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martedì 29 novembre 2011

Al di sopra della legge, il bene della persona.
Una professione di fedeltà a Dio e al mondo
DOC-2393. MONTEFANO-ADISTA. Cos’è l’essere umano, rispetto ai suoi simili? Un nemico, un lupo, come riteneva Plauto e dopo di lui Hobbes? Oppure un dio, come invece sosteneva Cecilio Stazio e, sulla sua scia, Ludwig Feuerbach? Ha ragione il biologo Richard Dawkins, l’autore de Il gene egoista, secondo cui non siamo altro che «robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni», oppure lo psicologo evoluzionista Michael Tomasello, per il quale invece siamo «altruisti nati»? Il teologo Vito Mancuso opta però per un’altra risposta ancora, per quanto suoni oggi, ammette, piuttosto illusoria, se non buonista: l’essere umano, per i suoi simili, è, semplicemente, «un fratello», un fratello con cui capita assai spesso anche di litigare, ma a cui si è comunque uniti da «qualcosa di più grande». Parte da qui la riflessione condotta da Mancuso attorno al suo libro Io e Dio (Garzanti, pp. 488, euro 18,60) e a quello di Alberto Maggi Versetti pericolosi (Fazi, pp. 190, euro 16, v. documento successivo), presentati congiuntamente lo scorso 16 ottobre nel convento dei serviti a Montefano, alla presenza di circa 400 persone. Due libri uniti, ha sottolineato Mancuso, dalla medesima concezione riguardo al senso dell’essere cristiani, individuando entrambi gli autori «l’assoluto della vita» non nella fede ma nella vita stessa, e dunque interpretando la prima in funzione della seconda. Così da tenere insieme, come scrive Mancuso nel suo libro, quello che oggi «non risulta quasi più possibile»: «un responsabile pensiero di Dio e un retto pensiero del mondo», che vuol dire «pensare insieme Dio e il mondo, Dio e Io, come un unico sommo mistero, quello della generazione della vita, dell’intelligenza, della libertà, del bene, dell’amore», che poi, per il teologo, è «l’unica autentica modalità di essere fedeli a entrambi, a Dio e al mondo».
Se per Mancuso «fratello è colui con cui sento di condividere totalmente la cosa più preziosa che c’è in noi esseri umani, cioè il metodo con cui orientiamo la nostra libertà», è sicuramente questo sentimento a legare i due autori. Per entrambi, ha evidenziato infatti Mancuso, «il vero assoluto, in senso etico e ontologico, è il bene», quel bene che per Gesù, secondo quanto scrive Maggi, «non solo è al di sopra della Legge, ma della sua stessa vita, è la norma suprema che regge ogni comportamento morale». Per entrambi, l’umano è «il vertice del divino», al punto che «al di fuori di quello che è umano non è possibile fare un’esperienza di Dio». E, infine, per entrambi, ha sottolineato Mancuso, «la verità è qualcosa che si fa: non coincide con l’esattezza, non coincide con la dottrina, non coincide con le parole che si dicono; coincide con le azioni, ha molto più a che fare con le mani e con il cuore che con la lingua».
Tra i due autori, tuttavia, ci sono, e non potrebbe essere altrimenti, anche delle differenze, a cominciare da quella relativa alla concezione della religione, che per Maggi, secondo Mancuso, «è sempre tendenzialmente negativa, mentre per me è sempre tendenzialmente positiva». Lungi dal contrapporre fede e religione, spiritualità e religione, Mancuso le ritiene inscindibilmente, per quanto asimmetricamente, connesse: a suo giudizio, cioè, il primato spetta alla spiritualità, ma questa non può darsi, pena la caduta nello spiritualismo, «senza una traduzione concreta anche a livello istituzionale». Per Maggi, invece, religione e fede, così come appaiono nei Vangeli, «appartengono a due diverse concezioni della divinità». Dovendo giustificare la propria esistenza, infatti, l’istituzione religiosa ha scavato un abisso tra l’uomo e Dio: «Più la divinità è lontana dall’uomo – ha affermato Maggi - e più c’è bisogno di un’istituzione religiosa, di un tempio, di una legge, di un culto, di sacerdoti che facciano da mediatori tra gli uomini e questa divinità lontana». Religione, dunque, «è quello che l’essere umano fa per Dio». Con Gesù, invece, «Dio non solo non è lontano dall’essere, non solo non è esterno, ma è, al contrario, nell’intimo più profondo di ogni persona». Così, ha precisato Maggi, «nella religione si vive per Dio, nella fede si vive di Dio; nella religione l’essere umano è sempre alla ricerca di Dio, rischiando anche di non trovarlo, nella fede non deve più cercare Dio, perché Dio è in noi, ma deve accoglierlo attraverso azioni che lo aprano alla vita». E, ha concluso Maggi, in questo in perfetta sintonia con Mancuso, «ogni volta che ci apriamo ad azioni che comunicano, che arricchiscono, che restituiscono la vita agli altri è come se il nostro cuore si dilatasse per permettere alla divinità che è in noi di espandersi ulteriormente».

SANTITÀ? NO, GRAZIE
di Alberto Maggi
Fin dall'inizio della sua attività, Gesù ha avuto come accaniti avversari gli scribi e i farisei.
Chi erano costoro, e come mai detestavano tanto Gesù, al punto da volerne la morte?
Provenienti per lo più dalle file dei farisei, gli scribi erano laici che, dopo una severa selezione e un lunghissimo periodo di preparazione e di studio, ricevevano, attraverso l'imposizione delle mani, lo spirito di Mosè (Nm 11,16-17). Da quel momento erano considerati legittimi successori dei profeti, custodi del testo sacro e teologi ufficiali dell'istituzione religiosa giudaica.
Gli scribi erano i soli che avevano la competenza e l'autorità giuridica per interpretare la Legge divina; il loro magistero era reputato espressione della volontà di Dio, e le loro parole le stesse del Signore. Le loro sentenze erano considerate infallibili: ubbidire a loro era come ubbidire a Dio.
L'importanza degli scribi in Israele era tale che essi godevano di un prestigio maggiore di quello del sommo sacerdote e dello stesso re, perché si diceva che Dio «sulla persona dello scriba pone la sua gloria» (Sir 10,5), e nella Bibbia così veniva elogiato il ruolo dello scriba: «Svolge il suo compito fra i grandi, lo si vede tra i capi [...]. Egli non sarà mai dimenticato; non scomparirà il suo ricordo, il suo nome vivrà di generazione in generazione» (Sir 39,4.9).
I farisei erano pii laici che attendevano la venuta del regno di Dio e, per accelerarne l'arrivo, s'impegnavano a osservare radicalmente e integralmente ogni singolo dettame della Legge, praticando, nella vita quotidiana, le severe regole per la purezza e la santità richieste ai sacerdoti nel limitato periodo nel quale prestavano servizio nel tempio di Gerusalemme.
Per essere certi di osservare ogni singolo dettame, regola o prescrizione della Legge, i farisei erano riusciti a individuare in essa ben seicentotredici precetti, suddividendoli in duecentoquarantotto comandamenti e trecentosessantacinque proibizioni.

LA SANTITÀ E LA COMPASSIONE
Ritenendosi la vera e santa comunità d'Israele, i farisei evitavano di mescolarsi con le persone che non mostravano lo stesso zelo nell'osservare la Legge. Il loro stile di vita, non praticabile dalla maggioranza del popolo, li separava dal resto della gente, da qui il termine “farisei”, che significa appunto “separati/appartati”.
Era soprattutto al gruppo dei farisei che appartenevano gli scribi, per cui spesso scriba e fariseo erano la stessa realtà, e Gesù nelle sue invettive più volte li accomuna: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti» (Mt 23,13).
Come mai questi cultori ed esperti conoscitori della Legge, questi zelanti devoti che ne osservavano in maniera pignola e maniacale ogni minimo precetto o dettaglio, che pregavano dal mattino alla sera e che erano considerati sante persone tra il popolo, sono gli acerrimi nemici di Gesù, il Figlio di Dio?
Il conflitto nasce dal fatto che Gesù ha parlato di Dio in un modo nuovo. Mentre il Dio degli scribi e dei farisei si rivela attraverso la sua Legge, eterna e immutabile, il Padre di Gesù si manifesta nell'amore, fedele e incondizionato.
Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù è sacro l'uomo. Mentre la Legge esclude da Dio chi non la osserva, l'amore del Padre è offerto a tutti.
Per scribi e farisei il peccato era una trasgressione della Legge e un'offesa a Dio, per Gesù il peccato è quel che offende l'uomo e lo ferisce.
Scribi e farisei si sono messi a servizio di Dio e offrono la loro vita al Signore. Gesù, Figlio di Dio, ha messo la sua esistenza a servizio degli uomini (Lc 22,27) offrendo loro la sua vita.
Il percorso degli scribi e dei farisei e quello di Gesù è pertanto opposto, perché diverso è il loro concetto di Dio, e quindi sono destinati a non incontrarsi mai e a scontrarsi sempre.
Scribi e farisei per avvicinarsi sempre più al Signore si separano, di fatto, dal resto del popolo. Per loro, infatti, il Signore è nell'alto dei cieli (Dt 4,39), e per raggiungerlo occorre salire la mistica scala di Giacobbe «la cui cima raggiungeva il cielo».
Gesù è il Dio che per amore è sceso verso gli uomini, e si è fatto lui stesso uomo.
Scribi e farisei salgono, il Signore scende... e non s'incontrano mai. Anzi, a forza di salire verso il loro Dio nei cieli, scribi e farisei si allontanano sempre di più da quel Dio che si è fatto uomo.
Il paradosso è che quelli che, per il loro stile di vita e le loro devozioni, si ritengono i più vicini a Dio, di fatto sono i più lontani. Più cercano di avvicinarsi a Dio, meno lo incontrano, e quindi meno lo conoscono.
Con Gesù, Dio ha infatti assunto un volto umano e si manifesta nell'umano. Ciò significa che al di fuori di quel che è umano non è possibile fare alcuna esperienza di Dio.
Scribi e farisei, a forza di spiritualizzarsi, si sono disumanizzati: il loro sguardo, costantemente teso a scrutare il cielo, li fa diventare refrattari e insensibili ai bisogni e alle sofferenze del popolo. Interamente assorbiti dalle loro devozioni, sono indifferenti alle necessità concrete delle persone.
Il loro attaccamento alle cose celesti li fa essere distaccati da quelle terrene, tanto ardenti verso Dio quanto freddi verso i propri simili.
Per Gesù più l'individuo è umano e più manifesta il divino che è in sé. Una spiritualità che disumanizzi la persona, soffocandone la vitalità, reprimendone i sentimenti, non procede in alcuna maniera dallo Spirito del Signore. Una spiritualità del genere non solo non permette di incontrare Dio, ma lo impedisce, perché Dio può essere conosciuto e incontrato in quel che è profondamente e intensamente umano.
Per questo Gesù, nel suo insegnamento, prende radicalmente le distanze dalla spiritualità di scribi e farisei, e ritiene ormai il tempo maturo per proclamare la buona notizia del regno di Dio.
E Gesù annuncia il suo messaggio ai discepoli, proponendo loro una nuova relazione con il Padre che, se accolta, provocherà un profondo radicale mutamento nel cammino dell'umanità.
Il Dio che Gesù fa conoscere è esclusivamente buono, perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8), e l'amore non può essere comunicato attraverso una Legge o una dottrina, ma solo mediante gesti che trasmettono vita e l'arricchiscono. Ed è questo che le folle percepiscono da Gesù, e per questo sono attratte da lui: si sentono amate come mai prima era loro capitato.
Con Gesù, il Dio che si è fatto uomo, cambia il rapporto degli uomini con il Signore. L'uomo, una volta accolto da questo amore gratuito e incondizionato, non vive più per Dio, ma di Dio, e come Gesù è spinto dallo Spirito ad alleviare le sofferenze dell'umanità. Prima di Gesù, il cammino dell'umanità era diretto verso Dio. Ma ora Dio in Gesù si è fatto uomo, c'è solo da accoglierlo e, con lui e come lui, andare verso ogni creatura.
Gesù nella sua predicazione annuncia il regno di Dio, la società alternativa che lui è venuto a inaugurare: un mondo dove alla brama di accumulare si sostituisca la gioia del condividere, al posto della frenesia del salire si scopra la libertà di scendere, e alla smania di comandare si opponga la vera grandezza, quella del servire.
Nel messaggio proclamato da Gesù, stupisce l'assenza dell'invito alla santità, caratteristica costante dell'insegnamento degli scribi. La spiritualità dell'Antico Testamento era infatti fondata sull'imperativo di Dio: «Siate santi perché io sono santo» (Lv 11,44). Mai Gesù fa suo questo invito e mai invita alcuno a essere santo.
Nel codice di santità, contenuto nel Libro del Levitico (Lv 19-24), la relazione con Dio si realizzava mediante l'accettazione di verità assolute e per questo immutabili, di norme intoccabili, di osservanze e pratiche rituali ben determinate. Questa legge di santità generava una società discriminatoria, che escludeva quanti non potevano osservare i suoi innumerevoli precetti, dividendo, di fatto, il popolo tra uomini puri e impuri, tra giusti e peccatori.
Gesù non pone come traguardo l'irraggiungibile santità di Dio, ma la sua compassione per gli uomini. Il Padre di Gesù non assorbe gli uomini, ma comunica a essi il suo Spirito, dilatando la loro capacità d'amore. È l'amore e non la Legge che può generare una società dove ognuno si senta accolto, giustificato, perdonato.
Per questo il Cristo, piena manifestazione di un «Dio che è ricco di misericordia» (Ef 2,4), propone di essere misericordiosi come il Signore è misericordioso, obiettivo a tutti accessibile, perché essere compassionevoli come il Padre significa avere come lui un amore dal quale nessuno viene escluso, e questo rientra nelle possibilità di ogni persona.
Mentre all'imperativo della santità di Dio seguiva tutta una serie di norme su ciò che era puro (e quindi permetteva la santità) e quel che era impuro (e ostacolava la santità), separando, di fatto, quanti osservavano queste regole da chi non poteva o non voleva osservarle, la pratica dell'amore e della misericordia non allontana da nessun uomo ma avvicina a tutti.
Per Gesù l'assomiglianza alla misericordia del Padre non si realizza mediante attestati di ortodossia, né attraverso l'osservanza di norme religiose, ma attraverso l'attenzione alla persona, alla dignità, al bene e al benessere degli uomini, liberandoli da ogni sofferenza e angustia.
Mentre la santità colloca al di sopra degli altri, la misericordia pone a fianco degli ultimi della società, delle persone emarginate ed escluse.
La spiritualità proposta da Gesù non centra la persona in se stessa, nella propria perfezione, nella santificazione personale, ma nel dono concreto e generoso di sé agli altri. Non la propria virtù (parola assente nei vangeli), ma la necessità altrui è quel che distingue il credente in Gesù: «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; poiché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (Lc 6,35; Mt 5,44). Da qui l'invito a impegnarsi contro ogni forma di ingiustizia e sofferenza, per realizzare il disegno del Padre di rovesciare i potenti dai troni per innalzare gli umili, di ricolmare di beni gli affamati e di rimandare i ricchi a mani vuote.
Per ascoltare Gesù affluiscono «da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone» (Lc 6,17). Tutti sono attratti dal suo messaggio e dalla straordinaria forza che da lui usciva, capace di guarire e di ridare vita (Lc 6,19).
Cadono le barriere della razza e della religione e, nella tanto disprezzata Galilea, salgono dall'insigne Giudea, e persino dalla stessa Gerusalemme, la città santa, sede dell'istituzione religiosa. Non solo, a Gesù accorrono anche dal mondo pagano. Inizia così a delinearsi un regno i cui confini non sono limitati a Israele, ma estesi a tutta l'umanità: anche i pagani, considerati alla stregua dei rettili, sono i beneficiari dell'azione sanatrice di Gesù. (…).


sabato 26 novembre 2011

L’Italia di Berlusconi che crolla e che frana
“Se esistesse un grande politico in Italia - ha scritto Curzio Maltese su “il Venerdì di Repubblica” - dovrebbe fare un discorso sulla bellezza. Perché è da qui che bisogna ripartire per uscire dalla crisi. Dalla capacità storica italiana di produrre bellezza. Quando si scorre l’album del boom economico anni Sessanta, quello che rimane è un’infinita serie di oggetti magnifici: la Vespa, la Giulietta, la Lancia, la 500, le lampade Fontana e Castiglioni, le plastiche Moplen, i frigoriferi Ignis, la poltrona Sacco, le cucine e si potrebbe continuare per pagine e pagine. Ancora oggi le quattrocento medie industrie esportatrici sulle quali si fonda ancora la ricchezza della nazione, devono gran parte del successo al senso del bello, che producano vestiti o macchinari, occhiali o simulatori di volo. A un giovane ambizioso, oggi bisognerebbe consigliare di seguire un corso di calligrafia, invece del master di finanza alla Bocconi per imparare a far soldi. Tanto, se andiamo avanti così, presto non ci sarà più niente su cui speculare”.

Già, la bellezza: Stendhal diceva che è “una promessa di felicità”. Io, più modestamente, sostengo che sia la maggiore risorsa – e, naturalmente, la meno valorizzata – del nostro Paese. Se ho usato il verbo “valorizzare” e non l’odioso “sfruttare” è perché in Italia il patrimonio artistico e paesaggistico viene già sfruttato, maltrattato e offeso oltre i limiti del tollerabile; o, nel migliore dei casi, abbandonato a se stesso, lasciato a deteriorarsi nell’incuria generale, come se non valesse niente, come se non fosse una delle nostre principali attrazioni turistiche, come se potessimo continuare a cullarci nella presuntuosa idea che tutto ci sia dovuto e non dobbiamo fare nulla per preservare la nostra meraviglia.

Quanto è avvenuto in questa settimana in Lunigiana e nel Levante ligure, la devastazione di alcuni paesi-gioiello dell’Alta Toscana e delle Cinque Terre, è soltanto l’ultima lezione che una natura sempre più bistrattata impartisce all’uomo, quasi un avvertimento (anche se mi tengo ben alla larga da chi parla di “punizioni divine” e altre scempiaggini) all’uomo affinché la smetta di deturpare ogni centimetro di costa, di lungomare, di collina, di valle e di montagna con orribili colate di cemento, capannoni industriali, stabilimenti balneari e tutte le altre diavolerie artificiali con le quali stiamo trasformando la vita reale in un’esperienza sempre più artificiale.

Qualcuno, leggendo queste riflessioni, potrebbe pensare che io sia contrario alla modernità. Niente di più sbagliato: io sono uno dei massimi sostenitori del mondo globale, delle nuove tecnologie, dei social network, della società telematica, multimediale e multietnica, della riduzione delle distanze che oggi ci permette di comunicare in diretta con persone che si trovano dall’altra parte del Pianeta.
A conferma di ciò, riprendo l’inizio del già citato articolo di Curzio Maltese, intitolato “La lezione di Steve Jobs sulla bellezza, un esempio per i politici”: “Quando Steve Jobs raccontava d’aver lasciato l’università per seguire un corso di calligrafia, non svelava soltanto un aspetto del proprio carattere e di una biografia straordinaria. La madre studentessa, com’è noto, aveva abbandonato il piccolo Steve dopo la nascita per finire gli studi. Jobs ricorda a tutti quanto è importante la bellezza nelle scelte della vita e quanto sia al centro del mercato. Senza quella scelta bizzarra e in apparenza futile, Apple non avrebbe avuto caratteri tanto belli”.
Qualche settimana fa, alla morte di Steve Jobs, abbiamo assistito ad una sorta di commemorazione collettiva, globale, uno dei momenti più significativi di questo pessimo periodo segnato dalla crisi. All’improvviso, ci siamo accorti di quanto sia importante abbinare bellezza e profitto, benessere e sostenibilità ambientale, sviluppo umano e crescita economica, di quanto avesse ragione Adriano Olivetti nel sostenere l’importanza di una “città dell’uomo”, realizzata secondo canoni rispettosi delle esigenze umane ma anche dell’ambiente e di un’idea di architettura basata sull’eleganza, e di quanto sia iniquo il caposaldo di un certo capitalismo d’assalto secondo cui l’unica cosa che conta è l’arricchimento personale a scapito della collettività.

Questo modello, introdotto trent’anni fa da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, che ha alla base il princìpio del “meno Stato”, dello Stato cattivo a prescindere, della “deregulation” e della privatizzazione come rimedio a tutti i mali della gestione pubblica dei servizi, è una delle cause principali, se non la principale, dell’attuale sfacelo economico.
Per troppo tempo, si sono contrapposte due visioni sociali entrambe sbagliate: da una parte, lo statalismo sovietico che ostacolava ogni forma di iniziativa privata; dall’altra, il capitalismo sfrenato di una parte dell’Occidente che ha prodotto danni incalcolabili all’ambiente ma, quel che è peggio, ha creato una società nella quale non è più al centro l’uomo, nella quale l’uomo è stato ridotto a macchina da produzione e da consumo, nella quale valori fondamentali come la solidarietà, il rispetto, la buona educazione, la speranza in un futuro migliore sono stati sviliti e oggi non contano più niente.

Questa, ad esempio, è la triste Italia di Berlusconi: un paese che crolla e che frana, che sprofonda nel fango morale gettato sugli avversari per screditarli e in quello materiale che ha devastato due regioni e una costa, avvelenata dai sostenitori del profitto a tutti i costi e dalla bruttezza di scempi paesaggistici che non abbiamo avuto il coraggio di contrastare come avremmo dovuto.
Per ricostruire l’Italia, riprendendo un bel messaggio di Pierluigi Bersani, occorre mediare tra i due errori del passato: no allo statalismo a tutti i costi e no al capitalismo distruttivo; sì, invece, ad un capitalismo sostenibile che abbia al centro il concetto che chi ha di più deve dare di più, in cui il bene di ciascuno non può prevalere su quello della comunità ma deve esserne una parte importante, in cui l’egoismo e l’indifferenza siano considerati disvalori da eliminare e non punti di riferimento e la bellezza, la poesia, la cultura, l’allegria, la spensieratezza, la gioia di vivere e, per dirla con Italo Calvino, la leggerezza, intesa come l’espressione semplice di concetti ampi e profondi, tornino ad avere nella nostra società il posto che meritano.

Ricostruire l’Italia e liberarla dall’inquinamento del berlusconismo e di una destra affaristica e incapace di assicurare al Paese il rinnovamento e il cambiamento di cui ha bisogno, significa anzitutto ripartire dalla tutela dell’ambiente.
Per questo, accogliamo con entusiasmo la nascita del Forum Nazionale “Salviamo il paesaggio – Difendiamo i territori” (www.salviamoilpaesaggio.it), promosso tra gli altri da Carlin Petrini, che tra gli obiettivi si propone quello di effettuare un censimento degli immobili sfitti o non utilizzati da parte dei comuni, tenendo presente che negli ultimi dieci anni, in Italia, sono state costruite quattro milioni di case mentre pare che ce ne siano cinque milioni e duecentomila vuote. Senza contare i capannoni proliferati ovunque che stanno lì, enormi, in rovina, a testimoniare il tracollo di uno sviluppo industriale insostenibile e il fallimento di numerose imprese, con le inevitabili ricadute sociali e occupazionali.

Poiché l’agonia di questo governo è ormai irreversibile e le urne si avvicinano di giorno in giorno, lanciamo al centrosinistra la più ambiziosa delle sfide: fare proprio l’appello di Petrini quando afferma che “non c’è bisogno di nuove case, non c’è bisogno di nuovi capannoni: è ora di capire che chi li fa li fa soltanto per il proprio tornaconto privato, e intanto distrugge un bene comune. Rispettiamo la proprietà privata, ma il bene comune deve avere la precedenza. Il paesaggio, forse a prima vista meno tangibile dell’acqua, è un bene comune perché tutelandolo si preservano l’ambiente, la sicurezza delle persone, le attività agricole, i suoli, la bellezza. Il privato, fatti salvi i suoi diritti, non può privare il resto della comunità di qualcosa d’insostituibile e di non rinnovabile. Il privato non può privare”.
Siamo certi che chiunque sarà il leader del centrosinistra, comunque sia composta la coalizione, saprà raccogliere questa sfida che riguarda il futuro delle nuove generazioni.
Roberto Bertoni

lunedì 14 novembre 2011

A Decimomannu, in Sardegna, piloti israeliani mettono a repentaglio la loro vita e quella dei residenti. Così come ogni aereo che solca i cieli sardi per le esercitazioni di tiro

Decimomannu, Sardegna, 19 novembre 2010. Nel corso dell'operazione di addestramento chiamata 'Vega', un pilota israeliano compie unamanovra altamente pericolosa. Dopo il decollo dalla base sarda, secondo quanto riporta il blog di Davide Cenciotti, che ha ripreso la notizia dal sito JewPI.com, un F16 del 106° squadrone della IAF (Israeli Air Force) esegue una rotazione di 360 gradi (un 'tonneau', nel gergo dell'aviazione acrobatica). L'evoluzione è stata compiuta "senza motivo né vantaggio": con queste parole un tribunale militare israeliano ha condannato il pilota a sette giorni di carcere e un anno di sospensione dal volo. "La rotazione del velivolo - scrive Cenciotti nel suo blog - lungo il suo asse longitudinale è una manovra acrobatica che deve essere compiuta all'interno di aree specifiche e ad altitudini di sicurezza". Il sito JewPI riporta che l'aereo ha anche oltrepassato il muro del suono, causando un 'bang sonico' non autorizzato e al di sotto delle altitudini consentite. Della manovra altamente pericolosa, del 'bang sonico', dell'arresto e della sospensione del pilota nessun organo di stampa italiano ha mai parlato.
La pratica degli F16 israeliani del 'sonic boom' a basse altezze è diventata frequente nella Striscia di Gaza dopo la rimozione degli insediamenti ebraici nel 2005. Da allora, i piloti si esercitano sulla popolazione civile palestinese, producendo boati assordanti paragonabili a quelli di una bomba o di un terremoto. A volte, secondo quanto riporta il quotidiano britannico Guardian (http://www.guardian.co.uk/world/2005/nov/03/israel), lo spostamento d'aria è talmente forte da far sanguinare il naso. A Decimomannu si addestrano tali piloti. Non è escluso che alcuni di loro abbiano bombardato la Striscia durante 'Piombo Fuso', provocando la morte di oltre mille civili.
La base di Decimomannu dista pochi chilometri dall'abitato. Una decina di giorni fa si è conclusa l'edizione 2011 dell'operazione Vega, che ha visto centinaia di apparecchi da guerra europei - decine gli israeliani - e mezzo migliaio di militari prendere parte a esercitazioni di electronic warfare. L'operazione Vega rientra nella cooperazione militare Italia-Israele, stabilita dalla Legge 17 maggio 2005, e nel "Programma di cooperazione individuale" con Israele, ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell'attacco israeliano a Gaza. Esso comprende una vasta gamma di settori in cui "Nato e Israele cooperano pienamente": aumento delle esercitazioni militari congiunte; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; allargamento della "cooperazione contro la proliferazione nucleare". "Ignorando che Israele - scrivono il Manifesto nell'edizione sarda il 22 novembre 2010 e il Manifesto nell'edizione nazionale il 4 novembre 2011 - unica potenza nucleare della regione, rifiuta di firmare il Trattato di non-proliferazione ed ha respinto la proposta Onu di una conferenza per la denuclearizzazione del Medio Oriente". La base è infatti fornita dei più sofisticati apparecchi e dei sistemi per l'addestramento al tiro. E' inoltre l'aeroporto con il più alto numero di decolli e atterraggi presente in Europa, con una media di circa 60mila movimenti annui, pari a circa 450 movimenti giornalieri.
Il sito non ufficiale di Decimomannu (http://www.awtideci.com) riporta: "In pochi minuti di volo sono raggiungibili diverse aree adibite a poligoni aria-aria, aria-terra e bassa navigazione". Tra queste, la tristemente nota Quirra e Capo Frasca, ultima propaggine dell'area naturalistica del Sinis. Le aree coprono buona parte della Sardegna meridionale.Non è noto sapere quali armamenti siano stati usati per la dotazione degli F-15 ed F-16 israeliani impegnati nelle esercitazioni (così come di nessuno degli aerei di tutte le forze Nato che periodicamente si esercitano sui cieli sardi). Mentre l'Aeronautica diffonde la versione di una guerra esclusivamente ‘elettronica', sempre il sito non ufficiale riferisce che, nella zona di Capo Frasca, "operazioni principali sono il bombardamento al suolo e l'uso di cannoni o mitragliatrici di bordo. Il poligono offre una serie di bersagli adatti allo scopo. Apposite torri di controllo gestiscono il traffico aereo impegnato nelle sessioni di addestramento". In particolare, per Capo Frasca, designato con la sigla R59 nella mappa radar, "le operazioni sono bombardamento al suolo e uso di mitragliatrici di bordo. Il poligono offre una serie di bersagli utili allo scopo". In definitiva, gli aerei, Nato e non, decollano da Decimomannu, sorvolano aree civili, spesso con manovre 'altamente pericolose e scaricano il loro potenziale distruttivo in aree paesaggisticamente intatte, contaminando l'ecosistema, la biodiversità e - come si è visto per Quirra, e da poco anche per Capo Frasca - anche gli esseri umani. In quest'ultimo poligono sono stati testati i missili teleguidati AIM dell'Eurofighter prima dell'entrata in servizio. Come per il poligono di Quirra, anche qui cominciano a emergerestorie di malattie oncologiche, ematiche o linfatiche, come ben esemplifica la vicenda del maresciallo Madeddu,riportata dal quotidiano 'Unione Sarda' il 30 maggio 2011.
Decimomannu ha un lungo bollettino di incidenti aerei. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale 64 aerei hanno subito danni, sono precipitati al suolo o in mare, in località che abbracciano tutta la Sardegna meridionale: Capo Frasca, stagno di Cabras, Capo Carbonara, Orroli, Capo Ferrato, Alghero, Arborea. Ventitré piloti sono morti, e numerosi aerei o pezzi di aereo sono andati perduti. L'aeroporto è stato e continuerà ad essere un pericolo per gli abitanti della Sardegna. A dispetto del motto che campeggia beffardo sul sito ufficiale della base: Decimomannu, dove gli aviatori del mondo libero si addestrano per mantenere la pace.

domenica 6 novembre 2011

PAOLO VI E MARX NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE
di Mario Pancera

Che cosa è cambiato nella borghesia dal «Manifesto» alla «Populorum progressio» ad oggi? Nulla


Il 26 marzo 1967, papa Paolo VI pubblicò la lettera enciclica «Populorum progressio» in cui affrontava alcuni importanti problemi sociali: «Nella nostra società si è malauguratamente instaurato un sistema che considera il profitto come motivo essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto senza limiti, né obblighi sociali corrispondenti». Sono parole di oggi, potrebbe sottoscriverle – penso - anche papa Benedetto XVI.

Bastano queste parole, perché i cattolici boccino governo, parlamento, maggioranza, opposizione, confindustria, e perfino quei sindacalisti che, tentennando di qua e di là, vogliono far credere ai lavoratori che possono discutere alla pari con i datori di lavoro. In realtà, i datori di lavoro (per il loro profitto, come ricorda papa Montini in due parole) possono licenziare i lavoratori, i lavoratori non possono licenziare i datori di lavoro che ritengono «la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto senza limiti, né obblighi sociali corrispondenti». Altro che berlusconismo. Queste parole fanno piazza pulita del liberismo, delle speculazioni finanziarie, della globalizzazione che impoverisce i popoli anziché emanciparli, delle crisi economiche create ad arte per il potere di pochi e la schiavitù di intere moltitudini.

Non c’è nessuna parità tra chi comanda e chi è costretto ad obbedire. È la lotta tra Davide e Golia. Il richiamo di Paolo VI a me sembra così normale, che trovo anormale che lo debba scrivere un papa di settant’anni per farlo capire a milioni di persone. Invece, è come se non fosse mai stato pronunciato da nessuno, né mai pubblicato da nessuno. Sono passati quasi 45 anni e siamo ancora qui a meravigliarci che un papa – certo non rivoluzionario, anzi: era figlio di un banchiere – abbia detto a gran voce queste cose e il mondo non gli abbia dato retta.

Passo ad altro. «La borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario. Dove è giunta al potere ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci. Ha lacerato spietatamente tutti i variegati legami feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha annegato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i fremiti dell’esaltazione religiosa [...] Ha dissolto la dignità personale nel valore di scambio, e, in luogo delle innumerevoli libertà faticosamente conquistate, ha posto come unica libertà quella di un commercio senza scrupoli. In una parola, in luogo dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha introdotto lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido.»

Non basta. «La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività fino ad allora guardate con rispetto e pia soggezione: ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in operai salariati. Ha strappato il tenero velo sentimentale ai rapporti familiari, riducendoli a un semplice rapporto di denaro [...] Il continuo sconvolgimento della produzione, l’ininterrotta messa in discussione di tutte le condizioni sociali, l’insicurezza e il movimento perpetuo distiguono l’epoca borghese da tutte quelle precedenti…»

Quando Paolo VI scrive «nella nostra società» parla della società borghese del suo tempo ovvero della borghesia dei nostri giorni, che rivoluziona di continuo gli strumenti di produzione, che mette ogni giorno in discussione tutte le condizioni sociali, e si distingue per la precarietà dei deboli e la sua affannosa ricerca di nuovi sbocchi e di nuovo denaro: «Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia su tutto il globo terrestre. Essa deve insediarsi ovunque, ovunque allacciare collegamenti». Chi lo dice?

Questa radiografia della borghesia, questa denuncia di una società gelida, poltrona e senza scrupoli, così simile a quella pubblicata dal vecchio Paolo VI nel 1967, è nel «Manifesto del partito comunista» scritto nel 1847 da Marx e Engels: il primo aveva 29 anni, il secondo 27. Atei. Disincantati. In centovent’anni (anzi 164 anni, se vogliamo arrivare a oggi) che cosa è cambiato della borghesia? Nemmeno il nome.
Mario Pancera