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mercoledì 28 novembre 2012


Natascia e il suo viaggio in carcere
In una lettera pubblicata da Huffington Post Italia, il racconto di una ragazza arrestata il 14 novembre a Roma


Riportiamo di seguito parte della lettera che Natascia Grbic ha scritto sui fatti del 14 novembre. Le sue parole hanno trovato spazio in un articolo su Huffington Post Italia:

Sono una degli arrestati del 14 novembre. Sono tra quelli che quel giorno sono scesi in piazza insieme a tutta l'Europa per dire che non ci stanno al ricatto dei mercati e della finanza. Sono tra quelli cui è stato impedito nella maniera più brutale di manifestare il proprio dissenso sotto i palazzi del potere. Sono tra quelli che sono stati picchiati, umiliati e trattati come bestie su quella maledetta camionetta.

Sul 14 novembre è già stato detto e scritto tanto quindi [...] mi soffermerò più che altro sulla piccola vacanza in carcere gentilmente concessami dallo Stato italiano. Dopo i primi convenevoli della celere sul Lungotevere (calci sui reni, sulla faccia, e le immancabili manganellate sulla testa le quali, anche se vietate dalla legge perché banalmente potrebbero ucciderti, le forze dell'ordine proprio non riescono a fartele mancare), siamo stati trasportati sulla camionetta.

Lì, ovviamente, i poliziotti hanno fatto gli onori di casa: e giù a calci nelle palle, insulti, minacce di morte e vessazioni di ogni tipo. Persone con la testa aperta, mani rotte e il sangue che scivolava copioso sono state costrette a sedersi per terra, senza potersi reggere, sbattendo così il proprio corpo già martoriato sui lati del camioncino. Siccome però le forze dell'ordine non sono bestie ma esseri umani, sei ore dopo averci portato in questura hanno chiamato un'ambulanza. "Alla buon'ora", avremmo voluto dire.

Dopo dieci ore e manco un cracker nello stomaco, arriva il verdetto: carcere. Paura, panico, ansia e terrore iniziano a trasudare dal corpo per quell'unico pensiero: "E mo chi da' da mangiare al gatto?". Il poliziotto, che notavo avere un certo piacere nel comunicarmi la notizia, pregustandosi già una scenata isterica secondo lui tipicamente femminile, ha avuto un immediato calo della mascella nell'assistere alla telefonata tra me e mia madre in cui la istruivo sulle quantità di cibo da dare al felino.

Arrivata in carcere, sono privata di ogni cosa che potrebbe aiutarmi al suicidio: elastico dei pantaloni, lacci delle scarpe ("scusi, così mi stanno larghe, casco ogni tre passi" - "questioni di sicurezza" - "ma ho le lenzuola in cella, posso impiccarmi anche con quelle" - "eeeeehhhhhh"), reggiseno ("scusi come ci si ammazza col reggiseno?" "eeeeeeeeeeeeeeeeehhhhhhhh"), piercing ("io questi non li levo, non l'ho mai fatto, non so' capace" -"fa come te pare" - "allora tengo anche quest'altri" - "no, se ci riesci, li devi levare" - "ma perché?" - "eeeeeeehhhhhh"), accendino ("si può avere solo quello con la rotella, no con lo scatto" - "perché, che cambia?" - "che quello lo compri qui" - "ah ecco").

Rimango in magliettina, in un clima paragonabile solo a quello dell'Alaska, e chiedo una felpa: "Adesso non si può". Sfidando le intemperie quindi, mi avventuro nel reparto dell'isolamento cui sono stata destinata e lì scopro l'amara verità: ho la finestra della cella mezza aperta. Mai 'na gioia davero. Nessuno mi dice come chiuderla e, avendo io la praticità e la razionalità di un bradipo monco, mi costringo a dormire.

Le celle vengono aperte alle otto del mattino e richiuse la sera alle venti. "Rebibbia è un carcere aperto", dicono. Infatti, si poteva liberamente camminare avanti e indietro in un corridoio lungo dieci metri dove il massimo del divertimento era guardare la simpatica porta blindata che si apriva e chiudeva ogni tanto. Arriva la detenuta che porta le colazioni. Le chiedo quanto la pagano, lei schifata dice: "Ottanta euro al mese, per lavorare tutti i giorni dodici ore. Domani però vogliamo scioperare, non è possibile che qui ci sfruttino in questo modo e fuori non si sa nulla". Si potrebbe obiettare che in carcere c'è vitto e alloggio pagato dallo Stato, ma non è proprio così: qualunque cosa, anche quella più stupida che parenti e amici potrebbero mandarti da fuori, deve essere comprata all'interno della struttura. Con un sovrapprezzo chiaramente. Quindi, o hai alle spalle una famiglia che mensilmente versa dei soldi sulla tua "Jail - Card", oppure te la prendi allegramente in saccoccia e ti adatti a una vita che, oltre a essere già dura di per sé, diventa ancora più degradante.

Decido di farmi una doccia. Acqua calda neanche a parlarne. Ai piani superiori riescono a scaldarla nei pentoloni, ma all'isolamento non l'abbiamo, quindi dobbiamo adattarci. Poco male, alle brutte mi prenderà una polmonite. Cerco il phon per i capelli. Aria fredda. Polmonite assicurata. Chiedo un cambio alle guardie carcerarie perché, essendo vestita da due giorni allo stesso modo e avendo anche dormito con quella roba, oltre alla mia vita anche le mie condizioni igieniche iniziano a diventare abbastanza precarie. Mi spiegano che il loro guardaroba è molto disorganizzato e quindi non possono darmi nulla. Chiedo allora di poter chiamare mia madre, così da farmi avere dei cambi. Non ne ho diritto. Chiedo a loro di chiamarla. Non possono. "Quindi rimango così?", chiedo iniziandomi ad alterare. "Signorina guardi che non è mica in villeggiatura". Gli spiego che i detenuti non sono delle bestie e che hanno dei diritti, vengo immediatamente bollata come "scocciatrice" e rispedita nella mia sezione. Dopo aver smosso almeno tre piani e stalkerato diversi secondini, riesco a rimediare una felpa e due mutande.

All'isolamento siamo in cinque. A un certo punto sentiamo sbattere da dentro una cella e andiamo a vedere: c'è una ragazza messa in punizione. Non può uscire da lì per dieci giorni. Chiusa 24 ore su 24. Inorridiamo a questa scoperta. Già noi ci sentiamo come animali in gabbia, chiuse in un corridoio, figuriamoci se si è costretti per dieci giorni, senza uscire, in una cella di due metri per uno. La guardia ci intima di allontanarci, non possiamo parlarle, altrimenti ci viene fatto rapporto e ci vengono dati quarantacinque giorni di carcere in più. Chiaramente, appena si gira, andiamo dalla ragazza, le portiamo l'acqua, il caffè, le allunghiamo una sigaretta. Se c'è una cosa che t'insegna il carcere, è questa: lì dentro non ci si lascia sole. Non importa quello che hai fatto al di fuori: lì, ci si aiuta l'un l'altra nei momenti di sconforto, di paura e di solitudine. La galera ti taglia fuori dal mondo, i contatti con l'esterno per molti sono nulli e rischi d'impazzire. Non c'è ordine dall'alto che tenga quando c'è in gioco il pericolo di una solitudine più grande di quella che già si ha. Fanculo l'isolamento, fanculo gli ordini, fanculo le regole che ti vogliono annullare. Nessuno deve rimanere solo.

Mi arriva la spesa che ho fatto. Ho una bottiglia d'acqua naturale, la bevo e sento che è allungata con quella frizzante. E l'ho pure pagata. Impreco e vado dalla guardia a reclamare l'ora d'aria. Mi dice che non è possibile, non c'è l'assistente che può controllarci all'esterno e che quindi non usciremo. Inizio a scalpitare sempre di più e la mancanza di contatto con l'esterno inizia a devastarmi. Chiedo se i miei genitori hanno cercato di vedermi, se sono venuti i miei amici e i miei compagni. Non possono dirmi nulla. Inizio a incazzarmi veramente. Arrivano le venti e mi chiudono in cella. Le altre detenute accendono il televisore e sento il rumore delle camionette. Si parla della manifestazione del giorno prima. Mi tappo le orecchie per non sentirle, ma la rabbia monta lo stesso per quello che è stato fatto al corteo, a me e ai miei compagni e decido di mettermi a dormire. Tanto non ho nulla da fare.

Mi addormento, stavolta un po' in preda al magone. E a un certo punto eccoli: i miei compagni, i miei amici, i miei genitori e i miei fratelli sono lì fuori a urlare che non sono sola, a lanciare fuochi d'artificio e a cantare che "Si parte e si torna insieme". Lì ho iniziato a ridere, la prima risata della giornata. Sento le altre detenute che urlano felici, che sbattono con le pentole sulle sbarre. Io non posso, quelle dell'isolamento sono più grosse e non riesco ad arrivarci, neanche salendo sullo sgabello. Arriva una guardia, ha capito che sono la fuori per me. Un po' infastidita mi dice che deve controllarmi e se va tutto bene. Non potrebbe andare meglio, le rispondo. Mi addormento con le voci dei miei fratelli che, dopo essere stati al freddo per un'ora, se ne vanno. Stavolta non mi addormento col magone, ma felice e piena di una forza che avevo paura di aver perso.

Il giorno dopo va molto meglio. Sono arrivate delle nuove ragazze e una di queste è terrorizzata e piange di continuo. Stavolta è il mio turno di aiutare le altre e la consapevolezza di avere questo compito mi da' forza e tranquillità. Io non sono sola ma tante altre la dentro sì: è compito di chi ha questa fortuna far sentire parte di una comunità gli altri che invece lo Stato vuole esclusi. La giornata va avanti tra risate e un po' di lacrime quindi, ma quasi ci dimentichiamo di quelle sbarre che ci opprimono.

Dopo un po' succede quello che più mi aspettavo e temevo: mi vengono le mestruazioni. Cari maschietti che leggete, non sentitevi in difficoltà e non distogliete lo sguardo che questa è una cosa tanto naturale quanto rognosa. Specie se ti trovi in carcere. Premetto che mia sorella aveva tentato di mandarmi degli assorbenti, ma niente: le guardie all'ingresso non glieli hanno fatti passare. "Li devi comprare, arrivano mercoledì". Certo, e nel frattempo che si fa? Cara dignità, quanto vogliono distruggerti. Quindi eccomi lì, in palese difficoltà, ad andare a elemosinare tampax dalle assistenti del piano.

Dopo un'ora, sette richieste, e tanto disagio, sento una poliziotta che urla il mio nome. Convinta che mi stesse finalmente dando ciò che richiedevo da tempo, mi sento dire: "O esci mo a fatte l'ora d'aria o te tappo dentro". Inutile dire che lo charme e la buona educazione impartitami da mia madre sono andati a farsi benedire in tre secondi, permettendo al lato di chi ha fatto le scuole al Tufello di uscire indisturbato. Anche lì, a cavarmi d'impaccio dalla situazione, è arrivata una detenuta che, in tre secondi, da cosa facile qual era, mi ha allungato il tanto agognato assorbente salvando così quel poco di presentabilità che mi era rimasta. Tra l'altro, l'ora d'aria era peggio del corridoio: si è svolta in un quadrato di cemento minuscolo, con delle mura altissime, separato dalle altre detenute. Quel minuscolo pezzo di cielo che s'intravedeva è stato peggio della porta blindata della sezione che si apriva e chiudeva a intermittenza.

Finalmente la sera la buona notizia: esco. Scatto dal letto, correndo su quelle scarpe senza lacci. "Li rimetti ora?". No, voglio uscire subito. Dalla cella più isolata sento una preghiera "Non ti scordare di me per favore". Non lo farò. La ragazza in lacrime arrivata la mattina mi saluta. Chissà se ce la farà. Respiro. Gli abbracci, i baci, la felicità, i festeggiamenti poi, li abbiamo vissuti insieme. Questo invece è quello che vi posso raccontare nei tre giorni che ho passato solo fisicamente lontana da voi. Di come hanno provato a privarci della libertà, ma non ci sono riusciti. Di come non ci si sente soli quando si ha qualcuno fuori che urla e combatte con te. Della solitudine che può essere sconfitta quando si ha la consapevolezza di avere dei compagni al tuo fianco. Di come i detenuti ti accolgano e ti accudiscano con un amore enorme. Quando si ha tutto questo, niente può buttarti giù. "Si parte e si torna insieme", questo mi sono ripetuta nei momenti di sconforto. Non ho mai smesso di dubitarne. Hanno provato a piegarci, a spezzarci, a romperci, a metterci paura. Noi invece torniamo più forti di prima. Non ci hanno nemmeno scalfito.

mercoledì 21 novembre 2012

DIECI VOLTE PEGGIO DEI NAZISTI
Postato il Martedì, 20 novembre @ 06:00:24 CST di davide

Informazione Repubblica cancella il post di Odifreddi su Israele. Lui lascia: “Meglio fermarsi”
Il matematico aveva scritto parole dure sul conflitto in Medio Oriente accusando lo Stato ebraico di "logica nazista", ma il suo intervento è scomparso dopo 24 ore. Oggi il saluto ai lettori: "Continuare sarebbe un problema. D’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso o scrivo può non essere gradito a coloro che lo leggono"

Un post pubblicato domenica. Tema: il conflitto israelo-palestinese che in questi giorni sta vivendo un’altra pagina dai toni drammatici. Una presa di posizione molto dura nei confronti dello Stato ebraico, accusato di “logica nazista” nei confronti dei palestinesi.

Di seguito il post di Odifreddi cancellato dal blog

Ma la rimozione del suo intervento dal sito di Repubblica.it ha colto di sorpresa Piergiorgio Odifreddi (matematico, divulgatore scientifico, diventato noto anche per le sue posizioni critiche alla Chiesa cattolica). Ieri sera, infatti, il suo post nel blog “Il non senso della vita” non c’era più. Tanto è bastato, comunque, perché Odifreddi decidesse di scrivere un ultimo intervento, di commiato, per salutare i numerosi lettori che lo hanno seguito fin qui. D’altronde l’intervento in un blog non riflette la linea editoriale del giornale, che del resto nei casi più controversi – come potrebbe essere questo – può scegliere di pubblicare due interventi in antitesi (l’uno che intende confutare l’altro), davanti ai quali i lettori possono confrontarsi.

“Per 809 giorni Repubblica.it ha generosamente ospitato le mie riflessioni – scrive Odifreddi nel suo saluto – che spesso non coincidevano con la linea editoriale del giornale, e ha offerto loro l’invidiabile visibilità non solo del suo sito, ma anche di un richiamo speciale nella sezione Pubblico. Da parte mia, ho approfittato di questa ospitalità per parlare in libertà anche di temi scabrosi e non politically correct, che vertevano spesso su questioni controverse di scienza, filosofia, religione e politica. Naturalmente, sapevo bene che toccare temi sensibili poteva provocare la reazione pavloviana delle persone ipersensibili. Puntualmente, vari post hanno stimolato valanghe (centinaia, e a volte migliaia) di commenti, e aperto discussioni che hanno fatto di questo blog un gradito spazio di libertà. Altrettanto naturalmente, sapevo bene che la sponsorizzazione di Repubblica.it poteva riversare sul sito e sul giornale proteste direttamente proporzionali alla cattiva coscienza di chi si sentiva messo in discussione o criticato”.

“Immagino che il direttore del giornale e i curatori del sito abbiano spesso ricevuto lagnanze, molte delle quali probabilmente in latino – ammette – Ma devo riconoscere loro di non averne mai lasciato trasparire più che un vago sentore, e di aver sempre sposato la massima di Voltaire: ‘Detesto ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo’. Mai e sempre, fino a ieri, quando anche loro hanno dovuto soccombere di fronte ad altre lagnanze, questa volta sicuramente in ebraico”. Ma poi, ieri, ecco la cancellazione del post che “non è, di per sé, un grande problema: soprattutto nell’era dell’informatica, quando tutto ciò che si mette in rete viene clonato e continua comunque a esistere e circolare. Non è neppure un grande problema il fatto che una parte della comunità ebraica italiana non condivida le opinioni su Israele espresse non soltanto da José Saramago e Noam Chomsky, al cui insegnamento immodestamente mi ispiro, ma anche e soprattutto dai molti cittadini israeliani democratici che non approvano la politica del loro governo, ai quali vanno la mia ammirazione e la mia solidarietà”.

“Il problema, piccolo e puramente individuale, è che se continuassi a tenere il blog, d’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso o scrivo può non essere gradito a coloro che lo leggono: qualunque lingua, viva o morta, essi usino per protestare – Dovrei, cioè, diventare ‘passivamente responsabile’, per evitare di non procurare guai. Ma poiché per natura io mi sento ‘attivamente irresponsabile’, nel senso in cui Richard Feynman dichiarava di sentirsi in Il piacere di trovare le cose, preferisco fermarmi qui”. “Tenere questo blog è stata una bella esperienza, di pensiero e di vita, e ringrazio non solo coloro che l’hanno ospitato e difeso, ma anche e soprattutto coloro che vi hanno partecipato – conclude Odifreddi – La vita, con o senza senso, continua. Ma ci sono momenti in cui, candidamente, bisogna ritirarsi a coltivare il proprio giardino”.

Ma la scomparsa improvvisa del post aveva scatenato proprio i frequentatori più assidui del blog di Odifreddi che, utilizzando lo spazio del suo articolo precedente, non solo hanno chiesto insistentemente al matematico come mai quel testo fosse stato rimosso, ma lo hanno copiato e incollato a beneficio di chi non l’avesse letto. A quel punto, certo, si è sviluppato il dibattito tra chi è d’accordo con la tesi di Odifreddi e chi non lo è. ”Non c’era nessun delirio antisemita, filoislamico, comunista. Solo una condanna alla violenza” scriveva B.dg. ”Il post – secondo Giulioru – è un minkiata se l’ha o gliel’hanno tolto hanno fatto bene, non per i contenuti che sono aleatori come tutte le informazioni che ci imboccano, ma per l’uso di paragoni matematici che sono infantili e inopportuni. Uno, 10, 100 non è questione di moltipliche ma di follia umana che non ha formule né tempo né luoghi”.

I lettori del blog ora commentano invece l’addio del matematico al blog: “Con l’ultimo thread non ero d’accordo, come ho scritto – interviene Nivadi – Ciò non toglie che desidero continuare a leggere osservazioni non convenzionali e stimolanti facci sapere dove potremo leggerti. Smetterò di leggere il sito di Repubblica”. “Che gran peccato, il suo blog mi ha sempre offerto dei grossi spunti di riflessione – dice lucajeck_01 - A volte mi sono trovato in disaccordo con le sue vedute, ma è stato un piacere anche quello, poter testare il mio senso critico su argomenti complessi o comunque su punti di vista particolari è stato stimolante”.

Di seguito il post di Odifreddi cancellato dal blog

Dieci volte peggio dei nazisti (18)


Uno dei crimini più efferati dell’occupazione nazista in Italia fu la strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi “giustiziarono”, secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335 italiani in rappresaglia per l’attentato di via Rasella compiuto dalla resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32 militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna della “legge del taglione”, che sostituiva la proporzione uno a uno del motto “occhio per occhio, dente per dente” con una proporzione di dieci a uno, fu Hitler in persona.

Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l’ordine a Herbert Kappler, l’ufficiale delle SS che si era già messo in luce l’anno prima, nell’ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E quest’ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte 15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo la guerra Kesselring fu condannato a morte per l’eccidio, ma la pena fu commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu scarcerato per “motivi di salute” (tra virgolette, perché sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich Priebke furono condannati all’ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel 1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a Roma, nonostante sia ormai quasi centenario.

In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe. Il che d’altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per punire l’Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore! Cosa succederà durante l’invasione, è facilmente prevedibile. Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi.

Ma a far condannare all’ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?

Piergiorgio Odifreddi
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it

martedì 6 novembre 2012

SULCIS IN FUNDO

SULCIS IN FUNDO

di LUCA PAKAROV
rollingstonemagazine.it

Scendendo da Cagliari verso Carbonia la prima cosa che balza all’occhio è l’assenza di furgoni o camion nella strada principale, alla guida molti anziani con cappello, qualche famiglia, pochissimi giovani. A destra e a sinistra calve colline rosse brillanti che ricordano il Grand Canyon, nemmeno un’anima, piccoli bacini porpora o nella tortuosa e suggestiva strada da Nebida a Masua, coste mozzafiato, mare cristallino, cielo tridimensionale, indimenticabili location di spot pubblicitari.

Nel sud della Sardegna inferno e paradiso non si distinguono più. Anche quello che all’apparenza sembra un motivo paesaggistico è emanazione del mondo torvo e impenetrabile delle viscere che per decenni ha garantito la vita in superficie.


Le colline e i placidi laghi rossi sono antiche discariche di piombo, alluminia, zolfo e bauxite, “dimenticanze” delle miniere chiuse in tutta fretta negli anni ’60, “dimenticanze” di ogni amministrazione politica e immobile disastro ambientale. Le rovine grigie delle antiche miniere emergono dai costoni come denti marci e sembrano vecchie e malvagie sentinelle di un presente assente, un mondo del lavoro in bianco e nero, ormai perduto ed eroico, a cui è stato voltato le spalle. Le montagne ogni tanto franano a causa di un sottosuolo scavato come Emmental. Tracce di una dura civiltà, sudore, buio, polvere, morte, che invece di essere ripudiata richiama l’orgoglio per una tradizione che adesso, scopri, esiste ancora 400 metri sotto la statale. E non siamo in Metropolis di Fritz Lang, anche se, come nel film, pure in Italia la subdola operazione che si sta compiendo è quella di nascondere gli operai, come fossero estinti.

Il Sulcis Iglesiente è terra di emigrazione e di immigrazione. Notate bene immigrazione. E anche se oggi troviamo comunità di montatori, saldatori e altri professionisti in Kazakistan, in Siberia e in Sudafrica, basta buttare un occhio sui cognomi nelle lapidi dei cimiteri o sull’elenco del telefono per capire che qui la gente arrivava da ogni parte d’Italia per farsi una vita.

Ma è una storia di umiliazioni e tradimenti in cui sono i lavoratori le vittime di un sistema che timbra carte lontano dall’isola, che promette, muove vagonate di soldi e ferma quelle di carbone per interessi personali, in cui si decide di fermare l’unica azienda che produce alluminio per comprarlo dall’estero. Dove anche la criminalità organizzata abbandona il territorio perché non ci sono soldi da intercettare. Restano i demoni di sempre: affaristi, clientelismo, private necessità, incompetenza e un confronto bovino fra politici perversi.

L’unico Stato Sociale riconosciuto nella terra più povera d’Italia è la famiglia, le pensioni dei vecchi minatori (che, attenzione, stanno finendo, con tutto quello che ne conseguirà quando a breve si arriverà al dunque), gli amici che, in disoccupazione, vengono ad aggiustarti una porta o l’auto che non si avvia. Una solidarietà d’altri tempi perennemente in attività, che si palesa quando, durante lo sciopero generale di Carbonia del 2009, l’intera popolazione (il 100%!) scende in strada e partecipa. C'è stato uno sciopero generale anche oggi, 29 ottobre, proclamato da Cgil, Cisl e Uil territoriali, come ha dichiarato Fabio Enne, segretario generale della Cisl del Sulcis, ad Adnkronos, "per sollecitare gli atti e le azioni urgentissime e concrete in capo alla responsabilità della Giunta regionale, e perché sia chiaro al Governo che l'impegno assunto dallo stesso esecutivo nazionale per il 13 novembre deve accompagnarsi con altrettanti atti immediatamente realizzabili a contrasto della crisi".

Ci si chiede, come mai si vuole chiudere una delle fabbriche che produce l’alluminio migliore d’Europa? Perché si boicotta lo stabilimento spostando le produzioni altrove? Perché si mandano in malora fabbriche che poi, anche per mancanza di un progetto di bonifica, fanno più danni quando sono chiuse? Non servono nozioni astronomiche per capirlo, anche se parrebbe.
Pure se lontani da Roma, nell’isola c’è una classe politica completamente staccata dalla realtà, inerte, che non prende decisioni industriali ma solo politiche, che condanna al declino centinaia di famiglie. Qui il rapace sindaco di Iglesias, poi parlamentare, Mauro Pili del PDL, si chiuse di sua iniziativa nella miniera di Nuraxi Figus, per protesta, senza fare un’assemblea generale. Un atto politico che ha avuto molto eco al di là del Tirreno ma mal digerito dai suoi concittadini che, ancora una volta, hanno dovuto fare i conti con la speculazione emozionale di chi cerca di ribaltare i propri errori con atti clamorosi ma per niente efficaci.

La domanda, dal di fuori è: chi ve lo fa fare di lottare per un posto di lavoro del genere? Gianfranco, ex-giornalista che mi accompagna, mi fa notare: «Nel Sulcis c’è una cultura industriale radicata nel territorio, chi lavora non guarda se è sabato, domenica o Natale». C’è da ricordare che dopo la mattanza di Buggerru nella quale tre minatori persero la vita per manifestare contro la riduzione della pausa pranzo da 3 ore a un’ora, ci fu nel 1904 il primo sciopero generale italiano. Qualcosa di più di un evento storico perché, i nostri diritti, quelli che giorno per giorno ed efficacemente – c’è da dargliene atto – smantellano, sono nati proprio da lì. Anche per questo gli operai con i sindacati hanno una fortissima capacità di mobilitazione e di gestione politica della mobilitazione. Sempre Gianfranco mi racconta: «Quando preparavo la scaletta delle interviste, prima del sindaco e del vescovo, mettevo per importanza il segretario della CGIL di Carbonia ed Iglesias». Ed io eseguo di conseguenza.
Carbonia nacque con Regio Decreto dai deliri autarchici di Mussolini. È una grande piazza vuota delimitata dalla massiccia architettura fascista in cui spicca la Torre Littoria. Lontana dai contagi del continente, come in un garbato esilio, oggi si sta spegnendo. Qui c’è anche quella che fu la più grande miniera d’Italia, quella di Serbariu, 130 pazzeschi chilometri di tunnel dove, all’epoca, la propaganda del regime fotografava pasciute e sorridenti comparse travestite da minatori che raccontavano la miniera come un piacevole luogo di villeggiatura.

Roberto Puddu, segretario generale CGIL del Sulcis Iglesiente, mi spiega che con il presidente della provincia Soru c’era una leadership e un progetto definito, il suo problema, però, era che voleva vincere per il popolo e non con il popolo. Faccio la prima provocatoria domanda: «Ma a cosa servono queste aziende se è vero che non producono utili?». Mi viene risposto con una domanda – e provate a rispondere da soli – qual è il settore attualmente che non riceve aiuti? «Ferrara, per il suo giornale, prende 4milioni di euro per pubblicare 4 fogli, in proporzione abbiamo calcolato che vale 46 volte l’aiuto offerto per l’energia elettrica necessario alla produzione di alluminio. Solo che con quest’ultimo si mantengono migliaia di lavoratori». In effetti, in tutto il mondo, si elargiscono contributi pubblici che abbattono i costi della produzione di alluminio: «Se non ci fossero i contributi l’alluminio invece di 2200 dollari costerebbe 6800, e tu questo registratore lo pagheresti 200 euro invece che 100». Eppure sembra che soldi ne arrivino, solo che vengono spesi male: «La Regione avviò a Iglesias l’unica fabbrica di lana di roccia del Paese. Poi è stata ceduta ai privati con l’obbligo di esercirla per almeno 5 anni, sono arrivati a 7, hanno fatto un sacco di soldi, l’hanno smontata e portata in India. Duecento disoccupati».

Anche se in pochi credono al processo di riconversione ad energie non inquinanti quello che i sindacati vorrebbero è di aumentare l’estrazione e miscelare il carbone con altri combustibili per soddisfare, almeno in parte, la fame di energia elettrica del Paese, come cioè fanno in Germania con la lignite che usano in toto. Per far questo bisognerebbe invertire la politica industriale e investire in tecnologie innovative. Bisognerebbe, perché è arrivata prima la politica con tutti i suoi galoppini che ha bloccato anche l’altra risorsa, il turismo, fermando il progetto di unire l’aeroporto di Cagliari con la linea ferroviaria.

E, infatti, lentamente la conversazione finisce su Berlusconi che nell’incontro con i sindaci e la regione prima delle elezioni, raccontò barzellette e di un’improbabile, salvifica, telefonata a Putin per non far chiudere l’Eurallumina, in mano della russa RusAl. Il PDL vinse le elezioni con Cappellacci, la fabbrica qualche mese dopo chiuse, 750 lavoratori per strada. Fu il primo atto dello sfascio dell’intera filiera. Quello che chiaramente vuole dirmi Puddu è come certe tragedie che non lasciano indifferente l’opinione pubblica siano una cassa di risonanza che favoriscono, oltre all’esposizione mediatica dei politici, il finto interessamento di aziende minori nella trattativa per l’acquisizione di Alcoa al solo scopo di ottenere pubblicità (come nel caso della KiteGen di Torino che garantiva una nuova tecnologia che mandava nella stratosfera aquiloni per ottenere energia pulita o qualcosa del genere). «Il protagonismo quando non si riconduce ad un’organizzazione diventa personalismo ed individualismo... Uno si salva, ma gli altri?».

Quando chiedo qual è il piano d’emergenza, cosa succederebbe se chiudessero Alcoa e/o Carbosulcis, la risposta è lapidaria: «Il disastro». Il carbone allora si capisce bene è più di un fossile, è dignità e spessore culturale di un territorio e che non mantenerlo, oltre alla incredibile logica di dover comprare carbone ed alluminio dall’estero, si tradurrebbe in costi molto maggiori, a livello economico e sociale.
Sostituisco vescovo e sindaco con Roberto Cossu, trentacinquenne che non a caso si fa chiamare Diablo – nemmeno troppo vago omaggio ai Litfiba – ed ex-interinale Alcoa, voce dei Golaseca, un gruppo rock formato per tre quinti da dipendenti della grande azienda di Portovesme, che hanno dedicato il loro demo al matriarcato. «Si sta fra l’incudine e il martello, da una parte non si può morire di fame e dall’altra non si può morire di malattia». E ok, ma quello che più mi meraviglia per un musicista è la sua voglia di rimanere sul territorio dov’è nato. Mi racconta di quando ha continuato a lavorare con un dito rotto perché in ostaggio dal ricatto non scritto del rinnovo del contratto, come accade ai suoi colleghi. Impieghi che molti di noi non si sognerebbero di fare ma che, per ottenere un contratto, bisogna sgomitare.

«Nell’Alcoa non si lotta per gli ammortizzatori sociali, si lotta per lavorare. Per un lavoro svolto con la maschera antigas, con la polvere o con dei forni a 1400 gradi. Cassa integrazione e mobilità sono la morte dell’uomo». Fa autocritica Roberto: «Gli permettiamo di trattarci come vogliono», ma per il resto ha le idee fin troppo chiare: «Hai presente l’esplosivo che hanno trovato vicino all’Alcoa prima della manifestazione del 10 settembre? Anche se la stampa ha raccontato che si trattava di un ordigno fasullo, erano candelotti pronti, senza innesco... E infatti li hanno fatti detonare. È come dire: sappiate che qui il plastico non ci manca». «E c’è gente disposto ad usarlo?». «Secondo te? C’è gente disposto ad usarlo e che sa usarlo, stai parlando di persone disperate». Specifica che nessuno vuole arrivare alla violenza però la situazione è tesa: «Sono padri di famiglia, è gente che se parte non si ferma più». Conclude dicendo: «Questa nazione è un incubo».

Un dato significativo è che nell’ultimo anno l’incredibile spopolamento della regione si è bloccato poiché i lavoratori non hanno le capacità economiche di portare con sé le famiglie, preferendo inviare soldi a casa. I numeri sono impressionanti. La contraddizione, che poi non è una contraddizione se si pensa allo sfruttamento del lavoro, è che quando un’occupazione durissima diventa civile, con degli standard che permettono almeno qualche speranza di vita, non serve più. Il discorso all’oggi vale per ogni settore. Quello che succederà tra poco nessuno lo sa, pochi stanno tranquilli, chissà non si riparta proprio da Buggerru.
Luca Pakarov
Fonte: www.rollingstonemagazine.it

sabato 29 settembre 2012

Quando l’arroganza veste l’abito talare.


“Ma se in un luogo non vi si ricevesse,
né vi si desse ascolto, andate via di là
e scuotete la polvere da sotto i vostri piedi
in testimonianza contro di essi”
(Vangelo di Marco, 6,11)
E’ la seconda volta che Angelo Pittau mi mette alla porta come persona non gradita. La prima qualche mese fa in margine a un convegno sul volontariato, l’ultima oggi, 28 settembre, in occasione della commemorazione del vescovo Antonio Tedde, a 30 anni dalla morte. Avanzando la pretestuosa motivazione che il convegno era a invito, mi ha chiesto di allontanami come persona, appunto, non gradita. Gli ho solo risposto che me ne andavo scuotendo la polvere da sotto i piedi come al versetto di Marco di cui sopra. Avrei dovuto ben capire che questo figuro nutre nei miei confronti un astio mal e mai celato: evidentemente non ama le persone che ritengono di avere un cervello e si sforzano di farlo funzionare. Appare evidente da più segnali che la chiesa, anche nel nostro territorio, oggi è ripiegata in una autocelebrazione del passato e della ritualità a scapito della profezia e della speranza. Non si coglie ricerca autentica. Non c’è vera inquietudine, quella produttiva del cambiamento. Nessun’ansia di rinnovamento. La gente si agita (o meglio la si manovra) moltissimo in mille iniziative ma non si riflette mai sulla prospettiva, sulla direzione da prendere per il domani. Non molto tempo fa mi permisi di suggerire un incontro-dibattito sui vari scandali del Vaticano: ottenni un netto rifiuto debolmente motivato da risibili motivazioni, come becero attacco anticlericale, menzogne dei mass-media, e simili idiozie.
Insomma la chiesa locale assomiglia sempre più a una consorteria di amici degli amici che a quella realtà in divenire che una volta si definiva popolo di Dio.
Stai tranquillo, Angelo Pittau: d’ora in poi mi guarderò bene dal frequentare i tuoi convegni e pseudo dibattiti sia pure promossi da un sedicente “centro culturale di alta formazione”!


Gian Paolo Marcialis


lunedì 17 settembre 2012

Hannannakaiu: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. ...

Hannannakaiu: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. ...: Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna. Caro Giovanni, ciò che ora mi accingo a scriverti avrei voluto dirtelo quando eri ancor...
Lettera al mio caro amico prete, Giovanni Pinna.


Caro Giovanni,
ciò che ora mi accingo a scriverti avrei voluto dirtelo quando eri ancora tra noi. Ma purtroppo la vita ci ha un po’ allontanati ed io non ho potuto comunicartelo. Sono tante le cose che mi hai lasciato. La prima cosa il tuo amore verso l’America Latina, in particolare il Perù: attraverso i tuoi racconti, che a volte duravano ore, io restavo incantata ad ascoltarti di quel mondo a me sconosciuto. Poi, nella vita e negli anni hai portato anche me ad amare quei posti meravigliosi e conoscere il modo di vivere di quei popoli, la loro povertà ma anche la loro gioia di vivere, nonostante tutto…
Mi hai fatto conoscere anche due grandi sacerdoti, Oscar Romero, ucciso sull’altare dalla dittatura salvadoregna perché aveva scelto di stare dalla parte dei poveri: anche tu ti sei sempre schierato dalla parte degli ultimi. L’altro è stato don Ignazio Garau, di Ussaramanna, grandissimo uomo e sacerdote: Anche lui ha fatto l’esperienza dell’America Latina, a Curanilahue, un piccolo centro minerario del Cile.
Conservo un ricordo indelebile delle messe celebrate in mezzo alla natura, dove ognuno di noi poteva parlare ed esprimere il proprio pensiero, nei campeggi di Sibiri e Perd’e Pibera con gli amici di Villacidro e Ussaramanna, San Gavino…
Ho un grande rimpianto: non averti potuto salutare quando non stavi più bene in salute e poterti
dire “grazie” per tutto quello che mi hai insegnato. Tu forse non te ne sei mai accorto, ma tutto quello che nella mia vita ho fatto, l’ho fatto grazie anche ai tuoi insegnamenti e alla tua testimonianza.
Grazie, Giovanni, perché tu sarai sempre nei miei pensieri più belli e positivi! Cercherò ancora di portare avanti tutte le belle cose che mi hai trasmesso: l’amore per la libertà, la giustizia, l’amicizia.
Ciao, Giovanni !

Fanari Giuliana
L MASSACRO DIMENTICATO


Israele / Palestina DI ROBERT FISK
independent.co.uk

Sabra e Chatila. Entrai in quel campo, ecco ciò che vidi



Quei ricordi, ovviamente, non si cancellano. Lo sa bene l’uomo che aveva perso la sua famiglia in un precedente massacro e poi vide, impotente, i giovani di Chatila costretti a mettersi in fila e a marciare verso la morte. Ma il tanfo dell’ingiustizia soffoca ancora i campi profughi nei quali esattamente 30 anni fa furono massacrati 1700 palestinesi. Nessuno è stato processato e tanto meno condannato per quel massacro, che persino uno scrittore israeliano paragonò all’assassinio dei partigiani jugoslavi ad opera dei simpatizzanti nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Sabra e Chatila sono un monumento eretto ai criminali che l’hanno fatta franca.

KHAKED ABU Noor era un adolescente, un futuro miliziano ed era partito per le montagne poco prima che i falangisti alleati di Israele facessero irruzione. Si sente in colpa per non aver potuto combattere contro i violentatori e gli assassini? “Il sentimento che ci accomuna è la depressione”, mi risponde. “Abbiamo chiesto giustizia, abbiamo invocato processi internazionali, ma nulla è accaduto.

Nemmeno una sola persona è stata ritenuta colpevole di quell’orrore. Nessuno è finito dinanzi ad un tribunale. Forse per questo abbiamo dovuto soffrire ancora nella guerra del 1986 (per mano dei libanesi sciiti) e forse per questo gli israeliani hanno potuto massacrare moltissimi palestinesi nel 2008-2009 durante l’invasione di Gaza. Se i responsabili del massacro di trenta anni fa fossero stati processati, non ci sarebbero stati i morti di Gaza”. Ha le sue ragioni per pensarla a questo modo. L’11 settembre a Manhattan decine di presidenti e primi ministri hanno fatto la fila per commemorare le vittime dell’attentato criminale al World Trade Center, ma nemmeno un leader occidentale ha avuto il coraggio di far visita alle fosse comuni sudice e spoglie di Sabra e Chatila. Ad onor del vero, va detto che in trenta anni nemmeno un solo leader arabo si è preso la briga di visitare il luogo in cui riposano almeno 600 delle 1700 vittime. I potenti del mondo arabo piangono, a parole, per la sorte dei palestinesi massacrati nei campi, ma nessuno ha voluto affrontare un breve volo per rendere omaggio a questi morti dimenticati.

E poi chi se la sente di offendere gli israeliani o gli americani?

Per ironia – ma significativa – del destino, il solo Paese che ha svolto una seria indagine ufficiale, pur finita in un nulla di fatto, è stato Israele. L’esercito israeliano lasciò entrare gli assassini nei campi e rimase a guardare senza intervenire mentre le atrocità si consumavano.

La testimonianza più significativa è quella fornita dal sottotenente israeliano Avi Grabowsky. La Commissione Kahan ritenne l’allora ministro della Difesa di Israele, Ariel Sharon, personalmente responsabile per aver consentito ai sanguinari falangisti anti-palestinesi di fare irruzione nei campi “per ripulirli dai terroristi” – rivelatisi inesistenti come le armi di distruzione di massa dell’Iraq 21 anni dopo. Sharon fu costretto a dimettersi, ma in seguito divenne primo ministro fin quando fu colpito da un ictus. Elie Hobeika, il leader della milizia cristiana libanese che guidò gli uomini nei campi – dopo che Sharon aveva detto ai falangisti che i palestinesi avevano appena assassinato il loro capo Bashir Gemayel – fu assassinato qualche anno dopo nella zona est di Beirut. I suoi nemici dissero che era stato ucciso dai siriani, i suoi amici incolparono gli israeliani. Hobeika, che aveva stretto una alleanza con i siriani, aveva appena annunciato che avrebbe “detto tutto” sulle atrocità di Sabra e Chatila dinanzi ad un tribunale belga che voleva processare Sharon.

Naturalmente quanti di noi entrarono nei campi il terzo e ultimo giorno del massacro – il 18 settembre 1982 – hanno i loro ricordi. Io ricordo il vecchio in pigiama disteso a terra supino nella strada principale del campo con accanto il suo innocente bastone da passeggio, le due donne e il bambino uccisi accanto a un cavallo morto, la casa privata nella quale mi nascosi dagli assassini insieme al collega del Washington Post, Loren Jenkins. Nel cortile della casa trovammo il cadavere di una giovane. Alcune donne erano state stuprate prima di essere uccise.

Ricordo anche la nuvola di mosche, l’odore penetrante della decomposizione. Queste cose le ricordo bene.

ABU MAHER ha 65 anni. La sua famiglia era fuggita da Safad, oggi Israele, e abitava nel campo profughi nei giorni del massacro. Sulle prime non voleva credere alle donne e ai bambini che gli dicevano di scappare. “Una vicina di casa cominciò ad urlare, guardai fuori e vidi mentre la uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. La figlia tentò di fuggire; gli assassini la inseguirono gridando ‘Ammazziamola, ammazziamola, non ce la lasciamo sfuggire!’. Lanciò un grido verso di me, ma io non potevo fare nulla. Ma riuscì a salvarsi”. Le ripetute visite ai campi, anno dopo anno, hanno creato una sorta di narrazione ricca di stupefacenti particolari. Le indagini condotte da Karsten Tveit della Radio norvegese e da me hanno provato che molti uomini, proprio quelli che Abu Maher vide marciare ancora vivi dopo il massacro iniziale, in seguito furono consegnati dagli israeliani agli assassini falangisti che li tennero prigionieri e Beirut est per diversi giorni e, quando si resero conto che non potevano servirsene per scambiarli con ostaggi cristiani, li giustiziarono e li seppellirono in fosse comuni. Altrettanto atroci e crudeli le argomentazioni a favore del perdono. Perché ricordare alcune centinaia di palestinesi massacrati quando in 19 mesi in Siria furono uccise 25.000 persone?

I sostenitori di Israele e i critici del mondo musulmano negli ultimi due anni mi hanno scritto insultandomi per aver più volte raccontato il massacro di Sabra e Chatila, come se il mio resoconto di testimone di quelle atrocità fosse soggetto alla prescrizione. Sulla base dei miei interventi su Sabra e Chatila raffrontati con miei articoli sull’oppressione turca, un lettore mi ha scritto che “sono portato a concludere che nel caso di Sabra e Chatila, lei mostra un pregiudizio contro Israele. Giungo a questa conclusione per il numero sproporzionato di citazioni di questa atrocità…”. Ma è possibile esagerare nel ricordare un massacro?

La dottoressa Bayan al-Hout, vedova dell’ex ambasciatore a Beirut dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha scritto la più autorevole e dettagliata ricostruzione dei crimini di guerra di Sabra e Chatila – perché di questo si è trattato – ed è giunta alla conclusione che negli anni seguenti la gente aveva paura a ricordare.

“POI ALCUNI gruppi internazionali hanno cominciato a parlarne. Dobbiamo ricordare: le vittime portano ancora le cicatrici di quei fatti e ne saranno segnati anche coloro che debbono ancora nascere”. Alla fine del libro, al-Hout pone alcuni interrogativi difficili e pericolosi: “Gli assassini sono stati i soli responsabili? Possiamo definire criminali solo gli autori del massacro? Solo chi diede gli ordini può essere considerato responsabile? ”.

In altre parole, non è forse vero che il Libano aveva un parte di responsabilità a causa dei falangisti, Israele un’altra parte a causa del comportamento del suo esercito, l’Occidente un’altra parte per avere Israele come alleato e gli arabi un’altra parte per avere gli americani come alleati? Al-Hout chiude citando le parole con le quali il rabbino Abraham Heschel si scagliò contro la guerra del Vietnam: “In una società libera alcuni sono colpevoli, ma tutti sono responsabili”.

Versione originale:

Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk
Link: http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/the-forgotten-massacre-8139930.html
15.09.2012

Versione italiana:

Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
16.09.2012

Traduzione a cura di Carlo Biscotto

sabato 9 giugno 2012


Ior, Gotti Tedeschi ‘spiato’ da un medico. “Disfunzioni psicopatologiche, va cacciato”
I documenti che pubblichiamo in esclusiva oggi sarebbero una buona base per un legal thriller dentro le mura leonine. Nemmeno John Grisham e Dan Brown avevano ipotizzato la seguente scena descritta in una delle lettere: Pietro Lasalvia, “psicoterapeuta e ipnoterapeuta”, come scrive nell’incipit della sua roboante carta intestata (nella quale prosegue vantando le seguenti specializzazioni: “psicoterapia occupazionale; perfezionato in psichiatria di consultazione, e clinica pscicosomatica; specializzazione in psicoterapia; iscritto nell’elenco degli psicoterapeuti presso l’Ordine dei medici; professore a contratto presso il corso di laurea nella professione sanitaria, seconda facoltà di medicina e chirurgia La Sapienza”) nel marzo scorso arriva a scrivere una sorta di diagnosi a scoppio ritardato sul conto del presidente dello Ior. Lasalvia è un medico che si occupa della salute sul lavoro dei dipendenti dello Ior ed è in ottimi rapporti con Paolo Cipriani, il direttore generale, il vero uomo forte dello Ior, che è in forte contrasto con Gotti Tedeschi.

La festa di Natale
Prima delle feste di Natale 2011 viene invitato a un rinfresco allo Ior e, casualmente, per tutta la serata osserva a sua insaputa il comportamento del presidente dello Ior sotto il profilo medico per poi stilare un rapportino che finisce però solo tre mesi dopo, caualmente quando infuria lo scontro su Gotti, tramite la direzione generale dello Ior, sul tavolo della Segreteria di Stato. Questa sorta di certificato diventa così un’arma che i nemici del presidente brandiscono sulla sua testa e che dà forza e fondamento medico ad altri due documenti che pubblichiamo: la lettera del segretario del consiglio dello Ior Carl A. Anderson e la missiva del vicepresidente Ronaldo Hermann Schmitz. Entrambe le lettere dei due uomini forti dello Ior sono dirette a Tarcisio Bertone e contengono accuse pesantissime a Gotti Tedeschi.

Complotto giudaico-massonico
Le due lettere sono scritte alla vigilia del consiglio del 24 maggio che segnerà la sfiducia e la cacciata di Gotti Tedeschi e sono indirizzate al “primo ministro” del Vaticano per chiedere la testa di Gotti.

Nei giorni precedenti Gotti Tedeschi ha scritto una lettera al cardinale Tarcisio Bertone per affermare una tesi che non nasconde anche nei colloqui con alti prelati e personaggi delle istituzioni italiane. Il presidente dello Ior (che teme per la sua vita) sa di avere i giorni contati alla presidenza dello Ior. Con Bertone e i suoi referenti in Curia punta il dito contro un complotto massonico che vorrebbe farlo fuori. Indica anche i nomi dei suoi presunti nemici. Tra questi personaggi molto influenti non solo in Vaticano, come il notaio Antonio Maria Marocco di Torino, che in realtà è molto vicino al cardinale Tarcisio Bertone da decenni. Il presidente dello Ior poi cita l’avvocato Michele Briamonte dello studio Grande Stevens, che sarebbe secondo lui vicino alla lobby ebraica perché è uno dei fondatori della camera di commercio italo-israeliana della quale per la verità fanno parte anche personaggi di primissimo piano della vita pubblica italiana. I rapporti sono tesi con Gotti Tedeschi da quando aveva fatto dichiarazioni imprudenti, secondo la Segreteria di Stato, con la Procura di Roma, ammettendo l’esistenza di conti cifrati nello Ior.

Un mistero custodito con cura per decenni era stato spiattellato in un verbale dal presidente della Banca più riservata del mondo.

La fine
Da quel momento la fine di Gotti è segnata. Poi c’è il braccio di ferro a dicembre del 2011 sulla legge antiriciclaggio e i rapporti si fanno ancora più tesi quando le carte escono sul Fatto. Ma la goccia che fa traboccare il vaso è quando il neo nominato presidente del Monte Paschi di Siena, Alessandro Profumo, va a fare visita a Gotti Tedeschi e gli riferisce di avere ricevuto confidenze da personaggi influenti in Segreteria di Stato che Gotti Tedeschi di lì a pochi giorni sarà fatto fuori. Come a dire: “Non parlargli di cose delicate che ormai non conta più nulla”. Gotti Tedeschi viene fatto fuori il 24 maggio.

Due giorni prima il vicepresidente Hermann Schmitz, che ora è diventato presidente, scrive al Segretario di Stato Tarcisio Bertone: “Mi aspetto con fiducia che Sua Eminenza ponga fine immediatamente al mandato del presidente Gotti. Non desidero continuare a prestare servizio in un Consiglio con Gotti Tedeschi. Pertanto nel caso in cui il presidente non fosse sollevato dall’incarico dopo un voto di sfiducia da parte del Consiglio, rassegnerò le dimissioni entro e non oltre la fine di maggio 2012”. Nelle stesse ore il segretario del consiglio Carl A. Anderson scrive: “Sono giunto alla conclusione, dopo molte preghiere e riflessioni, che Gotti Tedeschi non sia in grado di guidare l’Istituto in tempi difficili come questi”. Le due lettere vanno lette alla luce del comunicato stampa di ieri del Vaticano.

Il bollettino della Santa Sede, dopo la premessa banale sulla “sorpresa e preoccupazione per l’inchiesta”, lancia un avvertimento allo Stato italiano “la Santa Sede ripone la massima fiducia nell’autorità giudiziaria italiana che le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall’ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate”. Poi, dopo la conferma dell’appoggio incondizionato al direttore generale dello Ior Cipriani, che Gotti Tedeschi avversava (“La Santa Sede conferma inoltre la sua piena fiducia nelle persone che dedicano la loro opera con impegno e professionalità all’Istituto per le Opere di Religione e sta esaminando con la massima cura l’eventuale lesività delle circostanze, nei confronti dei diritti propri e dei suoi organi”) arriva la parte più interessante, dedicata a Gotti Tedeschi:. “Si ribadisce, infine, che la mozione di sfiducia adottata nei confronti del Prof. Gotti Tedeschi da parte delConsiglio di Sovrintendenza è stata fondata su motivi oggettivi, attinenti alla governance dell’Istituto, e non determinata da una presunta opposizione alla linea della trasparenza, che anzi sta a cuore alle Autorità della Santa Sede, come allo Ior”.

Le perquisizioni
La linea di contrattacco del Vaticano dopo la perquisizione e il primo interrogatorio all’ex presidente dello Ior è arrivata ieri con un bollettino chiarissimo: Ettore Gotti Tedeschi non è stato cacciato dallo Ior perché voleva la trasparenza dei conti bancari e dei loro reali intestatari. I pm italiani non si azzardino a violare le prerogative dello Stato Vaticano andando dietro alle sue accuse, ai suoi memoriali, alle sue paure di essere ucciso e magari alle liste di conti correnti cifrati intestati ai vip laici che potrebbe avere compilato. Con il comunicato ufficiale emanato dalla Santa Sede ieri pomeriggio lo scontro tra Italia e Citta del Vaticano sale di livello.

25mila correntisti
E le carte che oggi pubblichiamo in esclusiva dimostrano quanto è duro lo scontro interno al Vaticano tra le due fazioni che si sono contrapposte sulla legislazione dei presidi contro il riciclaggio dentro la Città del Vaticano. La posta è enorme. Lo Ior amministra in depositi una cifra che dovrebbe oscillare attorno ai 9 miliardi di euro di patrimonio. Ci sono 25mila correntisti laici e questa indagine della magistratura italiana rischia di svelare anche i nomi dei vip. La vera partita in gioco è quella dei “conti laici anomali”, quelli dei quali Ettore Gotti Tedeschi ha parlato con i magistrati.

Tra le carte sequestrate a casa e nell’ufficio del banchiere ci sono anche elenchi di nomi di personaggi importanti, anche della politica, che potrebbero avere il conto presso lo Ior. Quella lista trovata a casa di Gotti Tedeschi sarebbe frutto di una sua ricerca. Probabilmente non si tratta di carte ufficiali o di contabili bancarie con il timbro Ior, perché a quelle il banchiere non aveva accesso. Bensì di informazioni che probabilmente aveva raccolto informalmente. Comunque sia, quella lista fa paura perché potrebbe incrinare il muro di anonimato dello Ior. E ancora di più fanno paura Oltretevere le inchieste che potrebbero nascere dalle accuse dell’ex presidente dello Ior che pare disposto a collaborare.

Per questa ragione ieri è arrivato il primo avvertimento, le lettere e i documenti inerenti all’attività della Banca del Vaticano non devono essere usate contro i manager Ior indagati dalla Procura di Roma, a partire da Paolo Cipriani. E non manca un messaggio per Gotti Tedeschi: la smetta di atteggiarsi a vittima della lobby “giudaico-massonica” favorevole alla scarsa trsparenza bancaria. E non si azzardi a collaborare con i pm di Roma e Napoli, come sembra intenzionato a fare dopo essere stato scaricato da tutti Oltretevere, perché altrimenti ce ne sarà anche per lui.

Segrete stanze
La Segreteria di Stato ieri con il suo comunicato ha voluto lanciare il primo messaggio perché sia chiaro a tutti che il presidente dell’Istituto Opere Religiose non è entrato in lotta di collisione con il Segretario di Stato Tarcisio Bertone perché voleva svelare alle autorità italiane chi c’era dietro i conti cifrati della banca vaticana. Il banchiere è stato accompagnato alla porta il 24 maggio con una lettera del Cavaliere Supremo dell’Ordine dei Cavalieri di Colombo Carl A. Anderson perché non sapeva fare il presidente ed era anche un po’ fuori di testa. Così si regolano le faccende in Vaticano.

Da Il Fatto Quotidiano del 9 giugno 2012

sabato 21 aprile 2012

Padre Balducci: Questa Italia di boss e corsari


Da MicroMega

Altrachiesa

Padre Balducci: Questa Italia di boss e corsari

Proponiamo un estratto dal libro "Siate ragionevoli chiedete l’impossibile" di Ernesto Balducci, in questi giorni in libreria per Chiarelettere. Il volume raccoglie i principali scritti politici di padre Balducci, tra i più grandi pensatori cristiani del Novecento.

di padre Ernesto Balducci

Della mafia, come della metafisica, dovrebbero parlare solo gli esperti. Ma mentre gli esperti della metafisica, rari e introvabili, possiamo lasciarli senza nostro danno ai loro soliloqui sublimi e inutili, gli esperti della mafia siamo costretti a sopportarli, quando gli avvenimenti li chiamano a ripeterci la lezione di circostanza, senza che al nostro intelletto esterrefatto giunga mai un barlume di luce. Anzi, di anno in anno, che dico?, di mese in mese il buio si fa sempre più buio.

E se cominciassimo a prendere la parola noi che esperti non siamo? Se cominciassimo, sgombrandoci di dosso ogni complesso di inferiorità, ad applicare anche a questo fenomeno complesso e misterioso i sani e semplici criteri dell’etica politica su cui si basa, o dovrebbe basarsi, la nostra coscienza di cittadini? Ebbene, dopo aver fatto per una giornata una rigorosa astinenza – non ho toccato un quotidiano, non ho ascoltato un giornale radio, per paura di imbattermi negli esperti governativi – provo a dire la mia.

E comincio con la considerazione più ovvia: la mafia è il segno del fallimento dello Stato, anzi è la crescita di uno Stato illegale dentro le viscere dello Stato legale. I due organismi vivono utilizzando gli stessi apparati: respirano la stessa aria, sono irrorati dallo stesso sangue. Vivono in simbiosi, insomma, tanto che la morte dell’uno sarebbe, stando così le cose, la morte dell’altro. Nessuna radioscopia vi permetterebbe di distinguerli l’uno dall’altro. Nello Stato legale si fa largo ricorso a espedienti illegali e nello Stato illegale si fa largo uso di espedienti legali.

Su questo sfondo, la mafia propriamente detta è una espressione particolare di un male oscuro che ormai investe l’intero apparato amministrativo dello Stato. Un amico imprenditore che opera a Milano ha cercato perfino il mio aiuto per sventare un costume ormai diventato normale in tutte le amministrazioni della penisola: quello delle tangenti nelle aste pubbliche. A suo giudizio non c’è in Italia un solo Comune che ne sia esente. Perfino alcuni amici parlamentari, competenti e onesti, ai quali ho esposto la questione, hanno scosso la testa e mi hanno detto: è vero, ma non c’è niente da fare! E così tutto continua, a tutt’oggi.

Chi si presenta al concorso si sente dire dall’impiegato addetto: «Scusi, lei ha una presentazione?». Un modo pulito per chiedere quale partito o comunque quale padrino il postulante ha alle spalle. La cultura della tangente è ormai la cultura base del paese di Mazzini e di Garibaldi. Se la mafia del Sud ci getta, come oggi, nella costernazione, è perché essa fa largo uso della eliminazione fisica di chiunque, come Libero Grassi, si opponga alla prassi illegale. Ma ci sono infiniti modi per rendere innocui gli onesti: l’uccisione è il metodo più primitivo.
La mafia potrebbe davvero scomparire solo se il principio della legalità diventasse nella coscienza collettiva quello che è di per sé: il modo più elementare di esercitare la responsabilità per il bene comune.

Ma che avviene? Mi pare di vederlo a occhio nudo.
Di anno in anno si fa sempre più diffuso uno spirito di rassegnazione che spesso diventa cinismo. Ma che forse non è, il cinismo, l’ultimo surrogato delle ideologie che nel passato davano una qualche tonalità ideale al nostro ceto politico? Io non arrivo a sospettare che la nostra nomenklatura sia in rapporti di collusione con la mafia. Ma sono certo che se non c’è una complicità programmata, c’è una complicità oggettiva, il cui segno evidente è la spartizione del potere, l’uso degli apparati pubblici per fini di parte, l’assegnazione delle prebende – si pensi ai posti direttivi nelle banche – secondo logiche di parte. Del resto, lo spregio della legalità è diventato un principio proclamato dalle più alte cattedre dello Stato come dimostrano i pubblici elogi fatti agli esponenti di Gladio e della P2.

Non ci salveremo da questo male se non ci sarà una insurrezione democratica [...] Il cosiddetto «paese legale» si è costituito come un corpo separato la cui sopravvivenza impone metodi troppo affini a quelli della mafia. La parete di separazione va abbattuta, i criteri di rappresentanza vanno ripensati, le regole dello stato di diritto devono essere in grado di tener soggetto ogni potere, economico, politico, culturale, al criterio sommo del bene comune. Le segregazioni ideologiche non hanno più senso, e i monumenti viventi che fanno ombra al paese vanno calati giù dal piedistallo. Si accumulano di mese in mese i segnali dell’urgenza di questa operazione. Dobbiamo creare un nuovo Stato che abbia senso anche per le popolazioni del Sud per le quali, dall’Unità in poi, lo Stato ha voluto dire una vergognosa subalternità a poteri politici ed economici insediati altrove. È in questo vuoto che è nata la mafia, metabolizzando, in forme adatte al clima, un male imperversante nell’intero paese.

Un giorno Alessandro Magno riuscì a catturare un pericoloso corsaro. «Non ti vergogni – gli disse – di impadronirti delle navi con la forza?» «Io – gli rispose il corsaro – conquisto le navi, tu conquisti gli imperi: che differenza c’è?» Nell’antico apologo ci sono tutti i termini per un dialogo tra un boss di Palermo e un boss di Roma. E noi continuiamo a gettar fiori sulle bare, con le lacrime agli occhi.

da «Il Secolo XIX», 1° settembre 1991


Da MicroMega

Altrachiesa

Ernesto Balducci, un maestro da riscoprire


Pubblichiamo la prefazione di don Andrea Gallo a "Siate ragionevoli chiedete l’impossibile" di Ernesto Balducci (Chiarelettere).

di don Andrea Gallo

Ernesto Balducci è stato uno straordinario testimone del Vangelo e credo che più che un personaggio da commemorare, a vent’anni dalla morte, sia un uomo da ascoltare e da studiare.

Sono stato sul monte Amiata, a Santa Fiora (Grosseto), il paese dove padre Balducci è nato nel 1922, e ho fatto il percorso dalla Badia Fiesolana a Santa Fiora come un pellegrinaggio. È proprio a Santa Fiora che avviene la «svolta antropologica», l’affermazione della centralità dell’essere umano e insieme la necessità di una vera e propria riconversione del nostro modo di pensare e di agire. Questa è una terra straordinaria, dove è ancora viva la memoria di David Lazzaretti, il «profeta dell’Amiata» ucciso nel 1878 dalla Guardia regia, come quella dei martiri fucilati durante la Resistenza mentre difendevano le miniere in cui lavoravano, minacciate dall’esercito tedesco in ritirata. «Quando più alto in me si fa il fastidio morale per questo mondo – scrive Balducci –, mi capita di tornare a quegli anni lontani, in quella piccola scuola invasa dalla tramontana, dove l’ideologia della prepotenza cercava di corromperci. Non c’è riuscita. Ma mentre Eraldo, Mauro, Luigi e gli altri hanno pagato con la vita… io, noi sopravvissuti, che andiamo facendo?»

Abbiamo sotto gli occhi l’insostenibilità politica e sociale di un modello di sviluppo che ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. Dobbiamo muoverci, in questo senso è proprio la parola e la testimonianza di padre Ernesto a spronarci. Balducci per me è un maestro e non smetto mai di ricordarlo in ogni incontro e occasione pubblica. Dobbiamo leggere padre Balducci, è lui a insegnarci che dobbiamo «osare la speranza». Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma culturale, non c’è più tempo da perdere. Dobbiamo ripensare la nostra civiltà e il nostro modello di convivenza secondo un’ottica che sia globale, planetaria. E allora basta competizione sfrenata, ci vuole solidarietà, ma una solidarietà liberatrice e responsabile, ben diversa dall’assistenzialismo che conosciamo e che ci tiene lontani dall’altro, mettendoci a posto la coscienza con la retorica dei buoni sentimenti.

La parola di padre Balducci ci viene incontro con la forza di una rivelazione: «Viviamo in una società che, con la complicità di tutti, solleva alcune persone sui piedistalli dell’ammirazione sconfinata e della sconfinata gratificazione economica, senza che a questa glorificazione facciano riscontro valori veramente umani» («La droga del successo», 1991). E ancora:
«Spinti dal nostro feticismo produttivo, noi stiamo avanzando in regioni spaventose, quelle del benessere vuoto di ogni valore» («Quei suicidi al tramonto della speranza», 1990). La nuova cultura planetaria che siamo chiamati con urgenza a costruire è agli antipodi del consumismo e dello sfruttamento. «La cultura della competizione [...] è condannata non solo dalla coscienza – ci ammonisce padre Ernesto –, ma dall’istinto di sopravvivenza. I valori alternativi sono, non dico possibili, ma necessari» («Le attese tradite dietro la droga», 1988). Dobbiamo ritornare a essere soggetti delle nostre vite e così anche della storia dell’uomo, una storia che deve diventare redentrice.

Ho ascoltato padre Balducci a Genova pochi giorni prima della sua tragica scomparsa in un incidente stradale. Le sue parole mi hanno conquistato. Ancora oggi porto dentro di me la sua lezione, l’importanza dell’«uomo inedito», dell’«uomo nascosto» che è patrimonio di ogni cultura e di ogni religione. Un uomo nascosto nel profondo di ciascuno di noi. «Nella natura dell’uomo – scrive padre Balducci – c’è tutto, ci sono possibilità che non hanno ancora trovato espressione. Le religioni devono tutte rigenerarsi nella loro sorgente nascosta [...] Le religioni hanno una forma edita, in quanto sono entrate a far parte di una cultura, l’hanno alimentata, l’hanno magari anche generata, ma hanno subito i condizionamenti della realtà storica dell’uomo e si sono macchiate di violenza. C’è però alla loro radice una ispirazione di fondo che le rende omogenee alle attese dell’uomo nascosto e che fa di esse dei veri messaggi di pace.» E ancora: «C’è in noi quello che chiamavo, con Bloch, l’homo absconditus: un uomo che non trova il suo linguaggio adeguato nell’homo editus. Non c’è una lingua che traduca le attese, le aspettative, le possibilità reali dell’homo absconditus. Potremmo dire che la sua attesa è quella della profezia» («L’homo editus e l’homo absconditus», 1993).

Un nuovo mondo è possibile? Padre Balducci ha annunciato le grandi contraddizioni del Terzo millennio. La minaccia ecologica, prima di tutto, e vediamo che i vertici mondiali sul clima non riescono a combinare nulla di concreto. «Ogni patto sociale viene meno quando entra in gioco la sicurezza della sopravvivenza. Allora le responsabilità tornano là dove è la vera sorgente di ogni sovranità, tornano nelle nostre mani» («Essere o non essere», 1988). Ma noi siamo chiusi come in una fortezza, la paura del diverso genera violenza ed emarginazione. La scienza e la tecnica hanno modificato la comprensione e la dinamica della vita, provocando l’accelerazione del tempo vitale e l’alterazione drammatica dei ritmi naturali. Il pianeta terra è ormai come un missile che viaggia a velocità supersonica, senza freni.

È venuto allora il momento di costruire la democrazia della terra. La terra che abitiamo, sorgente di vita, da preservare come casa comune. «La vera coscienza rivoluzionaria non è quella di classe, è quella di specie» («Tutti insieme per non scomparire», 1989). Dobbiamo dar vita a un contratto sociale, su scala planetaria, che permetta a ogni paese di preservare i propri valori e l’identità del suo popolo, la diversità culturale, le ricchezze e le bellezze naturali. Dobbiamo costruire un paradigma di civiltà che sia fondato sul ben-vivere e non solo sul ben-essere, che poi finisce col diventare ben-avere, generando quella diseguaglianza sociale che vediamo sempre di più nelle nostre città. Ognuno deve sentirsi cittadino della terra, e per questo ci vuole una grande campagna di educazione, soprattutto tra i giovani. L’Italia deve essere in prima linea. Ma dove sono finiti i veri cristiani? Gesù ha detto: «Io sono venuto per servire, non per essere servito». C’è bisogno di un cristianesimo più autentico. Padre Ernesto Balducci è ancora vivo e ci indica la strada. Basta volerlo ascoltare e studiare.

(19 aprile 2012)

domenica 1 aprile 2012

Boom di armi in Africa Da Nigrizia Ricerca Sipri Boom di armi in Africa Negli ultimi 5 anni, è stato acquistato nel continente oltre il 53% in più dei grandi sistemi d'arma rispetto al periodo precedente. Impennata nei paesi della sponda sud del Mediterraneo, in Sudafrica, Nigeria e Uganda. A livello globale, la spesa per armamenti è cresciuta del 24%. Ci sarà pure la crisi, ma le armi continuano ad affluire in modo copioso in Africa. Sembrano non risentire della recessione in atto. Il Sipri, l'Istituto internazionale sulla pace di Stoccolma - tra i più accreditati nel condurre ricerche in materia di conflitti e impegnato nello studio sulle spese degli armamenti - ha messo a confronto i dati del quinquennio 2002-2006 con quelli del 2007-2011. Scoprendo che c'è stato un aumento di oltre il 53% di importazione in Africa dei grandi sistemi d'arma convenzionali (aerei, elicotteri, carri armati, autoblindo, pezzi di artiglieria, sensori radar, sistemi di difesa aerea, missili, navi di oltre 100 tonnellate con cannoni, motori per aerei e veicoli armati, torrette per natanti e veicoli armati. Le cosiddette "armi leggere" o "piccole armi" non sono incluse nella statistica Sipri). Così oggi il continente pesa oltre il 10% (13.329 milioni di dollari per un volume totale di trasferimenti di 128.343 milioni) a livello planetario, quando cinque anni prima era fermo all'8,3 (8.660 milioni di dollari contro 103.743 milioni). Dati che tengono conto anche dell'Egitto, mentre il Sipri colloca Il Cairo nel Medio Oriente. L'impennata si è avuta grazie agli acquisti di armi avvenuti nella sponda sud del Mediterraneo. Una crescita del Nord Africa di oltre il 72% (da 5.099 milioni a 8.722). Mentre per l'Africa Sub-sahariana la crescita è stata del 29% (da 3.561 milioni a 4.607). Il record, in termini di crescita, l'ha conquistato il Marocco, con un più 443% rispetto al quinquennio 2002-2006. Grazie, in particolare alla performance del 2011, che ha visto Rabat importare armi per un valore complessivo di 1.558 milioni di dollari. Tra gli acquisti eccellenti troviamo 16 F16, aerei da combattimento, dagli Usa; 27 aerei Mf 2000 dalla Francia; una fregata dall'Olanda... Algeri, tuttavia, resta inarrivabile come spesa militare, posizionandosi in testa nell'ultimo quinquennio: 4.644 milioni di dollari, quattro volte tanto la spesa del periodo precedente (1.141 milioni). Grande fornitore algerino rimane la Russia (4.301). Nell'Africa Sub-sahariana, il Sudafrica da solo rappresenta il 41% delle importazioni d'armi, quasi raddoppiando la quota del periodo 2002-2006 (1.842 milioni contro 977). In calo il Sudan (415 milioni contro 739), mentre in fortissima ascesa la Nigeria (406 milioni contro 86) e l'Uganda (334 rispetto ai 76 del quinquennio precedente). Sorprende anche l'attivismo della Guinea Equatoriale, ben rifornita dall'Ucraina (194 milioni) e da Israele (70 milioni). Per quanto riguarda i dati generali, i trasferimenti mondiali di armi continuano a crescere a doppia cifra: più 24% nel periodo 2007-2011 rispetto al quinquennio precedente. La regione Asia-Oceania rappresenta ormai il 44% delle importazioni mondiali di armamenti, mentre i primi esportatori sono gli Stati Uniti (30%). Il maggior cliente dei "mercanti di morte" si conferma l'India, che vale da sola il 10% delle importazioni mondiali. Crescono le spese militari del gigante asiatico: nel 2012-2013 aumenteranno del 17%, per raggiungere quota 40 miliardi di dollari, il doppio circa di quanto investa l'Italia. Delhi sta diversificando le fonti di approvvigionamento e sviluppando un'industria nazionale. In evoluzione anche bilancio della difesa cinese, in crescita dell'11,2% nel 2012. Nell'ultimo decennio è più che triplicato: era di 27,9 miliardi di dollari nel 2000, è arrivato a 91,5 nel 2012. (Giba) Nigrizia - 30/03/2012

domenica 26 febbraio 2012

"Lettera aperta alla chiesa italiana"





Venerdì 24 febbraio 2012, 16:54 - Cronaca

"Lettera aperta alla chiesa italiana"
“Perché ci viene chiesto di essere credenti che devono obbedire e difendere la verità e non ci dicono invece che la Verità è più grande di noi e per questo va ricercata costantemente, ovunque e con tutti?”. Lo chiedono in una lettera aperta alla chiesa italiana, ormai valutata insostenibile e nella quale chi la vive soffre perché non vi si riconosce più, la teologa Antonietta Potente, Benito Fusco, frate dei Servi di Maria e i sacerdoti Alessandro Santoro, Pasquale Gentili, Pier Luigi Di Piazza, Paolo Tofani, Andrea Bigalli.
L'appello, che al momento del lancio ha già raccolto più di 250 adesioni, è ricco di inquietudini e di suggestioni che invitano la chiesa a ripensare le sue strutture di comunità, e soprattutto la propria struttura gerarchica e i suoi rapporti con la società. “Noi vorremmo che si rifiutasse ogni privilegio economico – continua l'appello – e soprattutto vorremmo che l’economia delle strutture ecclesiali non fosse complice della finanza e delle banche che speculano con il denaro a scapito del sudore e del sangue di individui e intere comunità, praticando un indebito sfruttamento, non solo delle risorse umane, ma anche di quelle naturali.”
Di seguito il testo integrale che è possibile sottoscrivere all'indirizzo di posta elettronica appellochiesa@gmail.com.

“Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio ” (Ef 2, 19) Questa lettera nasce dopo l’incontro-invito con alcuni teologi e teologhe che abbiamo avuto nella comunità delle Piagge a Firenze il 20 gennaio scorso e al quale hanno partecipato tante persone credenti e non. Rifacendoci alla tradizione più antica della comunità credente, che per comunicare usava lo stile epistolare, anche noi abbiamo pensato di scrivere una lettera aperta alla chiesa italiana. Vorremmo fare una breve sintesi delle tante inquietudini e dei tanti desideri ed aspettative raccolte in quel contesto. La trama principale delle nostre inquietudini è espressa proprio dal testo della lettera alla chiesa di Efeso: Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio … Abbiamo sempre pensato che questo fosse vero; abbiamo sempre pensato che la nostra condizione di donne e uomini credenti ci rendesse concittadini nella storia di tutti e familiari con il Mistero. Abbiamo sempre pensato che la nostra fede ci facesse responsabili nei confronti della vita di ogni creatura e dei difficili parti storici, sociali, economici, culturali e spirituali che la comunità umana vive da sempre. Abbiamo sempre pensato anche, che proprio perché siamo familiari di Dio, non siamo esenti dal vivere sulla nostra pelle le fatiche che ogni popolo fa per poter essere popolo degno e libero. Ma oramai, da molto tempo, ci sembra che questo non sia tanto vero, e soprattutto, con tristezza diciamo che forse nessuno ci chiede ed esige questa familiarità con il Mistero e questa solidarietà con la storia.

La struttura ecclesiale infatti sembra più preoccupata a guidarci che a farci partecipare e soprattutto a farci crescere. Le nostre comunità cristiane appaiono più tese a difendere una tradizione che a vivere una esperienza di fede. Noi sappiamo come diceva Paolo alla sua comunità di Corinto,che abbiamo il diritto di essere alimentati con parole spirituali … e con un nutrimento solido (Cfr. 1Co 3, 1-2), e invece ci sentiamo trattati come persone immature, come se non fossimo responsabili delle nostre comunità, ma solo destinatari chiamati a obbedire a ciò che pochi decidono ed esprimono per noi. E proprio in questo odierno contesto storico di grande fatica ma anche di grande opportunità per tutti i popoli, e dunque anche per la nostra società italiana, sentiamo che la chiesa è lon tana da questa fatica quotidiana dell’umanità. E che quando si fa presente, lo fa solo attraverso analisi , sentenze e a volte giudizi, che non ascoltano e non rispettano le ricerche e i tentativi che comunque la società fa per essere più autentica e giusta.
Ci sembrano sempre più vere le parole di Gesù nel vangelo Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23, 4). Noi non vorremmo essere collusi e complici di questo stile di vita, perché come credenti concittadini dei santi e familiari di Dio, sappiamo quanto è difficile sospingere la storia verso la pienezza della vita. Sappiamo anche che è difficile essere coerenti, ma lo vorremmo essere perché la coerenza oggi, sarà possibilità di vita per tutti. Perché condividere quello che abbiamo e non il sovrappiù, curarci dalle nostre ferite interiori,separarci da tutti quegli stili di vita che invece di includere escludono e invece di far crescere recidono, non è semplice ma è possibile, sop rattutto quando nasce da una ricerca comune, dove ciascuno può suggerire qualcosa, dove ciascuno può condividere la sua visione del mondo e soprattutto la sua esperienza di Dio. Ma noi non ci sentiamo sostenuti nel far questo e l’esempio che abbiamo dalla chiesa ufficiale è, la maggior parte delle volte, quello di pretendere riconoscimenti e i difendere propri interessi, immischiandosi in politica solo per salvaguardare i propri privilegi.

Vogliamo essere popolo che cerca davvero di fare esperienza di Gesù, di quel Gesù che ispirava sogni di vita, che ispirava desideri di cambiamento. Quel Gesù che riusciva a far sognare anche chi conosceva solo disprezzo, o chi comunque veniva giudicato peggio di altri ed emarginato Ci domandiamo come mai ci dicono di essere obbedienti al magistero senza chiederci di essere fedeli a questo sogno bellissimo di una umanità composta da ogni lingua, razza, popolo, nazione …. (Cfr. Ap 7,9). Perché ci viene chiesto di essere credenti che devono obbedire e difendere la verità e non ci dicono invece che la Verità è più grande di noi e per questo va ricercata costantemente, ovunque e con tutti? Allora è per questo che vorremmo offrirvi queste nostre riflessioni, vorremmo che la chiesa ripensasse le sue strutture di comunità, e soprattutto la propria struttura gerarchica e i suoi rapporti con la società. Noi vorremmo che si rifiutasse ogni privilegio economico e soprattutto vorremmo che l’economia delle strutture ecclesiali non fosse complice della finanza e delle banche che speculano con il denaro a scapito del sudore e del sangue di individui e intere comunità, praticando un indebito sfruttamento, non solo delle risorse umane, ma anche di quelle naturali.

Queste, in breve, sono alcune delle nostre inquietudini che condividiamo con tutti i credenti, perché la Vita si è manifestata e noi l’abbiamo contemplata, vista, udita, toccata con le nostre mani… (Cfr. 1Gv 1,1-4) e di questo vorremmo rendere testimonianza. Partendo da questo primo incontro, ci impegniamo a cominciare un processo di autocritica e critica costante, per aiutarci a vivere e crescere insieme, come comunità credenti ma anche come compagni e compagne di cammino di tutti coloro che – tra evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni- fanno di tutto per rendere la storia più bella, solidale e giusta.

sabato 25 febbraio 2012

I soldi dei partiti. Presentazione a Orvieto
I soldi dei partiti. Presentazione a OrvietoPresentazione del libro "I Soldi dei Partiti" di Elio Veltri e Francesco Paola edito da Marsilio
Orvieto il 25 febbraio 2012 alle ore 17 Sala del Governatore Palazzo dei Sette

saranno presenti gli autori Veltri e Paola

interverranno;

Monsignor Giovanni Scanavino già vescovo diocesi Orvieto Todi

Libero Mancuso già giudice in Bologna

modererà l'incontro il Dott. Antonio Concina sindaco della città di Orvieto

Il finanziamento pubblico ai partiti in Italia, chiamato «rimborso delle
spese elettorali» per aggirare il referendum abrogativo del 1993 e la
tagliola della Corte Costituzionale, è il più elevato del mondo: 200
milioni di euro all'anno, con il minore controllo in assoluto. I soldi dei
rimborsi - che per legge devono andare ai partiti - possono così essere
riscossi da associazioni costituite da poche persone in nome del partito o
dirottati altrove senza che nessuno abbia qualcosa da eccepire. Elio Veltri
e Francesco Paola ripercorrono la storia dei finanziamenti dalla loro
introduzione, nel 1974, alla progressiva degenerazione, fino ai giorni
nostri. Per arrivare a delle proposte concrete: regole chiare e non
modificabili a seconda delle convenienze, per dare risposte alla rabbia dei
cittadini che ormai riconoscono nei partiti oligarchie e clan familiari, in
cui omertà, familismo amorale e fedeltà hanno sostituito militanza, rigore
morale, impegno per il bene comune.



 

venerdì 24 febbraio 2012

Fare giornalismo nell`era delle reti globali



di Pasquale Rotunno
nformazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Un’informazione che sappia coniugare la curiosità, l’intraprendenza e l’indipendenza con l’affidabilità, l’accuratezza, la verificabilità, la completezza. Ma come può migliorare la qualità dell’informazione? La pressione economica sulle redazioni giornalistiche è aumentata drasticamente. Le aspettative legate ai nuovi media e a internet lasciano il campo a difficoltà e incertezze. Il mercato pubblicitario registra una forte contrazione. Il giornalismo rischia di rimanere ostaggio di singoli grandi imprenditori, come Rupert Murdoch; o di vedere proliferare piccoli uffici giornalistici del tutto marginali. Lo studioso tedesco Stephan Russ-Mohl, docente di giornalismo presso l’Università della Svizzera italiana a Lugano, osserva e indaga da trent’anni la cultura giornalistica anglosassone, tedesca e svizzera. È da poco in libreria la versione italiana del suo diffuso manuale: “Fare giornalismo” (il Mulino).
Oltre a discutere con chiarezza tutti gli aspetti della professione, Russ-Mohl invita a non farsi abbagliare dalle meraviglie dell’era digitale e dell’innovazione tecnologica. La saturazione dell’informazione ha conseguenze simili alla stessa mancanza d’informazione. La nostra capacità di ricevere ed elaborare informazioni è, infatti, limitata. Come è possibile dunque fronteggiare ed elaborare adeguatamente la sovrabbondanza di notizie? Ognuno di noi percepisce la complessità del reale in modo diverso. Per i costruttivisti si tratta sempre di una realtà costruita. Eppure l’obiettività rimane un fine per quanti raccontano le notizie. Un’utopia, forse. Non per questo bisogna evitare di perseguirla. Fa un’enorme differenza se i giornalisti s’impegnano a mantenere il distacco dall’oggetto del loro scritto con lo scopo di informare il pubblico obiettivamente; oppure se prendono una posizione rispetto al tema trattato nell’intento esclusivo di influenzare il pubblico. A volte però “una finta obiettività diventa una cortina fumogena dietro alla quale si nascondono giornalisti di parte e spin doctors”. Questo gioco mascherato è peggiore del confronto aperto in cui i contendenti sono politicamente identificati.
L’esistenza di un Ordine dei giornalisti è una peculiarità italiana. A Russ-Mohl appare “di dubbia costituzionalità”. Tuttavia, ammette, “la posizione iconoclasta forse sottovaluta il rischio che l’assenza di un ordine potrebbe indebolire ulteriormente il giornalista di fronte all’editore”. Quanto alla deontologia, “là dove il diritto e la giurisprudenza non arrivano dovrebbe esserci almeno un codice etico a guidare e orientare le decisioni e le azioni dei giornalisti”. Quanto sono efficaci principi che non sono riconosciuti da tutti e che non sono vincolanti? Essi sono in grado di influenzare i comportamenti in una società sempre più complessa, pluralista e multiculturale? I codici etici e le norme professionali sono strumenti relativamente deboli. Manca di solito il potere di sanzione per poterli imporre. È importante quindi risvegliare l’etica della responsabilità: la consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. In Italia il dibattito sulla deontologia è tutto interno alle redazioni: “dovrebbe invece coinvolgere tutti gli interessati, da chi compra a chi consuma a chi ci guadagna a chi ne è oggetto”.
Persino nelle redazioni più rinomate la tutela nei confronti dei falsi non sempre funziona. Quanto lontano si può spingere il giornalista per far accettare il proprio lavoro? È lecito drammatizzare una storia per conquistare il pubblico aumentando così le vendite o i dati d’ascolto? Il redattore scientifico può riferire di una nuova cura sul cancro e illudere migliaia di pazienti? I media devono tenere per settimane in primo piano l’influenza aviaria o suina anche se i casi seri in Italia e nel resto d’Europa sono poche decine? I danni causati dalle notizie date in maniera irresponsabile hanno spesso un enorme impatto economico. Gli inglesi e gli svizzeri, rimarca ironicamente Russ-Mohl, “dovrebbero essere già estinti se la possibilità di ammalarsi di mucca pazza fosse stata anche solo la metà di quella affermata dai media!”.
Per i giornalisti non è facile mantenere le debite distanze dalle fonti di informazione, con le quali sono giornalmente in contatto e dalle quali in certa misura dipendono. Mantenere un buon rapporto con le fonti significa poter ottenere molte informazioni, talvolta anche in via esclusiva. Ma la prossimità con le fonti nasconde l’insidia della corruzione. E non sono rari i tentativi degli addetti alle Pubbliche relazioni di influenzare i servizi giornalistici mediante favori. Così come le richieste ai giornalisti di scrivere articoli benevoli in cambio di vantaggi.
Talvolta sono i giornalisti a pagare i testimoni nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Pratica ormai consueta, avverte Russ-Mohl. L’informazione a pagamento è in realtà una sorta di “normalità” cui i giornalisti sono abituati: si pagano le agenzie di stampa e si pagano le fotografie. Le notizie sono trattate come una merce, per quanto una merce molto particolare: chi non è giornalista reputa dunque moralmente accettabile il guadagno ricevuto dalla vendita di storie o fotografie esclusive. Certo la bramosia di denaro può indurre gli informatori a immaginare o a rendere più drammatiche le storie.
Ci sono casi in cui la protezione degli informatori va messa in discussione: ad esempio nel caso di criminali che mettono in pericolo la vita di altre persone. In questi casi il giornalista non è tenuto a coprire la fonte informativa. I giornalisti che vogliono mantenere la loro credibilità dovrebbero essere altrettanto critici anche quando scrivono su giornalisti e media.
Quali sono le informazioni che sono autorizzati a riprendere da altri giornalisti senza indicare la fonte e dove inizia il plagio? Il pubblico ha diritto di sapere da dove proviene l’informazione. Un discorso ancora più complesso riguarda gli inserzionisti.
Un principio irrevocabile del giornalismo di qualità dovrebbe essere la divisione netta tra la redazione e il settore pubblicità. In nessun caso la pubblicità dovrebbe influenzare i contenuti redazionali. Lo sviluppo delle inserzioni è invece legato, troppo spesso, alla condizione che i prodotti siano valutati in modo positivo anche nella parte redazionale. Ciò rappresenta un inganno per il pubblico. Gli inserzionisti sono, insomma, i principali clienti per le imprese dei media.
L’errore principale dei tentativi di risolvere dilemmi legati all’etica professionale è quello di enunciare norme universalmente valide. La maggior parte delle volte è necessario soppesare fra loro interessi contrapposti. La responsabilità etica non va addossata ai singoli giornalisti; ma condivisa anche dalle redazioni, dal management e dalla proprietà. Un’esigenza questa rimasta senza eco. Il giornalista ha l’obbligo di accuratezza ed è responsabile per le eventuali conseguenze delle notizie. Eppure non può avere ogni colpa: perché anche le aspettative dei colleghi e dei direttori ne influenzano il comportamento. Un sistema di norme professionali interne all’impresa editoriale, accettato dagli stessi giornalisti, offre la migliore difesa affinché il giornalismo possa mantenere intatta la sua autonomia. D’altra parte nelle società multiculturali e globalizzate contemporanee riuscire a fissare degli standard etici non è semplice. L’etica nel giornalismo può essere garantita solo in parte: “non sarà mai in grado di mettere sotto sopra i principi fondamentali del capitalismo o delle più radicate tradizioni culturali, proprie di ciascun paese”. Può, nondimeno, rappresentare un correttivo.
Migliorare la qualità dei giornali non è facile, conclude l’autore. Le iniziative in tal senso sono viste con sospetto da chi pratica la professione. Innanzitutto perché accolte come una minaccia all’indipendenza giornalistica.
Purtroppo, non esiste una ricetta unica per diffondere nelle redazioni coscienza e consapevolezza della qualità. Il lavoro del giornalista è spesso svolto in condizioni di stress; per questo si può addirittura definirlo come particolarmente esposto all’errore. I direttori e le redazioni devono rendere noti gli errori in modo adeguato, sia tra i colleghi, sia al pubblico. Occorre imparare dagli errori, non nasconderli. Le redazioni che hanno il coraggio di ammettere gli errori guadagnano in credibilitàInformazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Informazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Un’informazione che sappia coniugare la curiosità, l’intraprendenza e l’indipendenza con l’affidabilità, l’accuratezza, la verificabilità, la completezza. Ma come può migliorare la qualità dell’informazione? La pressione economica sulle redazioni giornalistiche è aumentata drasticamente. Le aspettative legate ai nuovi media e a internet lasciano il campo a difficoltà e incertezze. Il mercato pubblicitario registra una forte contrazione. Il giornalismo rischia di rimanere ostaggio di singoli grandi imprenditori, come Rupert Murdoch; o di vedere proliferare piccoli uffici giornalistici del tutto marginali. Lo studioso tedesco Stephan Russ-Mohl, docente di giornalismo presso l’Università della Svizzera italiana a Lugano, osserva e indaga da trent’anni la cultura giornalistica anglosassone, tedesca e svizzera. È da poco in libreria la versione italiana del suo diffuso manuale: “Fare giornalismo” (il Mulino).
Oltre a discutere con chiarezza tutti gli aspetti della professione, Russ-Mohl invita a non farsi abbagliare dalle meraviglie dell’era digitale e dell’innovazione tecnologica. La saturazione dell’informazione ha conseguenze simili alla stessa mancanza d’informazione. La nostra capacità di ricevere ed elaborare informazioni è, infatti, limitata. Come è possibile dunque fronteggiare ed elaborare adeguatamente la sovrabbondanza di notizie? Ognuno di noi percepisce la complessità del reale in modo diverso. Per i costruttivisti si tratta sempre di una realtà costruita. Eppure l’obiettività rimane un fine per quanti raccontano le notizie. Un’utopia, forse. Non per questo bisogna evitare di perseguirla. Fa un’enorme differenza se i giornalisti s’impegnano a mantenere il distacco dall’oggetto del loro scritto con lo scopo di informare il pubblico obiettivamente; oppure se prendono una posizione rispetto al tema trattato nell’intento esclusivo di influenzare il pubblico. A volte però “una finta obiettività diventa una cortina fumogena dietro alla quale si nascondono giornalisti di parte e spin doctors”. Questo gioco mascherato è peggiore del confronto aperto in cui i contendenti sono politicamente identificati.
L’esistenza di un Ordine dei giornalisti è una peculiarità italiana. A Russ-Mohl appare “di dubbia costituzionalità”. Tuttavia, ammette, “la posizione iconoclasta forse sottovaluta il rischio che l’assenza di un ordine potrebbe indebolire ulteriormente il giornalista di fronte all’editore”. Quanto alla deontologia, “là dove il diritto e la giurisprudenza non arrivano dovrebbe esserci almeno un codice etico a guidare e orientare le decisioni e le azioni dei giornalisti”. Quanto sono efficaci principi che non sono riconosciuti da tutti e che non sono vincolanti? Essi sono in grado di influenzare i comportamenti in una società sempre più complessa, pluralista e multiculturale? I codici etici e le norme professionali sono strumenti relativamente deboli. Manca di solito il potere di sanzione per poterli imporre. È importante quindi risvegliare l’etica della responsabilità: la consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. In Italia il dibattito sulla deontologia è tutto interno alle redazioni: “dovrebbe invece coinvolgere tutti gli interessati, da chi compra a chi consuma a chi ci guadagna a chi ne è oggetto”.
Persino nelle redazioni più rinomate la tutela nei confronti dei falsi non sempre funziona. Quanto lontano si può spingere il giornalista per far accettare il proprio lavoro? È lecito drammatizzare una storia per conquistare il pubblico aumentando così le vendite o i dati d’ascolto? Il redattore scientifico può riferire di una nuova cura sul cancro e illudere migliaia di pazienti? I media devono tenere per settimane in primo piano l’influenza aviaria o suina anche se i casi seri in Italia e nel resto d’Europa sono poche decine? I danni causati dalle notizie date in maniera irresponsabile hanno spesso un enorme impatto economico. Gli inglesi e gli svizzeri, rimarca ironicamente Russ-Mohl, “dovrebbero essere già estinti se la possibilità di ammalarsi di mucca pazza fosse stata anche solo la metà di quella affermata dai media!”.
Per i giornalisti non è facile mantenere le debite distanze dalle fonti di informazione, con le quali sono giornalmente in contatto e dalle quali in certa misura dipendono. Mantenere un buon rapporto con le fonti significa poter ottenere molte informazioni, talvolta anche in via esclusiva. Ma la prossimità con le fonti nasconde l’insidia della corruzione. E non sono rari i tentativi degli addetti alle Pubbliche relazioni di influenzare i servizi giornalistici mediante favori. Così come le richieste ai giornalisti di scrivere articoli benevoli in cambio di vantaggi.
Talvolta sono i giornalisti a pagare i testimoni nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Pratica ormai consueta, avverte Russ-Mohl. L’informazione a pagamento è in realtà una sorta di “normalità” cui i giornalisti sono abituati: si pagano le agenzie di stampa e si pagano le fotografie. Le notizie sono trattate come una merce, per quanto una merce molto particolare: chi non è giornalista reputa dunque moralmente accettabile il guadagno ricevuto dalla vendita di storie o fotografie esclusive. Certo la bramosia di denaro può indurre gli informatori a immaginare o a rendere più drammatiche le storie.
Ci sono casi in cui la protezione degli informatori va messa in discussione: ad esempio nel caso di criminali che mettono in pericolo la vita di altre persone. In questi casi il giornalista non è tenuto a coprire la fonte informativa. I giornalisti che vogliono mantenere la loro credibilità dovrebbero essere altrettanto critici anche quando scrivono su giornalisti e media.
Quali sono le informazioni che sono autorizzati a riprendere da altri giornalisti senza indicare la fonte e dove inizia il plagio? Il pubblico ha diritto di sapere da dove proviene l’informazione. Un discorso ancora più complesso riguarda gli inserzionisti.
Un principio irrevocabile del giornalismo di qualità dovrebbe essere la divisione netta tra la redazione e il settore pubblicità. In nessun caso la pubblicità dovrebbe influenzare i contenuti redazionali. Lo sviluppo delle inserzioni è invece legato, troppo spesso, alla condizione che i prodotti siano valutati in modo positivo anche nella parte redazionale. Ciò rappresenta un inganno per il pubblico. Gli inserzionisti sono, insomma, i principali clienti per le imprese dei media.
L’errore principale dei tentativi di risolvere dilemmi legati all’etica professionale è quello di enunciare norme universalmente valide. La maggior parte delle volte è necessario soppesare fra loro interessi contrapposti. La responsabilità etica non va addossata ai singoli giornalisti; ma condivisa anche dalle redazioni, dal management e dalla proprietà. Un’esigenza questa rimasta senza eco. Il giornalista ha l’obbligo di accuratezza ed è responsabile per le eventuali conseguenze delle notizie. Eppure non può avere ogni colpa: perché anche le aspettative dei colleghi e dei direttori ne influenzano il comportamento. Un sistema di norme professionali interne all’impresa editoriale, accettato dagli stessi giornalisti, offre la migliore difesa affinché il giornalismo possa mantenere intatta la sua autonomia. D’altra parte nelle società multiculturali e globalizzate contemporanee riuscire a fissare degli standard etici non è semplice. L’etica nel giornalismo può essere garantita solo in parte: “non sarà mai in grado di mettere sotto sopra i principi fondamentali del capitalismo o delle più radicate tradizioni culturali, proprie di ciascun paese”. Può, nondimeno, rappresentare un correttivo.
Migliorare la qualità dei giornali non è facile, conclude l’autore. Le iniziative in tal senso sono viste con sospetto da chi pratica la professione. Innanzitutto perché accolte come una minaccia all’indipendenza giornalistica.
Purtroppo, non esiste una ricetta unica per diffondere nelle redazioni coscienza e consapevolezza della qualità. Il lavoro del giornalista è spesso svolto in condizioni di stress; per questo si può addirittura definirlo come particolarmente esposto all’errore. I direttori e le redazioni devono rendere noti gli errori in modo adeguato, sia tra i colleghi, sia al pubblico. Occorre imparare dagli errori, non nasconderli. Le redazioni che hanno il coraggio di ammettere gli errori guadagnano in credibilità.