioni coscienza e consapevolezza della qualità. Il lavoro del giornalista è spesso svolto in condizioni di stress; per questo si può addirittura definirlo come particolarmente esposto all’errore. I direttori e le redazioni devono rendere noti gli errori in modo adeguato, sia tra i colleghi, sia al pubblico. Occorre imparare dagli errori, non nasconderli. Le redazioni che hanno il coraggio di ammettere gli errori guadagnano in credibilitàInformazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Informazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Un’informazione che sappia coniugare la curiosità, l’intraprendenza e l’indipendenza con l’affidabilità, l’accuratezza, la verificabilità, la completezza. Ma come può migliorare la qualità dell’informazione? La pressione economica sulle redazioni giornalistiche è aumentata drasticamente. Le aspettative legate ai nuovi media e a internet lasciano il campo a difficoltà e incertezze. Il mercato pubblicitario registra una forte contrazione. Il giornalismo rischia di rimanere ostaggio di singoli grandi imprenditori, come Rupert Murdoch; o di vedere proliferare piccoli uffici giornalistici del tutto marginali. Lo studioso tedesco Stephan Russ-Mohl, docente di giornalismo presso l’Università della Svizzera italiana a Lugano, osserva e indaga da trent’anni la cultura giornalistica anglosassone, tedesca e svizzera. È da poco in libreria la versione italiana del suo diffuso manuale: “Fare giornalismo” (il Mulino).
Oltre a discutere con chiarezza tutti gli aspetti della professione, Russ-Mohl invita a non farsi abbagliare dalle meraviglie dell’era digitale e dell’innovazione tecnologica. La saturazione dell’informazione ha conseguenze simili alla stessa mancanza d’informazione. La nostra capacità di ricevere ed elaborare informazioni è, infatti, limitata. Come è possibile dunque fronteggiare ed elaborare adeguatamente la sovrabbondanza di notizie? Ognuno di noi percepisce la complessità del reale in modo diverso. Per i costruttivisti si tratta sempre di una realtà costruita. Eppure l’obiettività rimane un fine per quanti raccontano le notizie. Un’utopia, forse. Non per questo bisogna evitare di perseguirla. Fa un’enorme differenza se i giornalisti s’impegnano a mantenere il distacco dall’oggetto del loro scritto con lo scopo di informare il pubblico obiettivamente; oppure se prendono una posizione rispetto al tema trattato nell’intento esclusivo di influenzare il pubblico. A volte però “una finta obiettività diventa una cortina fumogena dietro alla quale si nascondono giornalisti di parte e spin doctors”. Questo gioco mascherato è peggiore del confronto aperto in cui i contendenti sono politicamente identificati.
L’esistenza di un Ordine dei giornalisti è una peculiarità italiana. A Russ-Mohl appare “di dubbia costituzionalità”. Tuttavia, ammette, “la posizione iconoclasta forse sottovaluta il rischio che l’assenza di un ordine potrebbe indebolire ulteriormente il giornalista di fronte all’editore”. Quanto alla deontologia, “là dove il diritto e la giurisprudenza non arrivano dovrebbe esserci almeno un codice etico a guidare e orientare le decisioni e le azioni dei giornalisti”. Quanto sono efficaci principi che non sono riconosciuti da tutti e che non sono vincolanti? Essi sono in grado di influenzare i comportamenti in una società sempre più complessa, pluralista e multiculturale? I codici etici e le norme professionali sono strumenti relativamente deboli. Manca di solito il potere di sanzione per poterli imporre. È importante quindi risvegliare l’etica della responsabilità: la consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. In Italia il dibattito sulla deontologia è tutto interno alle redazioni: “dovrebbe invece coinvolgere tutti gli interessati, da chi compra a chi consuma a chi ci guadagna a chi ne è oggetto”.
Persino nelle redazioni più rinomate la tutela nei confronti dei falsi non sempre funziona. Quanto lontano si può spingere il giornalista per far accettare il proprio lavoro? È lecito drammatizzare una storia per conquistare il pubblico aumentando così le vendite o i dati d’ascolto? Il redattore scientifico può riferire di una nuova cura sul cancro e illudere migliaia di pazienti? I media devono tenere per settimane in primo piano l’influenza aviaria o suina anche se i casi seri in Italia e nel resto d’Europa sono poche decine? I danni causati dalle notizie date in maniera irresponsabile hanno spesso un enorme impatto economico. Gli inglesi e gli svizzeri, rimarca ironicamente Russ-Mohl, “dovrebbero essere già estinti se la possibilità di ammalarsi di mucca pazza fosse stata anche solo la metà di quella affermata dai media!”.
Per i giornalisti non è facile mantenere le debite distanze dalle fonti di informazione, con le quali sono giornalmente in contatto e dalle quali in certa misura dipendono. Mantenere un buon rapporto con le fonti significa poter ottenere molte informazioni, talvolta anche in via esclusiva. Ma la prossimità con le fonti nasconde l’insidia della corruzione. E non sono rari i tentativi degli addetti alle Pubbliche relazioni di influenzare i servizi giornalistici mediante favori. Così come le richieste ai giornalisti di scrivere articoli benevoli in cambio di vantaggi.
Talvolta sono i giornalisti a pagare i testimoni nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Pratica ormai consueta, avverte Russ-Mohl. L’informazione a pagamento è in realtà una sorta di “normalità” cui i giornalisti sono abituati: si pagano le agenzie di stampa e si pagano le fotografie. Le notizie sono trattate come una merce, per quanto una merce molto particolare: chi non è giornalista reputa dunque moralmente accettabile il guadagno ricevuto dalla vendita di storie o fotografie esclusive. Certo la bramosia di denaro può indurre gli informatori a immaginare o a rendere più drammatiche le storie.
Ci sono casi in cui la protezione degli informatori va messa in discussione: ad esempio nel caso di criminali che mettono in pericolo la vita di altre persone. In questi casi il giornalista non è tenuto a coprire la fonte informativa. I giornalisti che vogliono mantenere la loro credibilità dovrebbero essere altrettanto critici anche quando scrivono su giornalisti e media.
Quali sono le informazioni che sono autorizzati a riprendere da altri giornalisti senza indicare la fonte e dove inizia il plagio? Il pubblico ha diritto di sapere da dove proviene l’informazione. Un discorso ancora più complesso riguarda gli inserzionisti.
Un principio irrevocabile del giornalismo di qualità dovrebbe essere la divisione netta tra la redazione e il settore pubblicità. In nessun caso la pubblicità dovrebbe influenzare i contenuti redazionali. Lo sviluppo delle inserzioni è invece legato, troppo spesso, alla condizione che i prodotti siano valutati in modo positivo anche nella parte redazionale. Ciò rappresenta un inganno per il pubblico. Gli inserzionisti sono, insomma, i principali clienti per le imprese dei media.
L’errore principale dei tentativi di risolvere dilemmi legati all’etica professionale è quello di enunciare norme universalmente valide. La maggior parte delle volte è necessario soppesare fra loro interessi contrapposti. La responsabilità etica non va addossata ai singoli giornalisti; ma condivisa anche dalle redazioni, dal management e dalla proprietà. Un’esigenza questa rimasta senza eco. Il giornalista ha l’obbligo di accuratezza ed è responsabile per le eventuali conseguenze delle notizie. Eppure non può avere ogni colpa: perché anche le aspettative dei colleghi e dei direttori ne influenzano il comportamento. Un sistema di norme professionali interne all’impresa editoriale, accettato dagli stessi giornalisti, offre la migliore difesa affinché il giornalismo possa mantenere intatta la sua autonomia. D’altra parte nelle società multiculturali e globalizzate contemporanee riuscire a fissare degli standard etici non è semplice. L’etica nel giornalismo può essere garantita solo in parte: “non sarà mai in grado di mettere sotto sopra i principi fondamentali del capitalismo o delle più radicate tradizioni culturali, proprie di ciascun paese”. Può, nondimeno, rappresentare un correttivo.
Migliorare la qualità dei giornali non è facile, conclude l’autore. Le iniziative in tal senso sono viste con sospetto da chi pratica la professione. Innanzitutto perché accolte come una minaccia all’indipendenza giornalistica.
Purtroppo, non esiste una ricetta unica per diffondere nelle redazioni coscienza e consapevolezza della qualità. Il lavoro del giornalista è spesso svolto in condizioni di stress; per questo si può addirittura definirlo come particolarmente esposto all’errore. I direttori e le redazioni devono rendere noti gli errori in modo adeguato, sia tra i colleghi, sia al pubblico. Occorre imparare dagli errori, non nasconderli. Le redazioni che hanno il coraggio di ammettere gli errori guadagnano in credibilità.

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