Post più popolari

sabato 24 settembre 2011

La verità del vescovo sul caso B.
Condividi su FacebookCondividi su OKNOtizieCondividi su Del.icio.us.

di Francesco Peloso
La verità del vescovo sul caso B.La Chiesa ha un atteggiamento fin troppo compromissorio rispetto alle vicende che riguardano il premier, mentre il Paese avrebbe bisogno della parola dei vescovi in un momento in cui si risente pesantemente della perdita di prestigio e di credibilità sia sul piano economico che su quello del prestigio internazionale. Monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, è abituato a dire con schiettezza ciò che pensa, del resto più volte si è esposto in prima persona chiedendo un passo indietro allo stesso Berlusconi quando emersero le prime notizie sugli scandali a luci rosse nei quali era coinvolto il Presidente del Consiglio. Alla ‘sua’ Conferenza episcopale, Mogavero rimprovera l’incapacità di indignarsi, di dire una parola chiara e di fidare, oltre il necessario, nella stabilità dell’attuale governo.
Monsignor Mogavero, qual è il dibattito interno alla Chiesa sulla crisi del Paese e sugli scandali che hanno travolto nuovamente il Presidente del Consiglio?


Ufficialmente non c’è alcun dibattito all’interno della Chiesa su quanto sta avvenendo nel Paese. Il problema lo sui è affrontato guardando ai principi generali, in particolare per tutto ciò che si riferisce alle vicende del premier, e sui principi naturalmente siamo tutti d’accordo. Gli aspetti concreti della situazione, però, non vengono affrontati perché lì ci sono posizioni diverse, proprio nelle valutazioni che si danno su queste circostanze; c’è poi chi crede che se ci pronunciamo con troppa chiarezza facciamo un danno al Paese perché questo intervento farebbe traballare ancora di più una situazione già delicata. Così accade che la voce della Chiesa non si leva con chiarezza, prevale una scelta compromissoria, tranne qualche cane sciolto, me compreso, che parla a ruota libera.

Quanto peserebbe, oggi, una parola chiara della Chiesa?

In gioco ci sono valori importanti, bisogna poi considerare che come Paese abbiamo perso la faccia sul piano della credibilità internazionale e su quello dell’affidabilità economica. Un sussulto etico da parte della Chiesa farebbe bene a tutti, sarebbe un segnale forte soprattutto per un Paese come il nostro dove il rigore morale non piace troppo e allora può prevalere l’idea che siccome cc’è chi si comporta in un certo modo al vertice, questo dà una maggiore libertà in quella stessa direzione a tutti gli altri. C’è una crisi di carattere economico, di credibilità, di prestigio. La stabilità del governo, per altro non così garantita, non può essere l’unico criterio di valutazione.

C’è un rischio assuefazione nell’opinione pubblica?

C’è un rischio indifferenza nel Paese, l’assuefazione della rassegnazione; una certa vicenda può accadere a Bari, Milano, Roma, Torino, e rischia di non fare più notizia. Poi non ci indigniamo nemmeno più noi, uomini di Chiesa.

In che modo però la Chiesa sta ragionando sul dopo-Berlusconi?

Certo ci stiamo interrogando sul dopo, anche perché è vero che la situazione è bloccata ma il popolo italiano si sta svegliando, le elezioni a Napoli e Milano dimostrano che il consenso è in movimento. In ogni caso la grande maggioranza dei vescovi non è d’accordo con l’idea di un nuovo partito cattolico. Per altro, attualmente, non esiste una forte leadership che rappresenti la presenza cattolica nel Paese. Quello che possiamo fare è accettare la transizione e investire sul futuro aiutando la formazione non tanto di politici cattolici, ma di cattolici coerenti che, quando arrivano in politica, abbiano una propria autonomia e non cedano all’omologazione; c’è oggi una debolezza identitaria del mondo cattolico. La discontinuità è invece il segno distintivo dei cattolici, il cattolico dà un contributo valoriale anche se non arriva per forza a un risultato legislativo, non si può essere maggioranza per forza.

Il laicato cattolico esprime realtà molto diverse fra loro…


Mi pare che nel mondo del laicato cattolico manchi oggi una regia che riesca a porre sotto un’unica regia, una stessa sigla, tutte le varie forze presenti. Non, ripeto, per fare un partito, ma per riunire le forze che pure hanno sensibilità differenti e riuscire a pesare nella realtà, soffriamo dell’assenza di figure forti capaci di catalizzare la presenza cattolica. Ogni associazione procede per conto proprio.

venerdì 23 settembre 2011

da Nigrizia
Note a margine

I cattolici e il dopo Festival

Nigrizia, Pax Christi e il Monastero del bene comune s’interrogano su quanto è uscito dal recente Festival della Dottrina sociale della chiesa, tenutosi a Verona. E ricordano che il Vangelo, ma anche encicliche e documenti pontifici, danno precisi orientamenti su denaro e povertà, guerra e pace. Servirebbero meno proclami, più autocritica e chiare priorità.

Si è tenuto a Verona dal 16 al 18 settembre il 1° Festival della Dottrina sociale della chiesa. Si è parlato di "Economia, istituzioni e società: volti, idee e azioni". Numerosi e qualificati gli ospiti intervenuti con l'obiettivo di rilanciare la Dottrina sociale della chiesa, di richiamare i cattolici a una maggior coerenza e a un rinnovato impegno nella vita sociale, politica ed economica, per aiutare la società a uscire dalla crisi.

In particolare, il card. Tarcisio Bertone, segretario di stato del Vaticano, ha lanciato un forte appello alla coerenza, alla responsabilità, alla solidarietà e alla condivisione. «Chi vuole cambiare il mondo non può farlo da solo, ma assieme agli altri, mettendo in comune esperienze e riflessioni», e «senza condivisione non c'è trasformazione della società». A tale proposito, il card. Bertone ha citato il celebre motto di don Milani: I care ("mi prendo cura").

Forte e unanime è stata la critica alla finanziarizzazione dell'economia, «che ha espulso dal suo centro non solo l'uomo ma perfino la produzione e il profitto» (Marco Vitale). Tutti sono stati d'accordo nel chiedere che siano rimessi al centro l'uomo, l'occupazione, l'impresa, l'innovazione, la creatività e la soddisfazione di bisogni veri, e che vengano riscoperte l'etica e la cooperazione. Il cristiano - è questo il richiamo di Benedetto XVI - non deve sottrarsi al compito di «evangelizzare il mondo del lavoro, dell'economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». Come non essere d'accordo?

Eppure, ci sia consentito di esprimere alcune idee, forse scomode, ma dettate dall'amore per il Vangelo e per la Dottrina sociale della chiesa. La tipologia dei relatori intervenuti e l'assenza assoluta di ampi settori della vita civile, quali il mondo della marginalità, dell'immigrazione, del precariato e della sofferenza' non denotano certo una "opzione preferenziale per i poveri"', ma piuttosto per i potenti che hanno potuto fare bella mostra di sé.

I cattolici, nessuno escluso, compresi molti dei relatori presenti e tutti quei politici che si richiamano, a parole, alla Dottrina sociale, dovrebbero fare un serio esame di coscienza. Il nostro paese è stato governato per decenni dalla Democrazia cristiana e, negli ultimi anni, retto da un governo di centro-destra che sbandiera continuamente i "valori cristiani". Nei fatti, però, la classe politica italiana, anzi la "Casta", non ha mai toccato un livello così basso di corruzione, di scandali e di tradimento della Dottrina sociale e del Vangelo, il cui messaggio - è bene ricordarlo - è molto esigente e non ammette sconti o compromessi.

I politici, purtroppo, rispecchiano in larga parte chi li ha votati, perché in Italia prevale la cultura del furbo, del farla franca, del non pagare le tasse, della chiusura verso il povero e il diverso, e della difesa a oltranza dei propri interessi e privilegi. Altro che I care! Dobbiamo avere il coraggio di riconoscerlo e di fare una sana autocritica. Cambiare si può. La crisi ce ne offre l'occasione.

È importante, dunque, riscoprire la Dottrina sociale della chiesa e ripartire dal Vangelo. Ma non bastano i proclami e gli appelli generici. La Parola si deve incarnare nella vita quotidiana e nella società. È bene parlare di etica e di responsabilità.

Ma, allora, bisogna parlare anche di giustizia, di impresa etica, di finanza etica, di consumo responsabile, di imprenditorialità sociale, di sobrietà e di nuovi stili di vita. In semplici parole, del rapporto tra i cattolici e il denaro. Si tratta di un tema fondamentale, su cui bisognerebbe riflettere maggiormente. La vita (e la morte) di milioni di persone non dipende, forse, da un sistema economico folle e ingiusto che antepone il profitto alla vita? Non ha questo sistema prodotto oltre un miliardo di persone che vivono sotto il livello di povertà?

Altro tema appassionante, e che richiederebbe una straordinaria mobilitazione del mondo cattolico, è quello - purtroppo sempre attuale - della guerra e della pace e, quindi, del disarmo. Di fronte alle decine di guerre, grandi e piccole, che insanguinano il pianeta e provocano sofferenze e miseria, spetta a noi cattolici riscoprire e riflettere sui testi e le parole di pace di Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, o Paolo VI. Papa Montini, che già nella sua appassionata esortazione ai rappresentanti dei popoli della terra nel suo discorso all'Onu (4 ottobre 1965) aveva detto: «Lasciate cadere le armi dalle vostre mani!», nell'enciclica Populorum progessio del 1967 ribadiva: «Quando tanti popoli hanno fame (...) ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo. Vogliano i responsabili ascoltarci prima che sia troppo tardi». Nel documento La Santa Sede e il disarmo generale del giugno 1976, della Pontificia Commissione Giustizia e Pace, si leggeva: «La corsa agli armamenti, anche quando è dettata da una preoccupazione di legittima difesa, è nella realtà un pericolo e un'ingiustizia per la natura stessa delle armi moderne e per la situazione planetaria [...]. Gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame».

Parole sempre attuali, ma purtroppo dimenticate. Sono pochi i cattolici che, nell'aprire un conto corrente, si pongono il problema delle "banche armate". Guerra e pace, denaro e povertà, ma anche costruzione di una economia "altra", quella del bene comune, rispettosa dell'uomo e dell'ambiente: non sono temi appassionanti su cui impegnarsi? I cattolici non hanno nulla da dire su questo?

Una nuova classe politica e una nuova generazione di cattolici dovrebbero avere queste priorità. Ed è per questo che proponiamo di avviare un percorso parallelo al "Festival della Dottrina sociale della chiesa" celebrato a Verona, per riflettere in maniera concreta su questi temi, che rientrano di diritto nell'insegnamento sociale della chiesa, e per formare, non tanto una nuova classe dirigente cattolica, ma cattolici coerenti, consapevoli e responsabili, cittadini che possano essere il lievito di una nuova società. Ci sembra il modo migliore per prepararci alla Giornata mondiale della pace (1° gennaio 2012), che avrà come tema "Educare i giovani alla giustizia e alla pace".

Nigrizia - 21/09/2011

giovedì 22 settembre 2011

Riceviamo dalla dott.ssa Marinella Correggia, membro del Citizens for Peace & Justice, testimone dei recenti massacri NATO in Libia, e volentieri inoltriamo.


LETTERA APERTA AGLI ORGANIZZATORI DELLA MARCIA PERUGIA-ASSISI ED A TUTTI I PACIFISTI ITALIANI

Nel manifesto di convocazione della "Marcia della Pace" sono contenuti
generici appelli contro "le guerre", "la violenza", "il commercio delle
armi" ed a "mettere fine alla guerra in Libia, in Afghanistan", ecc.

Ma allora vi chiediamo: da 6 mesi è in corso una sanguinosa guerra che ha
comportato 9.000 azioni di bombardamento sulla Libia, che ha causato immani
distruzioni e privazioni per la popolazione, migliaia, o forse decine di
migliaia, di vittime civili innocenti, centinaia di migliaia di profughi.

DOVE ERAVATE IN QUESTI 6 MESI? Eravate voltati dall'altra parte?
 
Piccoli gruppi come i nostri hanno tentato di sensibilizzare l'opinione
pubblica con una serie di manifestazioni ignorate dalla stampa.  Abbiamo
manifestato davanti all'ambasciata di Francia e davanti a Montecitorio, ci
siamo recati presso le ambasciate dei paesi non belligeranti (Cina, Russia,
India, Brasile, Sudafrica, ecc.) per chiedere di favorire un cessate il
fuoco immediato ed una mediazione tra le parti sotto l'egida di
organizzazioni neutrali quali l'Unione Africana o i paesi sudamericani.
Tramite comunicati abbiamo invitato tutti a partecipare a queste azioni di
sensibilizzazione, eppure ci siamo sempre ritrovati soli.  Dove eravate? 
Quali iniziative per fermare la guerra avete intrapreso voi?

Non vi siete accorti che i paesi aggressori (USA, Francia, Gran Bretagna,
Italia, paesi della NATO, monarchie arabe reazionarie come il Qatar e gli
Emirati) stavano violando lo spirito e la lettera della risoluzione
dell'ONU che parlava di una presunta azione di "protezione dei civili",
ponendosi invece l'obiettivo di un cambio di regime con la forza delle
armi?  Non vi siete accorti che gli insorti erano continuamente riforniti
di armi e appoggi logistici e militari e sobillati a non aderire ad alcuna
trattativa? Non vedete che l'unico scopo di questa operazione è la
spartizione delle risorse della Libia in un ambito neo-coloniale?

Perché non una parola di condanna avete espresso sui bombardamenti e le
azioni militari degli aggressori? L'unica parola di condanna esplicita
l'avete rivolta contro un altro paese, la Siria, dove il governo ha aperto
un dialogo con l'opposizione più responsabile.  Ma anche in questo caso,
come in Libia, frange di Al-Qaeda, integralisti islamici radicali ed
ex-combattenti dell'Afghanistan vengono forniti di armi e sobillati da USA,
Francia , Gran Bretagna e monarchie arabe reazionarie (Arabia Saudita in
testa) a destabilizzare il governo negando ogni dialogo.

STATE FORSE INDICANDO AI BOMBARDIERI DELLA NATO IL PROSSIMO OBIETTIVO?

Vi ricordiamo che tutte le guerre e le aggressioni precedenti sono state
precedute da bugie palesi (armi di distruzione di massa di Saddam, massacro
di 10.000 civili libici mai avvenuto con relative false immagini di fosse
comuni, ecc.) e giustificate con la retorica dei "diritti umani" violati.

VI RISULTA CHE LE CONDIZIONI MORALI E MATERIALI DEI CIVILI DELL'IRAQ, DELLA
SOMALIA, DELL'AFGHANISTAN, DEL KOSSOVO, ED OGGI DELLA LIBIA SIANO
MIGLIORATE DOPO GLI INTERVENTI ARMATI "UMANITARI" OCCIDENTALI?  L'UNICO
RISULTATO SONO STATI MILIONI DI MORTI E DI PROFUGHI, GUERRA CIVILE,
DISASTRO UMANITARIO, CROLLO DI TUTTE LE CONDIZIONI DI VITA.

Ed ora le popolazioni delle città libiche di Sirte, Bani Walid e Sabha
rischiano di essere massacrate dagli insorti, sotto l'egida di una
operazione ONU approvata "per proteggere i civili" e con il
silenzio-assenso vostro e di chi vi sostiene.

IN QUESTE CONDIZIONI LA "MARCIA DELLA PACE" DIVENTA UN SEPOLCRO IMBIANCATO.

Questi sono i motivi per cui non aderiamo alla marcia in quanto
associazioni. Non avalliamo iniziative rituali ed istituzionali, ma
continueremo con le nostre iniziative concrete a favore di un cessate il
fuoco e di un dialogo tra le parti in Libia, come in Siria.

NoWar - Roma
U.S. Citizens for Peace & Justice - Rome
 


VISITA DI STATO

Joseph, la tournée tedesca

Per il papa un palco e 60 limousine.

di Barbara Ciolli

Nel giorno dell’habemus Papam, quel 19 aprile 2005, persino gli atei di Germania avevano gioito per un «papa tedesco». Sei anni dopo, per la sua prima visita di Stato in patria, Benedetto XVI sarà accolto come «lo straniero». Un viaggio contestato da mesi, soprattutto per la tappa nella capitale, dove il sindaco Klaus Wowereit, ancora in campagna elettorale prima di essere confermato per il suo terzo mandato, ha dichiarato di «nutrire grande comprensione» per i cittadini che protesteranno contro Joseph Ratzinger.
IL PAPA DEL DOGMA. Non è stata generosa neppure la stampa nazionale, che ha annunciato la venuta di un pontefice «incorreggibile» (der Spiegel) nei suoi dogmi, che ha portato al potere l’ala più conservatrice della Chiesa, «rinunciando a rispondere alle grandi domande della società contemporanea».
L’affetto se n’è andato, è rimasto lo scetticismo dei molti tedeschi che incontrerà lungo la sua strada (a Berlino solo il 9% è di religione cattolica, in Turingia il 7% e in Baden-Württemberg un terzo della popolazione), gay e lesbiche in testa.
Tuttavia, ha scritto il settimanale die Zeit rivelando indiscrezioni curiose sui dettagli del suo tour dal 22 al 25 settembre, sarà una visita in pompa magna.

Stola con foglie d'oro del Giappone e 60 limousine

Per la messa a Friburgo, in Baden-Württemberg, Benedetto XVI indosserà una veste di cotone verde, venata di foglie d’oro di seta cinese fatte arrivare dal Giappone. La stola è stata confezionata dalle suore del monastero francescano di Gegenbach, che non hanno voluto svelare il segreto: «Quanto è costato l’oro? Per Dio, il meglio non è mai abbastanza».
In Germania, il papa era già arrivato nel 2005, per la giornata mondiale della Gioventù a Colonia, e nel 2006, a visitare il suo paese natale di Marktl, sul confine con l’Austria. In entrambe le occasioni giocava in casa, nella cattolica Baviera e alla manifestazione internazionale di giovani fedeli.
Stavolta, invece, il pontefice ha scelto di affrontare tappe più ardue, con l'obiettivo ecumenico di aprire un tavolo di dialogo con le diverse confessioni religiose dei Land tedeschi.
LA SCORTA SPECIALE. Per spostarsi da una città all’altra (Berlino, Erfurt e Friburgo), Benedetto XVI avrà a disposizione la scorta speciale “Mitra”, che finora la polizia tedesca ha messo in campo solo per i capi di Stato di Usa, Russia, Afghanistan e Israele. E sarà accompagnato da un seguito di 60 limousine e 13 elicotteri.
Al fianco degli agenti tedeschi, saranno schierati i Carabinieri e le forze del servizio d’ordine dello Stato vaticano. Al passaggio del corteo saranno poi chiuse le autostrade. A Berlino, oltre a tenere il contestato discorso in Parlamento, papa Ratzinger salirà su un altare alto sei metri, allestito all'Olympiastadion, «proprio come il palcoscenico di una popstar», ha commentato die Zeit.

La Linke minaccia di lasciare il parlamento

Oltre che a sventare il pericolo di attentati, agenti e bodyguard dovranno evitare eventuali contestazioni durante il viaggio della papa-mobile, come invece accadde durante la visita del 1996 di Giovanni Paolo II a Berlino.
LA RIVOLTA DI GAY E LESBICHE. Sul piede di guerra, le associazioni di gay e lesbiche hanno già stampato decine di t-shirt provocatorie contro la visita di Benedetto XVI e promesso cori di protesta al suo passaggio.
Parte dei parlamentari della Linke, la sinistra radicale tedesca, hanno annunciato che lasceranno l'aula non appena il papa pronuncerà il suo discorso al Bundestag, in qualità di capo di Stato. Qualche contestatore (ne sono attesi circa 3 mila nella sola Berlino) ha anche minacciato un imbarazzante lancio di preservativi contro il pontefice.
INCONTRO CON MERKEL E WULFF. Anche se il viaggio, durante il quale il papa incontrerà il presidente Christian Wulff e la Cancelliera Angela Merkel, è di fatto una visita di Stato, pare che Benedetto XVI si sia concentrato particolarmente sui preparativi della messa allo stadio, facendo allestire un vero e proprio backstage con catering di alto livello e guardaroba trasformati in sacrestie. Considerato il commento critico di Wowereit, dichiaratamente omosessuale, l’incontro con il sindaco della capitale tedesca sarà limitato a una scambio di battute.
LE ULTIME TAPPE DEL VIAGGIO. Poi il papa partirà per Erfurt, in Turingia e, infine, per la cittadina sveva di Friburgo, dove si svolgerà la parte più importante del cerimoniale religioso. Oltre a incontrare le comunità anglicane e musulmane, Ratzinger parlerà con i 16 giudici della Corte costituzionale tedesca e anche il cancelliere emerito e cattolicissimo Helmut Kohl. Poi la santa messa con 100 mila fedeli, in una cittadella dell’aeroporto ricoperta da decine di tappeti rossi.
Martedì, 20 Settembre 2011
CHIESA
Ratzinger non gioca in casa
Il papa in Germania fra le critiche del clero tedesco.
di Francesco Peloso
«Mai come nell’anno passato tanti cristiani hanno abbandonato la chiesa cattolica, hanno dichiarato alle gerarchie ecclesiastiche di non riconoscersi più nella loro guida o hanno “privatizzato” la loro vita di fede per prendere le distanze dall’istituzione.
La chiesa ha il dovere di comprendere questi segnali e di spogliarsi delle sue strutture fossilizzate per guadagnare nuova linfa vitale e nuova credibilità».
UN MALESSERE DIFFUSO. È questo un passaggio chiave del Memorandum messo a punto da una schiera di oltre 300 teologi, la maggior parte tedeschi, che, nella primavera scorsa, prendevano spunto dal deflagrare dello scandalo pedofilia in Germania per dare voce a un dissenso diffuso nella chiesa tedesca verso il magistero del papa e il potere vaticano.
Alla vigila della visita di Benedetto XVI in Germania, la terza del suo pontificato, il malessere del cattolicesimo continentale in particolare tedesco, austriaco, svizzero - ma che si estende anche alle chiese dei Paesi Bassi della Francia e tocca la Gran Bretagna - non può più essere rimosso o guardato con indifferenza dal pontefice.
IL SACERDOZIO PER I LAICI. Lo scandalo degli abusi sessuali ha fatto da detonatore per la riapertura di questioni cancellate ormai da tempo dal dibattito ecclesiale: l’obbligatorietà del celibato è tornata in discussione, mentre torna la richiesta di aprire il sacerdozio ai laici attraverso la figura dei viri probati (uomini moralmente retti, anche sposati, che possono celebrare messa) e di dare maggior ruolo alle donne.
Ma soprattutto le critiche si rivolgono a un potere ecclesiale ancora patriarcale divenuto l’interlocutore privilegiato di poteri politici ed economici.
Al contrario «l’impegno per la legge e la giustizia, la solidarietà con i poveri e gli oppressi», è spiegato nel Memorandum, «sono teologicamente norme fondamentali risultanti dall'obbligo della chiesa al vangelo. In questo è il nostro amore per Dio e per il prossimo concreto».
Il discorso al Bundestag sul difficile rapporto fra etica e finanza
Una agenda assai complessa, insomma, quella che attende Benedetto XVI: quattro giorni intensi durante i quali non mancheranno contestazioni, anche forti, e bagni di folla.
Il papa dovrà dare risposte convincenti anche a quel clero – centinaia di preti in Austria e Germania – che ormai dissente pubblicamente da un magistero di segno conservatore, votato a una prospettiva di chiesa identitaria e arroccata su un’intransigenza etica che tocca, secondo i critici teologi tedeschi, lo stesso principio della libertà di coscienza del credente.
LA VISITA A ERFURT E BERLINO. Il Papa visiterà Erfurt, la città di Martin Lutero e, per la prima volta, Berlino, dove è chiamato a tenere un atteso discorso al Bundestag. «Da questo discorso», ha spiegato monsignor Florian Schuller, rettore dell'Accademia cattolica della Baviera, «penso ci si aspettino degli impulsi per una morale politico-economica, anche per via della colossale crisi mondiale e non soltanto finanziaria. Questa è anche una crisi della perdita di fiducia nelle possibilità di risoluzione dei grandi problemi dell’umanità». Dunque fra i temi centrali della visita ci sarà quello del rapporto fra etica e finanza.
LO SCANDOLO DEGLI ABUSI SESSUALI. Ma certo, il papa, dovrà fare i conti – ancora una volta – con la questione degli abusi sessuali che ha sconvolto, fra le altre, la chiesa tedesca. Lo scandalo esplose con i fatti di violenza e abuso avvenuti nel celebre collegio dei gesuiti Canisius, a Berlino.
Oggi, l’allora rettore, padre Klaus Mertes, che denunciò gli abusi e chiese scusa pubblicamente, segnala ancora l’esistenza, nella chiesa, di «tabù e strutture della doppia morale» e poi «mutismo nel campo della pedagogia sessuale, uno spirito di corpo clericale e un’ecclesiologia trionfalistica, che possono rendere sordi» alle richieste d’aiuto delle vittime di pedofilia.
Lo scandalo degli abusi, ha spiegato Mertes, pone «domande sulle strutture e sulla concezione di chiesa».
IL SOSTEGNO DELL'ARCIVESCOVO DI VIENNA. A Ratzinger viene riconosciuto, in generale, il merito di aver sollevato con forza la questione come problema interno delle strutture ecclesiali, e di averla provata ad affrontare. In questa battaglia, il papa ha potuto contare sul sostegno autorevole dell’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schoenborn che, non per caso, ha puntato l’indice contro una curia romana chiusa in sé stessa e pronta a insabbiare le denunce.
L'APERTURA AI LEFEBVRIANI. E tuttavia Benedetto XVI è anche il papa che ha riabilitato la messa preconciliare in latino, spalancato le porte ai gruppi ultrareazionari dei lefebvriani, condotto una revisione ideologica del Concilio vaticano II per depotenziarne la spinta innovativa. È questo il Ratzinger che non piace al cattolicesimo tedesco, la cui natura viene così sintetizzata ancora da monsignor Shuller: «Da almeno 500 anni qui abbiamo avuto i cattolici da una parte e i cristiani della tradizione riformatrice dall’altra. Questa situazione spinge quasi necessariamente i cattolici a ripensare di continuo la loro prassi personale ed ecclesiale, confrontandola con quella dei protestanti. Questo è un paragone inevitabile ma anche fertile. Direi che siamo un po’ più critici degli altri ma non per questo meno fedeli».
Mercoledì, 21 Settembre 2011


mercoledì 21 settembre 2011

After Sixty Three Years of Occupation Israel still does not understand


Ziad Khalil Abu Zayyad




20palestinians.jpg
September 20, 2011

After sixty-three years of occupation and conflict, Israel still does not understand what is the cost of its daily occupation of the Palestinian lands and continues to go in the wrong way to gain temporary security benefits.

The recent Palestinian efforts to bid for a Full Membership state at the United Nations resulted in a wide International diplomatic movement that most of it is in favor of supporting a Palestinian state declaration. On the other side a different kind of movement is going on; a movement that offered everything possible to prevent the Palestinian leadership from bidding for an International recognition of the Palestinians right of living in a state of their own. This declaration became a nightmare for some politicians and leaders who are acknowledged of the price of their rejection of it. They are dealing with this declaration as if it is a threat on their national security and stability of the region and forgot about the essence of the meaning of democracy, freedom and right of self-expression.

Israel from its side continued to deal with the declaration by asking one question and one question only: Will there be a new Intifada? How will the army deal with the possible demonstrations? Is Israel security forces ready to shut the Palestinians down? What about activating emergency laws that allow the Israeli security forces to imprison Arabs and put them in new isolated areas? These are the questions that the Political and army analysts were trying to find answers for.

Others in the Israeli Media decided to go to Ramallah and report from its streets trying to calm down the Israeli public opinion that the streets are empty and no one cares for the Palestinian leadership Diplomatic battle at New York.
This is what Israel have been doing since sixty three years; making sure that it can control the security situation and can continue in directing the conflict rather than solving it. The only difference is that Prime Minister Netanyahu failed in directing the conflict smartly and this caused a public international exposure of his governments will and desire in settling more and more in the Palestinian occupied lands and erasing the Palestinian legacy in Jerusalem.

Israel does not understand until now that with every improvement it makes in its army, economic and desire to bring more Jews to live inside it, it is also increasing its chances of losing everyone in the area. Israel’s government still does not understand that it lost all of its historical allies in the area and is causing real damage to the picture of the its other allies outside the area. Israel is still convinced that only by maintaining the occupied Palestinian lands and putting its army forces on borders it will continue to enjoy a "guaranteed" security. This kind of security is the one that was broken thousands of times on all the sides of Israel’s borders.

Israel still does not understand the reason that keeps the Palestinians standing everyday despite all the obstacles that they have to face whether while standing in line to pass through a checkpoint that is run by Israeli teenagers soldiers who come to live their instable teen life while oppressing the Palestinians, or while having to live in an economy that is ruled by the will of the occupier and does not assure that the salary will be paid in the end of the month, or while living under-siege as in Gaza with food and life needs coming through tunnels, or by staying apart from the 11,000 Palestinian political prisoners, or while having to remember the yearly memorial of those who they lost and scarified their life’s.

The reason that Israel does not understand until this day the secret of the Palestinians determination is either because of the naivety of those who lead it or because of a denial status that Israel is living. To my mind, it is a denial status because in the field everything can be seen. This denial is the reason why Israel shows as if it does not care for the Palestinians’ bid for a state or continue its peaceful people struggle every week in the West Bank.

This denial cannot be a reason to prevent the Palestinians from seeking their freedom. No nation under occupation showed true intentions and readiness to compromise as the Palestinian people gave in the last eighteen years and the only response was more settlements in the West Bank and Jerusalem, a denial of the Palestinian right of return and responsibility of the occupation of expelling thousands of Palestinians who until now live in refugee camps and an Israeli determination to empower its war machines rather than investing in a real peace process.

For this reason, the International community must prove that it is a real authority that can lead in solving the case of an occupied people that has been suffering for sixty three years…For this reason the world must vote in favour of a Palestinian state and act to end an occupation that brought enough trouble for the world and will bring more disasters soon.

Sourcehttp://www.middleastpost.com/3387/sixty-years-occupation-israel-understand/

:: Article nr. 81605 sent on 21-sep-2011 04:49 ECT


www.uruknet.info?p=81605




:: The views expressed in this article are the sole responsibility of the author and do not necessarily reflect those of this website.

The section for the comments of our readers has been closed, because of many out-of-topics.
Now you can post your own comments into our Facebook page: www.facebook.com/uruknet

LE DIVINE “PROVVIDENZE” DI DON VERZÉ,
IL PRETE MANAGER CHE UNISCE DIO E MAMMONA


36293. MILANO-ADISTA. Ma chi è il prete 91enne (v. notizia precedente) che resiste al tentativo di “scalata” del card. Tarcisio Bertone? Don Luigi “Maria” Verzé (il “Maria” è una sua libera aggiunta), nato il 14 marzo 1920 a Illasi, vicino a Verona, è figlio di una nobildonna e di un agiato latifondista.

Sin da giovane, viene affascinato dalla figura e dall’opera di don Giovanni Calabria, fondatore delle congregazioni dei Poveri Servi e delle Povere Serve della Divina Provvidenza e di opere di assistenza a malati e poveri. Si laurea in Lettere classiche e Filosofia con p. Agostino Gemelli nel 1947 all’Università Cattolica di Milano e viene ordinato prete l’anno successivo, a Verona, ed entra nella Congregazione Poveri Servi della Divina Provvidenza, di cui diviene segretario. Su mandato di don Calabria, e con il consenso dell’allora arcivescovo di Milano, il card. Ildefonso Schuster, dà vita nella diocesi a diverse scuole di avviamento professionale per ragazzi di periferia e successivamente a case-albergo per anziani. Nel 1950 apre, sempre in collaborazione con don Calabria, un centro di assistenza all’infanzia abbandonata a Milano; successivamente, nel 1958, fonda l’Associazione Centro di Assistenza Ospedaliera S. Romanello (che nel 1993 diventerà Associazione Monte Tabor) con lo scopo di assistere i più deboli. I rapporti con la Curia però non sono facili. Fin dall’inizio Verzé cerca infatti di evitare qualsiasi intromissione o supervisione dell’autorità diocesana sulle sue opere e rifiuta di riservare alla Curia due posti nel CdA dell’Opera San Romanello. Anche per questa ragione, il 26 agosto del 1964 Verzé viene interdetto dalla Curia di Milano, guidata dal card. Giovanni Colombo con il divieto di esercitare l’attività pastorale sul territorio diocesano: un problema di natura squisitamente ecclesiastica. E giuridica. Verzé, infatti, era stato incardinato nella diocesi di Verona (è tutt’ora tra i presbiteri elencati nell’annuario diocesano). L’interdizione venne confermata anche negli anni successivi.

E se i rapporti con la Curia non sono buoni, in quello stesso periodo si deteriorano anche quelli con la Congregazione di appartenenza (don Calabria era morto nel 1954). Le loro strade si separarono.



Il “decollo” del San Raffaele

Ciononostante, il prete manager continua alacremente la sua attività e nel 1969 fonda il San Raffaele, il polo ospedaliero che avrebbe fatto la sua fortuna. Sono gli anni del sodalizio con Silvio Berlusconi, raccontati da Giovanni Ruggeri nel libro Berlusconi. Gli affari del presidente (Kaos, 1994). E sono soprattutto gli anni della Edilnord, l’azienda attraverso la quale Berlusconi aveva acquistato (settembre 1968) per oltre 3 miliardi di lire un’area di 712mila metri quadrati a Segrate, periferia orientale di Milano, su cui realizzare un quartiere residenziale, “Milano 2”, sul modello dei complessi residenziali olandesi. Lì vicino, Verzé aveva invece acquistato il terreno di 46mila metri sul quale era sorto il San Raffaele (la Fondazione Monte Tabor ha tuttora sede nella ormai famosa via Olgettina).

I due avevano un problema comune: il transito su quell’area degli aerei in partenza dall’aeroporto di Milano-Linate. Così, nel 1971 Verzé e Berlusconi, inoltrarono una petizione al Ministro dei Trasporti per salvaguardare la tranquillità degli abitanti di Milano 2 e i ricoverati del San Raffaele. Il 13 marzo 1973, racconta Ruggeri nel suo libro, si incontrano a Roma, presso Civilavia (amministrazione dell’aviazione civile del ministero dei Trasporti) «l’on. Carenini [ex parlamentare dc iscritto alla P2, considerato uno dei più attivi reclutatori della loggia di Gelli], esponenti del Cia [Comitato Intercomunale Antirumore che riuniva diversi comuni dell’hinterland milanese sensibili alle ragioni di Berlusconi e Verzé], i direttori dei quattro ospedali dei comuni settentrionali, funzionari del Ministero della Difesa responsabili dei controllo aereo, dirigenti dell’Alitalia, e don Luigi Verzé in persona. Secondo un esponente del Comitato antirumore segratese, nel corso di tale riunione vengono utilizzate carte topografiche per Segrate e Pioltello risalenti al 1848, per Milano 2 (edificata solo al 25%) complete come se la cittadella fosse già stata ultimata». Così, la direttiva Civilavia del 30 agosto 1973, stabilisce che «la nuova rotta di decollo ha la prioritaria cura di evitare l’area di Berlusconi-don Verzé».



Le grane giudiziarie

Nel 1976 don Verzé viene condannato a tre mesi di arresto per i lavori di ampliamento dell’Ospedale avviati senza licenza edilizia. Racconterà tempo dopo Panorama, sul numero del 14 maggio 1989: da anni «si trascina un contenzioso con gli abitanti di Milano 2 che si considerano “scippati”, come spiega Silvio Fontanelli, consigliere indipendente al Comune di Segrate, di una strada che avrebbe dovuto costeggiare il quartiere e che non verrà mai realizzata perché su parte di quel terreno sono stati eretti nuovi edifici dell’ospedale. “Costruzioni abusive”, specifica Fontanelli, “che anche dopo l’ultima ordinanza del pretore sono ancora lì. Quando si hanno i santi in Paradiso tutto è possibile”».

Il 3 marzo 1977, la Seconda Sezione Penale del Tribunale di Milano riconosce don Luigi Verzé colpevole di «istigazione alla corruzione», «per avere, quale Presidente dell’Ospedale San Raffaele, con atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre il dottor Rivolta, assessore alla Sanità della Regione Lombardia, a compiere atti contrari ai doveri del proprio ufficio, promesso di corrispondergli il 5% sull’ammontare del residuo contributo pari a L. 1.500.000.000 circa, quale corrispettivo della erogazione da parte dell’Ente Regione ad esso Verzé del predetto residuo contributo». Nella sentenza è scritto di «sorprendenti circostanze attraverso le quali l’ente di don Verzé era riuscito a ottenere la qualifica di “Istituto scientifico”» e anche che l’imputato era «strettamente legato agli ambienti della Democrazia Cristiana», e che aveva dimostrato di esercitare «una notevole influenza sulle pubbliche autorità».

Ma nessuno degli strascichi giudiziari scaturiti dalla vicenda Milano 2-San Raffaele approda a sentenza definitiva. Tra archiviazioni, stralci, rinvii a giudizio, ricorsi, assoluzioni, prescrizione di reati, Verzé si vede anche annullata (per prescrizione) la condanna in primo grado per tentata corruzione.

Berlusconi e Verzé nel 1990 tentano la scalata alla sanità veneta, cercando di mettere le mani, tra l’altro, sulla casa di cura privata “Città di Verona” (oggi Poliambulatorio Specialistico Verona) e sull’ospedale pubblico di Tregnago (Vr), per dar vita ad una sorta di “pool sanitario privato” ed avere così un controllo globale sulle numerose cliniche disseminate nel Veneto (v. Adista nn. 24 e 28/90).

Verzé ha anche tentato di accaparrarsi l’ospedale pubblico di Valeggio, unico centro in tutt’Italia specializzato nell’accrescimento osseo e molto quotato anche all’estero: contro l’iniziativa nasce però un comitato che raccoglie ben 20mila firme per salvare l’ospedale dalla possibile privatizzazione.

Verzé si rifà nel 2007 (dopo che l’anno precedente aveva inaugurato un poliambulatorio San Raffaele sul colle di San Felice, nella sua Illasi), quando ottiene di poter costruire un ospedale sul colle di San Giacomo, a Lavagno (Vr), in un parco collinare coltivato a vigneto. Il progetto, già analizzato dalla Regione, che ne ha modificato le volumetrie, limitando le altezze, ha già ricevuto il via libera alla sistemazione della viabilità, e comporta un investimento di 12 milioni di euro. La struttura sanitaria si estenderà su una superficie di ben 550 mila metri quadrati.

Filo conduttore di tutta l’azione imprenditoriale di Verzé, quello di sfatare il mito di cattolico, uguale privato, cioè per pochi e per ricchi. Il prete manager ha perseguito questo obiettivo stipulando convenzioni con la sanità pubblica che gli consentissero di effettuare prestazioni di eccellenza a costi molto contenuti, potendo godere di consistenti rimborsi da parte della Regione. Lo sanno bene in Lombardia, dove le strutture di don Verzé costano, tra degenze convenzionate, prestazioni ambulatoriali e rimborsi per farmaci, più di 400 milioni di euro l’anno.



Arrivederci Roma

Non dappertutto, però, questa tattica ha funzionato, come testimonia il tentativo di “sbarco” del San Raffaele a Roma. Nel 1983 Verzé acquista ad un’asta fallimentare un albergo abbandonato nella zona di Mostacciano, tra il Raccordo Anulare e la Pontina. Nel giro di una decina d’anni l’edificio viene completamente ristrutturato e trasformato in ospedale ed è pronto ad ottenere il riconoscimento dalla Regione per poter operare in convenzione con la Sanità del Lazio e a stipulare un accordo per diventare polo universitario. È il 1997 e tutto sembra fatto: l’allora rettore della Sapienza, Giorgio Tecce (da cui dipende il Policlinico Umberto I), è d’accordo, il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer firma il decreto che accredita il San Raffaele come seconda facoltà di Medicina di Roma, dopo l’Umberto I. Don Verzé ha già investito 400 miliardi e fatto assumere 150 persone. Ma tutto si blocca. Le convenzioni con la sanità regionale non arrivano. Il presidente del Lazio, il cattolico di sinistra Piero Badaloni, non firma. Anche per le pressioni del ministro della Sanità Rosi Bindi (una «statalista sovietica» secondo il vulcanico prete veronese), che vuole evitare che la sanità del Lazio subisca un processo di privatizzazione. Per Verzé si tratta di resistenze cattocomuniste, figlie della «sinistra cattolica dossettiana e lapiriana, giustizialista e autoritaria». In realtà sull’operazione serpeggiava più di qualche perplessità (e malumore) anche in Vaticano, che non gradiva la concorrenza del nuovo ospedale al Policlinico Gemelli. Alla fine, il San Raffaele di Roma passa agli Angelucci che poi lo rivendono allo Stato.



L’università della trasversalità

Nel 1996 all’Ospedale San Raffaele si affianca una nuova “creatura”: l’Università Vita-Salute San Raffaele, di cui Verzé diviene rettore. Il San Raffaele era stato fino ad allora uno dei poli ospedalieri convenzionati con l’Università degli Studi di Milano; con il nuovo ateneo don Verzé rende invece autonoma la formazione dei propri studenti di Medicina. In seguito introdurrà anche le Facoltà di Filosofia e Psicologia. Ad insegnare nella sua Università, il prete manager chiama intellettuali laici e cattolici anche di orientamento variamente progressista, per rafforzare l’immagine d’avanguardia culturale e religiosa, ponte tra culture diverse, che il San Raffaele (e il suo fondatore) ama offrire di sé: tra essi, solo per citare alcuni nomi, Massimo Cacciari, Vito Mancuso, Roberta De Monticelli, Emanuele Severino, Enzo Bianchi.

Del resto, Verzé ha sempre rivendicato la sua “trasversalità”, è sempre stato abilissimo nell’intessere relazioni, reperire fondi, garantirsi linee di credito con le banche, mantenere agganci nel mondo politico ed istituzionale. In tutte le aree politiche: amico di Fidel Castro e Gheddafi, vicino agli andreottiani ed alla destra dc, amico di Bettino Craxi e di Berlusconi, recentemente Verzé ha flirtato anche con Nichi Vendola. E anche all’interno della Chiesa ha sempre fatto il battitore libero. Spiccatamente di destra per quanto riguarda il rapporto tra pubblico e privato e la libera iniziativa ed il giudizio sul valore del denaro e dell’imprenditoria, coltiva però da diversi anni l’amicizia di uno dei leader del cattolicesimo “conciliare”, il card. Carlo Maria Martini, con il quale ha anche scritto un libro (Siamo tutti nella stessa barca, editrice San Raffaele, 2009). E non di rado, specie sui temi “eticamente sensibili”, ha assunto posizioni di “rottura”. All’epoca del referendum sulla legge 40, nel 2005, Verzé si espresse in modo del tutto difforme dalla linea decisa dal card. Camillo Ruini, che puntava a boicottare la consultazione attraverso l’arma dell’astensione. Alla vigilia del voto, Verzé concesse un’intervista al Corriere della Sera, in cui alla domanda se un cattolico poteva votare sì, rispose: «Se è un cattolico libero avverte la responsabilità di quel che fa, ha vera consapevolezza di sé e del valore del suo sé, in teoria potrebbe». Del resto, al San Raffaele la fecondazione assistita è stata sempre praticata. Dopo l’intervista, Avvenire reagì duramente. Il Vaticano si mosse. E Verzé, caso piuttosto eccezionale, alla fine si piegò. E si “spiegò” con un’intervista riparatrice al quotidiano dei vescovi in cui chiariva: «Cosa farò il 12 giugno? Mi asterrò».

Nel 2006 Verzé tornò alla carica, annunciando di aver “staccato la spina” a un amico malato. E il 3 settembre 2010 pubblicò sul Corriere della Sera un articolo, intitolato “Se fossi Papa”, in cui enunciava il suo programma: andare a vivere in Africa, discutere di procreazione assistita, sacerdozio femminile e contraccezione, far eleggere i vescovi dal popolo, eliminare i cardinali «e tutte le disparità dal sapore feudalesco». (valerio gigante)


martedì 20 settembre 2011

Líbano: Se recuerdan 29 años de la masacre de Sabra y Chatila
Global Voices / OICP
Ver mas Noticias
2011-09-20
El 16 de septiembre de 2011, se cumplieron 29 años del momento más penoso en el conflicto árabe-israelí, que ya dura seis décadas - la masacre de Sabra y Chatila.

En este día en 1982, milicianos falangistas libaneses con respaldo israelí (en árabe: al-Kataeb) entraron a los campos de refugiados palestinos de Sabra y Chatila en Beirut Occidental, y masacraron a su voluntad. No tomaron en cuenta ni la edad ni el sexo, pues los ancianos, las mujeres, los niños, incluso niños menores de dos años, fueron presa fácil.

La cifra de muertes nunca se verificó, varía entre 800 y 3,500, lo que da testimonio de la destrucción causada por los falangistas pues algunos cuerpos nunca vieron la luz.

La masacre ocurrió durante la vigilancia de las Fuerzas de Defensa israelíes, que en ese tiempo habían adquirido el control de Beirut Occidental, cuidaban las entradas de los campos, y bengalas encendidas durante la noche dieron visibilidad a sus aliados libaneses.

Una investigación israelí, la Comisión Kahan, encontró personalmente responsable al entonces Ministro de Defensa de Isarel, Ariel Sharon, y recomendó su renuncia al gobierno israelí.

La blogósfera se vio llena de tributos a las víctimas de la masacre.

Aunque la memoria de Sabra y Chatila está ampliamente difundida en los medios sociales, la blogósfera libanesa se mantuvo mayormente en silencio acerca de la masacre.

Como con toda la Guerra Civil Libanesa, muchos libaneses han adoptado un aire de olvidadizo silencio, como es evidente por la casi completa elusión del tema del aniversario de Sabra y Chatila en la blogósfera.

Para muchos libaneses, la Guerra Civil y sus atrocidades siguen siendo un oscuro recuerdo que nunca se menciona, se evitan las heridas.

Más bien, la vida sigue normal, ignorando los crímenes en contra de la humanidad que alguna vez se llevaron a cabo en suelo libanés.

Como tal, ningún ejecutor libanés de la masacre de Sabra y Chatila, ni ninguna masacre de la Guerra Civil Libanesa ha comparecido ante la justicia.

domenica 18 settembre 2011

La carica dei 101.

101 sono gli alunni della (ex) scuola di Piazza Municipio.

L’azione di lotta portata avanti dal comitato dei genitori degli alunni di piazza Municipio nell’imminenza dell’inizio dell’anno scolastico, si tinge di tinte fosche. Sabato 17, nell’ambito delle celebrazioni del XXVI Premio Letterario “G.Dessì” i genitori e i loro figli, assieme a semplici cittadini, sfilavano pacificamente con i loro striscioni per la via Roma. Arrivati in Piazza XX Settembre, dove erano in corso cerimonie legate al Premio, si fermavano esponendo i loro striscioni. Uno di questi veniva appeso a una finestra del Monte Granatico, proprio in faccia alla tribuna allestita per la cerimonia stabilita. Il tutto nella massima tranquillità e correttezza. Ebbene, la notte, i soli ignoti hanno provveduto a bruciare lo striscione che, la domenica successiva, appariva ridotto a resti bruciacchiati ai piedi dell’antico muro. Azione di teppistelli del sabato sera? Dal muraglione erano anche scomparsi gli striscioni che pendevano davanti alla piazza…

Domenica 18 è una giornata importante: si svolge la cerimonia di premiazione dei finalisti del Premio Dessì. Ma i soliti rompiscatole del Comitato intervengono a creare ombre nel “paese d’ombre”. Li ritroviamo infatti con i loro striscioni nella Piazza XX Settembre, muti e pacifici, armati solo della loro presenza fisica e degli immancabili striscioni. Molti erano imbavagliati: niente chiasso, niente slogan, niente altoparlanti. Solo una muta presenza. Stranamente i vigili urbani, così assenti nella normalità quotidiana, oggi sono presenti. Anche i carabinieri. Si nota subito un crocicchio di genitori e vigili urbani, si colgono frasi minacciose rivolte ai genitori, si parla di corteo non autorizzato, di possibili denunce, di schedature della DIGOS. Nientemeno! I vigili, non i carabinieri, hanno intimidito e minacciato pacifici cittadini che, senza proferir parola hanno sfilato manifestando solamente il loro pensiero! A questo punto sarebbe d’obbligo, per tutti,chiedersi qualcosa sull’operato intimidatorio dei vigili urbani e sapere dove il loro sproloquio voleva andare a parare. Qui prodest? Direbbero i latini…



Gian Paolo Marcialis


venerdì 16 settembre 2011

da L’Espresso

Armamenti, la super casta

di Silvia Cerami
Al costo di un cacciabombardiere F-35 si potrebbero realizzare 183 asili nido per settanta bimbi, stipendi per insegnanti compresi. L'Italia ne ha appena comprati 131: di cacciabombardieri, non di asili. Per non parlare del piano Eurofighter e dei sommergibili. Una per una, le cifre di un Paese che taglia su tutto ma non sulla guerra
(13 settembre 2011)
Ottanta milioni di euro di spese militari al giorno, pari a 500 dollari pro-capite. Oltre 600 generali, 2 mila e 700 colonnelli, 13 mila ufficiali, quasi 26 mila sottoufficiali e ben 70 generali di corpo d'armata, più del doppio dei corpi d'armata: una massa sterminata di dirigenti con ricchi stipendi a guidare un numero sempre più esiguo di soldati. Una spesa per armamenti che cresce senza freni e non conosce crisi. Un sistema, quello dell'industria bellica nazionale, che è immune dai tagli della manovra. Se in Germania, la cancelliera Angela Merkel, ha ridotto, già dal 2010, le spese per armamenti di 10 miliardi, in Italia il governo non ne vede la necessità.
Sono questi i dati che emergono dal dossier realizzato dalla Federazione dei Verdi. "Molto di più di quanto denunciato da padre Zanotelli", sottolinea il presidente Angelo Bonelli. "Perché secondo i documenti ufficiali, il volume finanziario complessivo a disposizione del ministero della Difesa è pari a 20 miliardi e 494,6 milioni di euro, nel 2011, a 21 miliardi e 16 milioni di euro, nel 2012, e a 21 miliardi e a 368 milioni di euro, nel 2013. Ma una parte consistente delle spese per l'acquisto degli armamenti è iscritta nei bilanci del ministero dello Sviluppo economico. A quanto ammontino i "fondi-stampella" dello Sviluppo economico le carte ufficiali però non lo dicono: sono circa 900 milioni per il 2011, rispetto ad almeno 1.200 milioni degli anni precedenti, secondo una stima che circola tra esperti della difesa".
"Il governo" - denuncia Bonelli - "non ha pubblicato un quadro trasparente di tutta la spesa e a questi vanno aggiunti il miliardo e mezzo di tutte le missioni". Soldi quasi sempre investiti senza gare d'appalto in nome della sicurezza nazionale, alimentando così un sottobosco di subforniture e di contratti segreti. Il governo Berlusconi, in tempi di crisi drammatica, ha messo a budget l'acquisto di 131 nuovi cacciabombardieri Jsf/F-35, al modico costo unitario di oltre 114 milioni di dollari l'uno, ma non solo.
L'elenco è ricco: l'ultima trance del programma per il caccia Eurofighter costerà all'Italia 5 miliardi di euro, senza considerare i 13 miliardi di euro già pagati. Poi ci sono gli otto aerei-robot Predator senza pilota da comprare per la cifra di 1,3 miliardi di euro. E ancora i 100 nuovi elicotteri militari NH-90 che peseranno sulle nostre tasche 4 miliardi di euro.
E non manca la difesa via mare, con due sommergibili che saranno acquistati per 915 milioni e 10 fregate "FREMM" da ottenere per soli 5 miliardi di euro: quest'ultimo è l'unico programma silurato dalla manovra che ha "affondanto" quattro delle navi.
Ma il capitolo più impressionante è quello della digitalizzazione: Forza Nec, una rete di comunicazione satellitare che unirà i mezzi di terra, mare e cielo in un solo network. Solo la progettazione costa 650 milioni, quanto alla spesa complessiva è stimata intorno ai 12 miliardi. Servirà mai a qualcosa?
C'è chi sostiene che non siano spese ma investimenti, che creano un ritorno in occupazione qualificata e ricerca tecnologica. Ma in una stagione di tagli a servizi primari per i cittadini, questo bilancio bellico da superpotenza appare mostruoso. E se la nostra industria militare ha vissuto una stagione d'oro - con blockbuster sui mercati come il veicolo tattico Lince o l'elicottero d'attacco A-129 Mangusta - la cronaca giudiziaria racconta come i contratti abbiano alimentato un sistema di potere parallelo.
Vicende come l'accordo panamense con sei pattugliatori navali "donati" a Panama grazie all'intercessione di Valter Lavitola nella sua veste di consulente Finmeccanica. Un regalo da cinquantina di milioni di euro che è stato prontamente inserito nelle maglie di due decreti per il rifinanziamento delle missioni all'estero. "A conti fatti, solo con la scelta di tagliare i nuovi programmi per l'acquisto di armamenti, si potrebbero risparmiare circa 43 miliardi di euro" fa notare Bonelli. E in effetti, con il costo di un solo cacciabombardiere F-35 si potrebbero realizzare 183 asili nido in grado di accogliere settanta bimbi, con stipendi per insegnanti compresi. Insomma un solo jet risolverebbe il problema delle liste di attesa negli asili nido solo a Roma o potrebbe garantire l'indennità di disoccupazione a 15.000 precari.
"I Verdi stanno raccogliendo le firma su una petizione popolare per il taglio delle spese militari" annuncia Bonelli, perché "la politica non può continuare a far finta di non vedere che la spesa militare aumenta esponenzialmente mentre si tagliano le garanzie sociali." E l'invito, riprendendo le parole dell'amato presidente Sandro Pertini, è quello di "Svuotare gli arsenali e riempire i granai".
L’esecuzione di Vittorio Arrigoni

e i brutti ambienti nostrani

Scritto da lia | Pubblicato: 26 agosto 2011

C’è questa cosa che non mi tolgo dalla testa, da quando Vittorio Arrigoni è morto, e ne ho parlato con un mucchio di gente – gente vicina alla causa palestinese, ovviamente – sperando di essere tranquillizzata e di vedere smontati i miei ragionamenti, e invece no. Perché sono pensieri su cui vorrei avere torto, i miei, e quindi sarò grata a chi volesse convincermi della loro infondatezza.

Qualche data, intanto.
Partiamo dal fatto che Vittorio ci aveva vissuto per tre anni, a Gaza, durante i quali aveva avuto ottimi rapporti con tutti, a cominciare dal governo di Hamas.
Le cose cominciano a cambiare, almeno pubblicamente, verso gennaio di quest’anno, con la sua decisa presa di posizione a favore del movimento giovanile
che, in modo analogo a quanto va succedendo in Egitto, comincia ad emergere a Gaza.

Scendere in piazza è troppo pericoloso a Gaza, se non piombano bombe dal cielo, piovono manganelli da terra. Fustigati da un governo interno che soffoca i diritti civili basilari, frustrati dal collaborazionismo criminale di Ramallah che viene a patti coi massacrati d’Israele, delusi e defraudati da una comunità internazionale lassista e compiacente coi carnefici, il grido cibernetico di questi ragazzi coraggiosi sta raccogliendo sempre più consensi a livello globale, a giudicare dai commenti sulla loro pagina web che si susseguono istante dopo istante da ogni dove.
Qualcuno mi ha chiesto dall’Italia se conosco le identità degli autori de Il Manifesto. Certo che li conosco. Sono la stragrande maggioranza degli under 25 che a Gaza incontri nei caffe’, al di fuori dell’università, per strada con le mani nelle saccocce vuote di soldi, di impieghi, di prospettive per l’avvenire ma gonfie di lutto e rabbia sottaciuta. Che adesso hanno manifestato.

A febbraio, mentre segue con entusiasmo e trepidazione le vicende dell’Egitto, Vittorio racconta l’aria che tira a Gaza:

anche nella Striscia mi deprime riportare come Hamas soffochi le spontanee dimostrazioni di appoggio all’intifada egiziana.
Durante un sit in nel centro di Gaza city dedicato alla situazione in Egitto, lunedi’ scorso 8 ragazzi e 6 ragazze sono stati arrestati e condotti in una stazione dove polizia, dove una delle ragazze, Asmaa Al-Ghoul, nota giornalista locale, è stata ripetutamente percossa.
Fra gli arrestati lunedi’ anche il traduttore dell’International Solidarity Movement: Mohammed AlZaeem. Mi sono recato personalmente a intercedere per la sua liberazione presso l’autorità locale, e l’ufficiale di polizia responsabile della sua detenzione ha confermato i miei sospetti sulle ragioni per cui le uniche manifestazione consentite qui sono quelle organizzate dal governo. Al centro agli interrogatori subiti dagli arrestati la richiesta incessante e opprimente di informazioni sull’identità del nuovo acerrimo nemico di tutti i governi arabi: Facebook.
Laddove serpeggia dello scontento, i moti prima tunisini e ora egiziani potrebbero rappresentare l’esempio per insurrezioni anche in Palestina, internet e i social network, la miccia per questa possibile deflagrazione.

Il 9 marzo, Arrigoni insiste:

Addirittura alcuni da fuori dalla Striscia hanno accusati i GYBO di essere a libro paga di Abu Mazen e la sua cricca di collaborazionisti; intellettuali e attivisti seduti nei loro confortevoli salotti che non si sono mai sporcati mai le mani del sangue e della sofferenza di un popolo in perenne lotta contro l’occupazione,e che non si scomodano neanche di approfondire le questioni sui qui discettano con la protervia dell’onniscenza.

Con chi ce l’ha, Arrigoni? Con un certo ambiente propalestinese italiano, tra gli altri.
Quello che vedo io, in una newsletter che seguo, è l’accorato appello della curatrice di un’agenzia di stampa molto vicina ad Hamas che invita a non fidarsi dei GYBO: “Le nostre fonti a Gaza ci dicono che dietro quest’organizzazione c’è qualcosa di molto losco e inquietante“. Israele, si suppone.

Meno subdolo e più pasticcione, quella vecchia conoscenza di questo blog che è il Campo Antimperialista parte a testa bassa:

Se questo cosiddetto manifesto rappresenta i giovani di Gaza c’è da mettersi le mani sui capelli. Per fortuna non è così.
Infatti, lo confessiamo, a noi sono sorti fortissimi dubbi sull’autenticità di questo Manifesto, che sembra uscito, non da Gaza, ma da qualche smandrappata riunione no-global italiana. Al di là del contenuto, ripetiamo, inaccettabile, colpisce lo stile occidentalissimo, anzi italianissimo del testo.

Chi sarebbe il no-global? Chi avrebbe mai potuto scrivere con uno stile “italianissimo”, a Gaza? Evidentemente, il campo Antimperialista insinua che il manifesto dei GYBO lo abbia scritto Arrigoni stesso.

Gli attacchi del Campo Antimperialista ai GYBO e ad Arrigoni continuano e, alla fine, lui risponde con un articolo in cui, oltre a farli a pezzetti, scrive una frase che, quando io la lessi, mi diede qualche brivido:

Di sicuro c’è che affibbiare così dissennatamente ai giovani GYBO l’etichetta dei collaborazionisti d’Israele, non e’ uno scherzo, ma un pericolo serio per l’incolumità a Gaza di quei ragazzi mossi da intenti lodevoli sebbene ancora acerbi.

Già.
Il fatto è che in quei giorni – siamo a metà marzo – buona parte dell’ambiente propalestinese italiano desidera fortemente credere che questi giovani gazawi che sfidano Hamas siano “loschi”, come diceva quell’altra, e che a mettere Hamas sul banco dei cattivi non possa essere che Israele.
Perché? Perché la gente normale è semplice e vuole che i buoni e i cattivi siano ordinatamente disposti in file opposte. E perché la gente meno normale, i professionisti della causa araba in Italia, poco se ne fotte dei popoli che dice di difendere e molto se ne importa, invece, delle proprie agende politiche più o meno manifeste.
In questo clima, l’unico motivo per cui l’equazione GYBO=collaborazionisti non sfonda, nell’ambiente, è la voce di Arrigoni stesso. Che una credibilità ce l’ha, in quei circuiti, e fare passare per collaborazionista anche lui è impossibile.
Per quante allusioni si facciano allo stile “italianissimo” del manifesto GYBO.

Il 17 marzo, Vittorio racconta ciò che è successo alla manifestazione dei GYBO:

Meno di un’ora dopo Hamas decideva di terminare la festa a modo suo: centinaia di poliziotti e agenti in borghese hanno accerchiato l’area, e armati di bastoni hanno assaltato brutalmente i manifestanti pacifici,dando alle fiamme le tende e l’ospedale da campo.
Circa 300 i ragazzi feriti, per la maggior parte donne, una decina con fratture. Per tutta la notte di ieri fuori dall’ospedale Al Shifa, nel centro di Gaza city, poliziotti arrestavano i contusi mano a mano che venivano rilasciati dal pronto soccorso.
Molti gli attacchi ai giornalisti, ai quali sono stati confiscati telecamere e macchine fotografiche. Ad Akram Atallah, giornalista palestinese è stata spezzata una mano. Samah Ahmed, giovane collega di Akram, è stata colpita da un fendente di coltello alle spalle. Asma Al Ghoul, nota blogger della Striscia è stata ripetutamente percossa dagli agenti in borghese mentre cercava di soccorrere l’amica ferita.
Le forze di sicurezza di Hamas hanno convogliato l’attacco nel centro della piazza Katiba, dove si concentrava il presidio delle donne, figlie e madri di una Gaza che hanno conosciuto la gioia della speranza di un cambiamento, per poi risvegliarsi alla cruda realtà dopo un breve sogno.

È a quel punto che io scrivo ad Arrigoni scusandomi per avere pensato a lungo che lui fosse organico a certi ambienti, e che lui mi risponde dicendomi che avevo preso una bella cantonata e che lui, con i “professionisti del dramma palestinese”, non ha nulla da spartire.

La freddezza di certi nostri ambienti suppostamente pro-arabi nei confronti delle rivolte giovanili in Medio Oriente è visibile, palpabile. Non è che siano in molti, da noi, ad avere le posizioni che Vittorio sta manifestando, e a me basta per essere certa della sua onestà intellettuale.

Che lui stia cercando di descrivere ciò che vede a Gaza con la maggiore obiettività possibile, a costo di alcuni travagli politici e, suppongo, personali, è di nuovo evidente il 23 marzo:

Hamas che non sparava più un colpo contro obbiettivi israeliani da mesi, che in pratica aveva disarmato la sua resistenza e continuamente tramite il premier Ismail Hanye invitava le altre fazioni a fare altrettanto, decideva questo nuovo attacco mentre a Gaza city la sua polizia reprimeva nel sangue le manifestazione pacifiche dei giovani di Gaza per la fine delle divisioni, assalendo brutalmente anche i giornalisti di testate straniere come Reuters, France Television e Associated Press (secondo quanto denunciato dall’autorevole PCHR), e soprattutto, contemporaneamente ai primi contatti fra rappresentanti del governo di Gaza e Fatah col preciso intento di avvicinare le parti verso l’unità nazionale.
Evidentemente, questi eventi concatenati dimostrano come vi è una forte frangia all’interno di Hamas che lavora assiduamente affinché le divisioni interpalestinesi restino così come sono.

Il 14 aprile, Arrigoni viene rapito e strangolato subito dopo.

Cosa è successo quindi?

C’è tanta gente, tra le persone che frequento, che sostiene che Israele abbia messo il suo zampino in quest’esecuzione. Io non ci credo, visto che 1) avrebbero potuto farlo mille volte prima, per tre anni. Che senso aveva programmare un’operazione simile, all’interno della Striscia, e giusto mentre Vittorio stava facendo fare ad Hamas una figura quantomeno discutibile? 2) Non so quanto Vittorio fosse effettivamente un pericolo, per Israele. I suoi interlocutori erano antisionisti in partenza, non era – per stile di scrittura, per modo di porsi – uno che facesse cambiare idea alla gente. Io credo che Israele tema molto di più chi si rivolge agli ignavi che coloro che, in qualche modo, predicano ai convertiti. Triste, ma è così. 3) L’operazione politica che Israele ha portato avanti nei confronti della Flotilla sarebbe stata uguale, identica, anche con Arrigoni vivo. Non sarebbe cambiato nulla.
No. Decisamente non credo che Israele avesse interesse a fare uccidere Arrigoni.

Io temo che sia successo qualcosa di molto più tremendo e di infinitamente più stupido. Temo che dall’interno della galassia filopalestinese italiana sia partito qualche messaggio “alle nostre fonti di Gaza“, a un qualsiasi interlocutore dell’islam politico militante. Qualcosa del tipo: “Noi ci stiamo provando, a isolare questi GYBO, ma Arrigoni ce lo impedisce”.

E credo che, in un ambiente paranoico come quello di Gaza, simili messaggi abbiano potuto avere delle conseguenze più tragiche di quanto gli idioti nostrani si aspettassero.


Perché la frase di Vittorio – “Di sicuro c’è che affibbiare così dissennatamente ai giovani GYBO l’etichetta dei collaborazionisti d’Israele, non è uno scherzo, ma un pericolo serio per l’incolumità a Gaza” – era vera, e valeva anche per lui.
Soprattutto per lui, anzi. Con i suoi tatuaggi (proibiti dall’islam), con il suo essere comunque uno straniero in una terra che, lo ripeto, è – con tutte le ragioni del mondo – estremamente paranoica.


Io ho paura che Vittorio sia morto perché qualche demente, dall’Italia, abbia fatto circolare in certi ambienti di Gaza l’idea che potesse essere pericoloso per la causa.


Sarei molto, molto felice di sbagliarmi. Perché mi fa persino paura, questa cosa.


Questo articolo è stato pubblicato in Egitto e Medio Oriente, Patria (matrigna?), Rossobruni e altri tipacci e ha le etichette brutta gente, Campo Antimperialista, islamisti, Medio Oriente, Palestina, rossobruni, terrorismi, Vittorio Arrigoni. Aggiungi ai preferiti: link permanente. Scrivi un commento o lascia un trackback: Trackback URL.

giovedì 15 settembre 2011

A mani nude contro i dittatori: gli attivisti, le rivolte arabe e le nostre responsabilità
Contrasto_spring_arab.jpg
di Domenico Chirico - direttore Un ponte per...
Abdualldhi al Kawahiaj è un giovane avvocato. Ha fondato un’associazione per i diritti umani in Bahrein e da ormai alcuni anni vive in Europa, dove lavora per l’organizzazione Frontline. In Irlanda Abdhulladi segue i casi di molti attivisti per i diritti umani, così come di tutti quei giornalisti ed esponenti politici che nel mondo arabo svolgono quotidianamente una pacifica opera di opposizione ai loro regimi. Attivisti che spesso lavorano nell’ombra, correndo quotidianamente il rischio di essere arrestati. Abdhualldi è più di un avvocato. Lui li segue uno ad uno, con continue telefonate e incontri, ospitandoli nella sua casa irlandese nel momento in cui la loro vita diventa insostenibile. Quando all'inizio del 2011 la situazione del Barhein è esplosa e migliaia di persone sono scese in piazza, Abdhulladi si è precipitato in patria, per diventare anche lui protagonista della rivolta pacifica che stava inondando le piazze del Regno. Poco dopo è stato arrestato e rinchiuso in una cella. La rivolta è finita nel peggiore dei modi possibili: la comunità internazionale gli ha voltato la faccia e l’esercito della vicina Arabia Saudita ha represso nel sangue le manifestazioni. I leader dell’opposizione sono stati rinchiusi in prigione.
Hadi al Mahdi era un popolare giornalista radiofonico, tra i primi a guidare le manifestazioni di piazza a Baghdad lo scorso marzo. Hadi è stato ucciso brutalmente nella sua casa. Come molti altri giornalisti iracheni è sempre stato estremamente critico rispetto alla corruzione dilagante nel paese ed è forse per questo che ha pagato il prezzo più caro. Nonostante i suoi ripetuti appelli per la pace e per le proteste non violente è stato arrestato e torturato dopo le manifestazioni di marzo. Torture ampiamente documentate da Human Rights Watch. Prima del suo assassinio, Hadi stava organizzando le manifestazioni di piazza del venerdì ed aveva tenuto a precisare che non era legato a nessun partito, ma solo all’esigenza di lottare per pace e la giustizia sociale nel suo paese. Nei giorni precedenti aveva denunciato le molte minacce ricevute e le telefonate con cui tentavano di dissuaderlo dall’organizzare la manifestazione di venerdì scorso. Ma lui stesso aveva scritto sul suo profilo face book che era stanco di vedere tanta ingiustizia, dopo anni di ricostruzioni e fiumi di denaro che hanno arricchito pochi, lasciando il paese in condizioni precarie.
Ali Ferzat è uno dei più noti vignettisti del mondo arabo. Ed è per questo che la notizia del violento attacco che ha subito ha fatto il giro del mondo. Forze di sicurezza probabilmente legate al governo siriano hanno provveduto a rapirlo e a spezzargli le mani. Con metodi che ricordano il peggior fascismo. A molti attivisti di Damasco è sembrato un chiaro segnale verso il mondo laico siriano, che si è unito alle manifestazioni che vanno avanti dalla fine di marzo. Manifestazioni che ad oggi, secondo le Nazioni Unite, hanno causato circa 2700 vittime. La repressione del regime di Assad è stata violenta ed ha fatto guadagnare consenso alle prime manifestazioni.
Le storie degli attivisti che si sono esposti nelle rivolte arabe degli ultimi mesi sono molte di più. Da Damasco a Tunisi, le persone non hanno più paura: scendono in strada, parlano di politica, organizzano manifestazioni e riunioni politiche. In modo prepotente è emersa una voglia di libertà e partecipazione e le interpretazioni che spesso si danno in Occidente rischiano di essere involontariamente orientaliste, alla disperata ricerca di un mandande occulto delle manifestazioni. Come se queste persone non abbiano potuto scegliere autonomamente, a rischio della propria vita, di protestare e di farlo con tutta la loro voce.
E’ chiaro, come già è evidente in Egitto, che saranno le forze moderate, se non conservatrici, a beneficiare dei cambi di regime. Ma è anche chiaro a chi osserva da lontano che è necessario essere vicini e solidali, ogni giorno, a tutti quegli attivisti che si sono uniti alle proteste contro le dittature. Piuttosto che chiederci chi sarà a beneficiare delle proteste, ci dovremmo domandare in ogni momento come proteggere gli attivisti nelle piazze. Come informare al meglio sul loro lavoro e come creare meccanismi di protezione efficaci. Durante le guerre nei Balcani molti stati europei scelsero di aprire le loro frontiere ai profughi e molti si salvarono. Durante le rivolte arabe i governi europei hanno scelto di chiudere le frontiere. E lasciare gli attivisti al loro destino. Il paradosso è che questi attivisti, rischiando le loro vite, ci guardano come modelli di libertà e giustizia. Anche per la retorica sui diritti umani "importata" con programmi e interventi umanitari. Ed ora il destino di ognuno di loro dovrebbe essere, anche, una nostra responsabilità.
Foto: Il Cairo, gennaio 2011 - Piazza Tahrir - Migliaia di Egiziani protestano nella piazza principale della città, fulcro della rivolta egiziana, sventolando cartelli e striscioni e chiedendo le dimissioni del Presidente Hosni Mubarak. Antonio Zambardino/CONTRASTO
The Decade of 9/11: war without end
The wars that have defined the last decade, better represent the actions of an Empire not a Republic, says scholar.
Last Modified: 11 Sep 2011 09:18
Listen to this page using ReadSpeaker
The Afghanistan and Iraq wars, developed into occupations that have traversed the timeline of the presidencies of both G W Bush and Barack Obama [GALLO/GETTY]
"We support your war of terror," proclaims Borat to a cheering crowd of Americans in a stadium, in the popular Sacha Baron Cohen film. The crowd apparently thinks he got the preposition wrong, but what makes the line darkly humorous is that he didn't.
Most of the victims of America's wars that are supposedly "against terror" have been civilians, and torture has also been deployed as a weapon. Civilians in Pakistan are killed on average every week in drone strikes, according to a recent report from the Bureau of Investigative Journalism, and also regularly in Afghanistan in "night raids."
And sometimes they are just shot point blank, as in March 2006 when US soldiers reportedly executed at least 10 civilians, including a 70-year old woman and a 5-month old baby, and then called in an airstrike to bomb the house and cover it up. A recently discovered US diplomatic cable from Wikileaks provides evidence of this crime. Iraq veteran Ethan McCord says that killings of civilians by US forces was "standard operating procedure" while he was deployed there.

I grew up during the Cold War, and my elementary school teachers told me that the difference between us and the Communists was that they thought the end justifies the means, but we didn't. It wasn't true then, of course – American armed forces in Vietnam bombed villages, slaughtered civilians, and threw people out of helicopters. But at least our leaders had to pretend that they had some moral superiority to their enemies.
Now we have seen torture and assassination institutionalised and justified at the highest levels. New crimes are continually uncovered: Documents recently captured by Libyan rebels indicate that Washington was sending prisoners to Gadaffi's government for interrogation, i.e. torture.
The 9/11 attacks left 3,000 people murdered and a nation in shock [GALLO/GETTY]
So that is one of the casualties of 9-11, in addition to the 3000 people brutally murdered on that fateful day in 2001: a moral degeneration among our political leaders who, it must be acknowledged, were already at a low level when it came to respect for human life in the rest of the world. But the world should know that the views presented by our major media and politicians do not necessarily reflect the consent of the governed. In a recent poll conducted by the Pew Research Center , the public was evenly divided on the question of whether the 9/11 attacks may have been the result of our foreign policy.
This is especially impressive because it means that nearly half the country came up with this idea on their own, as it has been scrupulously avoided in ten years of media blather about "how 9/11 changed the world." If we had anything approaching a reality-based media, that number would probably be upwards of eighty per cent. Only a quarter of those surveyed by Pew thought that the wars had made Americans safer; the majority thought the wars increased the chance of terrorist attacks or made no difference.

According to recent polls, a majority of Americans think that the US should not be fighting in Afghanistan; a majority thinks that the US should withdraw its troops as soon as possible, and two-thirds say the threat of terrorism will stay the same when the US withdraws its troops.
Winds of change
The most important way that 9/11 changed the world, as tens of millions of Americans understand, is that it provided an over-arching theme and a rationale for the kinds of military adventures, invasions, bombings, interventions and atrocities that our government had previously carried out under other pretexts. For half a century the "war against Communism" served this purpose.
It didn't matter that governments overthrown in Iran, Chile, Guatemala or elsewhere had no connection to the Soviet Union; or that the Vietnamese were fighting for their own independence. It was an excuse, with a whole world view that shaped the country's most important institutions, and it provided a justification for empire.

Then came that awkward decade after the Berlin wall fell and Washington had to rely on ad hoc excuses, as in the invasion of Panama or the first Iraq War. People like Vice President Dick Cheney knew immediately after the towers went down that this was not just a tragedy but an opportunity that would serve their interests for years to come, beginning with the unnecessary wars and occupations of Afghanistan and Iraq.
"Knowing what we knew then, were we wrong to support the [Iraq] war?"
Bill Keller, executive editor of the New York Times
But it was the more liberal "enablers," especially in the media, that made everything possible. Bill Keller was executive editor of the New York Times until returning to writing for the paper this month. In the run-up to the invasion of Iraq, the paper printed such journalistic gems as the infamous "aluminum tubes" report - fake evidence of an Iraqi nuclear program - and other stories that, as the newspaper's own public editor would write, "pushed Pentagon assertions so aggressively you could almost sense epaulets sprouting on the shoulders of editors." Keller reminisces this week about "the I-Can't-Believe-I'm-a-Hawk Club, made up of liberals for whom 9/11 had stirred a fresh willingness to employ American might."

"It was a large and estimable group of writers and affiliations," he writes, "including, among others, Thomas Friedman of The Times; Fareed Zakaria, of Newsweek; George Packer and Jeffrey Goldberg of The New Yorker; Richard Cohen of The Washington Post; the blogger Andrew Sullivan; Paul Berman of Dissent; Christopher Hitchens of just about everywhere; and Kenneth Pollack [now at the Brookings Institution]."

Keller poses the question: "[K]nowing what we knew then, were we wrong to support the [Iraq] war?" After reviewing the costs of the war, in money and lives [he says "at least 100,000 Iraqis" were killed but the best estimates are closer to a million], he concludes that "Operation Iraqi Freedom was a monumental blunder." But "Whether it was wrong to support the invasion at the time is a harder call."

It's not a hard call for most of America, or the world for that matter. Keller is asking the wrong question. The more important question is how the executive editor of the New York Times can be so confused between right and wrong, when tens of millions of Americans, including many intelligent children, can see right through the crap that we are bombarded with every day.

I'm only picking on the Times because it represents the liberal wing of our establishment media. Most of the rest is much worse. This is one of the great structural problems that must be confronted every day by Americans who would like their country to become a civilised member of the community of nations.

The military-industrial-complex is of course another enormous obstacle. General James L. Jones, Obama's National Security Advisor, explained to journalist and author Bob Woodward, in his book Obama's Wars, why "the United States could not lose the war [in Afghanistan] or be seen as losing the war."
Barack Obama's political base during his electoral campaign contained a large part of the anti-war movement [GALLO/GETTY]


"'If we're not successful here', Jones said, "you'll have a staging base for global terrorism all over the world. People will say the terrorists won. And you'll see expressions of these kinds of things in Africa, South America, you name it. Any developing country is going to say, this is the way we beat [the United States], and we're going to have a bigger problem.' "

Before he took the job as Obama's National Security Advisor, Jones was hauling down $2m a year, paid for serving on the boards of corporations, lobby groups, and military contractors including Boeing and Exxon-Mobil. This is a form of corruption more costly to the United States than anything that our elites regularly denounce in Afghanistan, Iraq, or Pakistan.

If all this sounds pessimistic, with President Obama having escalated the war in Afghanistan, and mostly continuing the foreign policy of George W. Bush's second term, things are not nearly as hopeless as they may seem. First, some of what we are seeing is not structural, but situational. The United States is facing its worst economic failure since the Great Depression. This has drawn attention away from our wars, and given the foreign policy establishment more leeway than they normally would have to proceed without regard to public opinion.
President Obama decided early on that he was not going to expend or risk any political capital trying to change US foreign policy, since his re-election would depend on domestic issues. And many other political actors have made similar decisions, not always for purely opportunistic reasons.

Second, the fact that Obama, a perceived liberal and the country's first African-American president, is in the White House, has kept protest to a minimum. If a Republican president were doing the same things, there would be people in the streets and a lot more of the kind of grass-roots organising that we saw in Wisconsin. And Washington would be paying a bigger political price in the rest of the world for its crimes, as it did when George W. Bush was president.

Nonetheless, the peace movement remains quite strong and is exerting pressure every day in ways that generally go unreported. This summer, 96 per cent of Democrats in the US House of Representatives went against their president and voted to establish a timetable for withdrawal from Afghanistan. This was a result of the organised efforts of the peace movement.

Americans will end these wars and change the foreign policy that got us into them, the same way we got out of Vietnam or cut off congressional funding to right-wing terrorists in Nicaragua in the 1980s: through persistent organising, educational work, and pressure on their government – especially the Congress. That is how we will eventually become a republic, as most Americans want, instead of an empire.
The effects of 9/11 will be experienced for years to come [GALLO/GETTY]