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domenica 26 febbraio 2012

"Lettera aperta alla chiesa italiana"





Venerdì 24 febbraio 2012, 16:54 - Cronaca

"Lettera aperta alla chiesa italiana"
“Perché ci viene chiesto di essere credenti che devono obbedire e difendere la verità e non ci dicono invece che la Verità è più grande di noi e per questo va ricercata costantemente, ovunque e con tutti?”. Lo chiedono in una lettera aperta alla chiesa italiana, ormai valutata insostenibile e nella quale chi la vive soffre perché non vi si riconosce più, la teologa Antonietta Potente, Benito Fusco, frate dei Servi di Maria e i sacerdoti Alessandro Santoro, Pasquale Gentili, Pier Luigi Di Piazza, Paolo Tofani, Andrea Bigalli.
L'appello, che al momento del lancio ha già raccolto più di 250 adesioni, è ricco di inquietudini e di suggestioni che invitano la chiesa a ripensare le sue strutture di comunità, e soprattutto la propria struttura gerarchica e i suoi rapporti con la società. “Noi vorremmo che si rifiutasse ogni privilegio economico – continua l'appello – e soprattutto vorremmo che l’economia delle strutture ecclesiali non fosse complice della finanza e delle banche che speculano con il denaro a scapito del sudore e del sangue di individui e intere comunità, praticando un indebito sfruttamento, non solo delle risorse umane, ma anche di quelle naturali.”
Di seguito il testo integrale che è possibile sottoscrivere all'indirizzo di posta elettronica appellochiesa@gmail.com.

“Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio ” (Ef 2, 19) Questa lettera nasce dopo l’incontro-invito con alcuni teologi e teologhe che abbiamo avuto nella comunità delle Piagge a Firenze il 20 gennaio scorso e al quale hanno partecipato tante persone credenti e non. Rifacendoci alla tradizione più antica della comunità credente, che per comunicare usava lo stile epistolare, anche noi abbiamo pensato di scrivere una lettera aperta alla chiesa italiana. Vorremmo fare una breve sintesi delle tante inquietudini e dei tanti desideri ed aspettative raccolte in quel contesto. La trama principale delle nostre inquietudini è espressa proprio dal testo della lettera alla chiesa di Efeso: Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio … Abbiamo sempre pensato che questo fosse vero; abbiamo sempre pensato che la nostra condizione di donne e uomini credenti ci rendesse concittadini nella storia di tutti e familiari con il Mistero. Abbiamo sempre pensato che la nostra fede ci facesse responsabili nei confronti della vita di ogni creatura e dei difficili parti storici, sociali, economici, culturali e spirituali che la comunità umana vive da sempre. Abbiamo sempre pensato anche, che proprio perché siamo familiari di Dio, non siamo esenti dal vivere sulla nostra pelle le fatiche che ogni popolo fa per poter essere popolo degno e libero. Ma oramai, da molto tempo, ci sembra che questo non sia tanto vero, e soprattutto, con tristezza diciamo che forse nessuno ci chiede ed esige questa familiarità con il Mistero e questa solidarietà con la storia.

La struttura ecclesiale infatti sembra più preoccupata a guidarci che a farci partecipare e soprattutto a farci crescere. Le nostre comunità cristiane appaiono più tese a difendere una tradizione che a vivere una esperienza di fede. Noi sappiamo come diceva Paolo alla sua comunità di Corinto,che abbiamo il diritto di essere alimentati con parole spirituali … e con un nutrimento solido (Cfr. 1Co 3, 1-2), e invece ci sentiamo trattati come persone immature, come se non fossimo responsabili delle nostre comunità, ma solo destinatari chiamati a obbedire a ciò che pochi decidono ed esprimono per noi. E proprio in questo odierno contesto storico di grande fatica ma anche di grande opportunità per tutti i popoli, e dunque anche per la nostra società italiana, sentiamo che la chiesa è lon tana da questa fatica quotidiana dell’umanità. E che quando si fa presente, lo fa solo attraverso analisi , sentenze e a volte giudizi, che non ascoltano e non rispettano le ricerche e i tentativi che comunque la società fa per essere più autentica e giusta.
Ci sembrano sempre più vere le parole di Gesù nel vangelo Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23, 4). Noi non vorremmo essere collusi e complici di questo stile di vita, perché come credenti concittadini dei santi e familiari di Dio, sappiamo quanto è difficile sospingere la storia verso la pienezza della vita. Sappiamo anche che è difficile essere coerenti, ma lo vorremmo essere perché la coerenza oggi, sarà possibilità di vita per tutti. Perché condividere quello che abbiamo e non il sovrappiù, curarci dalle nostre ferite interiori,separarci da tutti quegli stili di vita che invece di includere escludono e invece di far crescere recidono, non è semplice ma è possibile, sop rattutto quando nasce da una ricerca comune, dove ciascuno può suggerire qualcosa, dove ciascuno può condividere la sua visione del mondo e soprattutto la sua esperienza di Dio. Ma noi non ci sentiamo sostenuti nel far questo e l’esempio che abbiamo dalla chiesa ufficiale è, la maggior parte delle volte, quello di pretendere riconoscimenti e i difendere propri interessi, immischiandosi in politica solo per salvaguardare i propri privilegi.

Vogliamo essere popolo che cerca davvero di fare esperienza di Gesù, di quel Gesù che ispirava sogni di vita, che ispirava desideri di cambiamento. Quel Gesù che riusciva a far sognare anche chi conosceva solo disprezzo, o chi comunque veniva giudicato peggio di altri ed emarginato Ci domandiamo come mai ci dicono di essere obbedienti al magistero senza chiederci di essere fedeli a questo sogno bellissimo di una umanità composta da ogni lingua, razza, popolo, nazione …. (Cfr. Ap 7,9). Perché ci viene chiesto di essere credenti che devono obbedire e difendere la verità e non ci dicono invece che la Verità è più grande di noi e per questo va ricercata costantemente, ovunque e con tutti? Allora è per questo che vorremmo offrirvi queste nostre riflessioni, vorremmo che la chiesa ripensasse le sue strutture di comunità, e soprattutto la propria struttura gerarchica e i suoi rapporti con la società. Noi vorremmo che si rifiutasse ogni privilegio economico e soprattutto vorremmo che l’economia delle strutture ecclesiali non fosse complice della finanza e delle banche che speculano con il denaro a scapito del sudore e del sangue di individui e intere comunità, praticando un indebito sfruttamento, non solo delle risorse umane, ma anche di quelle naturali.

Queste, in breve, sono alcune delle nostre inquietudini che condividiamo con tutti i credenti, perché la Vita si è manifestata e noi l’abbiamo contemplata, vista, udita, toccata con le nostre mani… (Cfr. 1Gv 1,1-4) e di questo vorremmo rendere testimonianza. Partendo da questo primo incontro, ci impegniamo a cominciare un processo di autocritica e critica costante, per aiutarci a vivere e crescere insieme, come comunità credenti ma anche come compagni e compagne di cammino di tutti coloro che – tra evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni- fanno di tutto per rendere la storia più bella, solidale e giusta.

sabato 25 febbraio 2012

I soldi dei partiti. Presentazione a Orvieto
I soldi dei partiti. Presentazione a OrvietoPresentazione del libro "I Soldi dei Partiti" di Elio Veltri e Francesco Paola edito da Marsilio
Orvieto il 25 febbraio 2012 alle ore 17 Sala del Governatore Palazzo dei Sette

saranno presenti gli autori Veltri e Paola

interverranno;

Monsignor Giovanni Scanavino già vescovo diocesi Orvieto Todi

Libero Mancuso già giudice in Bologna

modererà l'incontro il Dott. Antonio Concina sindaco della città di Orvieto

Il finanziamento pubblico ai partiti in Italia, chiamato «rimborso delle
spese elettorali» per aggirare il referendum abrogativo del 1993 e la
tagliola della Corte Costituzionale, è il più elevato del mondo: 200
milioni di euro all'anno, con il minore controllo in assoluto. I soldi dei
rimborsi - che per legge devono andare ai partiti - possono così essere
riscossi da associazioni costituite da poche persone in nome del partito o
dirottati altrove senza che nessuno abbia qualcosa da eccepire. Elio Veltri
e Francesco Paola ripercorrono la storia dei finanziamenti dalla loro
introduzione, nel 1974, alla progressiva degenerazione, fino ai giorni
nostri. Per arrivare a delle proposte concrete: regole chiare e non
modificabili a seconda delle convenienze, per dare risposte alla rabbia dei
cittadini che ormai riconoscono nei partiti oligarchie e clan familiari, in
cui omertà, familismo amorale e fedeltà hanno sostituito militanza, rigore
morale, impegno per il bene comune.



 

venerdì 24 febbraio 2012

Fare giornalismo nell`era delle reti globali



di Pasquale Rotunno
nformazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Un’informazione che sappia coniugare la curiosità, l’intraprendenza e l’indipendenza con l’affidabilità, l’accuratezza, la verificabilità, la completezza. Ma come può migliorare la qualità dell’informazione? La pressione economica sulle redazioni giornalistiche è aumentata drasticamente. Le aspettative legate ai nuovi media e a internet lasciano il campo a difficoltà e incertezze. Il mercato pubblicitario registra una forte contrazione. Il giornalismo rischia di rimanere ostaggio di singoli grandi imprenditori, come Rupert Murdoch; o di vedere proliferare piccoli uffici giornalistici del tutto marginali. Lo studioso tedesco Stephan Russ-Mohl, docente di giornalismo presso l’Università della Svizzera italiana a Lugano, osserva e indaga da trent’anni la cultura giornalistica anglosassone, tedesca e svizzera. È da poco in libreria la versione italiana del suo diffuso manuale: “Fare giornalismo” (il Mulino).
Oltre a discutere con chiarezza tutti gli aspetti della professione, Russ-Mohl invita a non farsi abbagliare dalle meraviglie dell’era digitale e dell’innovazione tecnologica. La saturazione dell’informazione ha conseguenze simili alla stessa mancanza d’informazione. La nostra capacità di ricevere ed elaborare informazioni è, infatti, limitata. Come è possibile dunque fronteggiare ed elaborare adeguatamente la sovrabbondanza di notizie? Ognuno di noi percepisce la complessità del reale in modo diverso. Per i costruttivisti si tratta sempre di una realtà costruita. Eppure l’obiettività rimane un fine per quanti raccontano le notizie. Un’utopia, forse. Non per questo bisogna evitare di perseguirla. Fa un’enorme differenza se i giornalisti s’impegnano a mantenere il distacco dall’oggetto del loro scritto con lo scopo di informare il pubblico obiettivamente; oppure se prendono una posizione rispetto al tema trattato nell’intento esclusivo di influenzare il pubblico. A volte però “una finta obiettività diventa una cortina fumogena dietro alla quale si nascondono giornalisti di parte e spin doctors”. Questo gioco mascherato è peggiore del confronto aperto in cui i contendenti sono politicamente identificati.
L’esistenza di un Ordine dei giornalisti è una peculiarità italiana. A Russ-Mohl appare “di dubbia costituzionalità”. Tuttavia, ammette, “la posizione iconoclasta forse sottovaluta il rischio che l’assenza di un ordine potrebbe indebolire ulteriormente il giornalista di fronte all’editore”. Quanto alla deontologia, “là dove il diritto e la giurisprudenza non arrivano dovrebbe esserci almeno un codice etico a guidare e orientare le decisioni e le azioni dei giornalisti”. Quanto sono efficaci principi che non sono riconosciuti da tutti e che non sono vincolanti? Essi sono in grado di influenzare i comportamenti in una società sempre più complessa, pluralista e multiculturale? I codici etici e le norme professionali sono strumenti relativamente deboli. Manca di solito il potere di sanzione per poterli imporre. È importante quindi risvegliare l’etica della responsabilità: la consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. In Italia il dibattito sulla deontologia è tutto interno alle redazioni: “dovrebbe invece coinvolgere tutti gli interessati, da chi compra a chi consuma a chi ci guadagna a chi ne è oggetto”.
Persino nelle redazioni più rinomate la tutela nei confronti dei falsi non sempre funziona. Quanto lontano si può spingere il giornalista per far accettare il proprio lavoro? È lecito drammatizzare una storia per conquistare il pubblico aumentando così le vendite o i dati d’ascolto? Il redattore scientifico può riferire di una nuova cura sul cancro e illudere migliaia di pazienti? I media devono tenere per settimane in primo piano l’influenza aviaria o suina anche se i casi seri in Italia e nel resto d’Europa sono poche decine? I danni causati dalle notizie date in maniera irresponsabile hanno spesso un enorme impatto economico. Gli inglesi e gli svizzeri, rimarca ironicamente Russ-Mohl, “dovrebbero essere già estinti se la possibilità di ammalarsi di mucca pazza fosse stata anche solo la metà di quella affermata dai media!”.
Per i giornalisti non è facile mantenere le debite distanze dalle fonti di informazione, con le quali sono giornalmente in contatto e dalle quali in certa misura dipendono. Mantenere un buon rapporto con le fonti significa poter ottenere molte informazioni, talvolta anche in via esclusiva. Ma la prossimità con le fonti nasconde l’insidia della corruzione. E non sono rari i tentativi degli addetti alle Pubbliche relazioni di influenzare i servizi giornalistici mediante favori. Così come le richieste ai giornalisti di scrivere articoli benevoli in cambio di vantaggi.
Talvolta sono i giornalisti a pagare i testimoni nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Pratica ormai consueta, avverte Russ-Mohl. L’informazione a pagamento è in realtà una sorta di “normalità” cui i giornalisti sono abituati: si pagano le agenzie di stampa e si pagano le fotografie. Le notizie sono trattate come una merce, per quanto una merce molto particolare: chi non è giornalista reputa dunque moralmente accettabile il guadagno ricevuto dalla vendita di storie o fotografie esclusive. Certo la bramosia di denaro può indurre gli informatori a immaginare o a rendere più drammatiche le storie.
Ci sono casi in cui la protezione degli informatori va messa in discussione: ad esempio nel caso di criminali che mettono in pericolo la vita di altre persone. In questi casi il giornalista non è tenuto a coprire la fonte informativa. I giornalisti che vogliono mantenere la loro credibilità dovrebbero essere altrettanto critici anche quando scrivono su giornalisti e media.
Quali sono le informazioni che sono autorizzati a riprendere da altri giornalisti senza indicare la fonte e dove inizia il plagio? Il pubblico ha diritto di sapere da dove proviene l’informazione. Un discorso ancora più complesso riguarda gli inserzionisti.
Un principio irrevocabile del giornalismo di qualità dovrebbe essere la divisione netta tra la redazione e il settore pubblicità. In nessun caso la pubblicità dovrebbe influenzare i contenuti redazionali. Lo sviluppo delle inserzioni è invece legato, troppo spesso, alla condizione che i prodotti siano valutati in modo positivo anche nella parte redazionale. Ciò rappresenta un inganno per il pubblico. Gli inserzionisti sono, insomma, i principali clienti per le imprese dei media.
L’errore principale dei tentativi di risolvere dilemmi legati all’etica professionale è quello di enunciare norme universalmente valide. La maggior parte delle volte è necessario soppesare fra loro interessi contrapposti. La responsabilità etica non va addossata ai singoli giornalisti; ma condivisa anche dalle redazioni, dal management e dalla proprietà. Un’esigenza questa rimasta senza eco. Il giornalista ha l’obbligo di accuratezza ed è responsabile per le eventuali conseguenze delle notizie. Eppure non può avere ogni colpa: perché anche le aspettative dei colleghi e dei direttori ne influenzano il comportamento. Un sistema di norme professionali interne all’impresa editoriale, accettato dagli stessi giornalisti, offre la migliore difesa affinché il giornalismo possa mantenere intatta la sua autonomia. D’altra parte nelle società multiculturali e globalizzate contemporanee riuscire a fissare degli standard etici non è semplice. L’etica nel giornalismo può essere garantita solo in parte: “non sarà mai in grado di mettere sotto sopra i principi fondamentali del capitalismo o delle più radicate tradizioni culturali, proprie di ciascun paese”. Può, nondimeno, rappresentare un correttivo.
Migliorare la qualità dei giornali non è facile, conclude l’autore. Le iniziative in tal senso sono viste con sospetto da chi pratica la professione. Innanzitutto perché accolte come una minaccia all’indipendenza giornalistica.
Purtroppo, non esiste una ricetta unica per diffondere nelle redazioni coscienza e consapevolezza della qualità. Il lavoro del giornalista è spesso svolto in condizioni di stress; per questo si può addirittura definirlo come particolarmente esposto all’errore. I direttori e le redazioni devono rendere noti gli errori in modo adeguato, sia tra i colleghi, sia al pubblico. Occorre imparare dagli errori, non nasconderli. Le redazioni che hanno il coraggio di ammettere gli errori guadagnano in credibilitàInformazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Informazione e comunicazione, grazie ai nuovi media, sono diventate funzioni sociali diffuse. Soggette però a elevati rischi di improvvisazione, confusione e manipolazione. Ciò non implica necessariamente il declino del giornalismo. Pone tuttavia in modo più radicale la questione della credibilità del giornalismo come professione e della sua autorevolezza. I media informativi devono insomma distinguersi sempre più per un’informazione di qualità.
Un’informazione che sappia coniugare la curiosità, l’intraprendenza e l’indipendenza con l’affidabilità, l’accuratezza, la verificabilità, la completezza. Ma come può migliorare la qualità dell’informazione? La pressione economica sulle redazioni giornalistiche è aumentata drasticamente. Le aspettative legate ai nuovi media e a internet lasciano il campo a difficoltà e incertezze. Il mercato pubblicitario registra una forte contrazione. Il giornalismo rischia di rimanere ostaggio di singoli grandi imprenditori, come Rupert Murdoch; o di vedere proliferare piccoli uffici giornalistici del tutto marginali. Lo studioso tedesco Stephan Russ-Mohl, docente di giornalismo presso l’Università della Svizzera italiana a Lugano, osserva e indaga da trent’anni la cultura giornalistica anglosassone, tedesca e svizzera. È da poco in libreria la versione italiana del suo diffuso manuale: “Fare giornalismo” (il Mulino).
Oltre a discutere con chiarezza tutti gli aspetti della professione, Russ-Mohl invita a non farsi abbagliare dalle meraviglie dell’era digitale e dell’innovazione tecnologica. La saturazione dell’informazione ha conseguenze simili alla stessa mancanza d’informazione. La nostra capacità di ricevere ed elaborare informazioni è, infatti, limitata. Come è possibile dunque fronteggiare ed elaborare adeguatamente la sovrabbondanza di notizie? Ognuno di noi percepisce la complessità del reale in modo diverso. Per i costruttivisti si tratta sempre di una realtà costruita. Eppure l’obiettività rimane un fine per quanti raccontano le notizie. Un’utopia, forse. Non per questo bisogna evitare di perseguirla. Fa un’enorme differenza se i giornalisti s’impegnano a mantenere il distacco dall’oggetto del loro scritto con lo scopo di informare il pubblico obiettivamente; oppure se prendono una posizione rispetto al tema trattato nell’intento esclusivo di influenzare il pubblico. A volte però “una finta obiettività diventa una cortina fumogena dietro alla quale si nascondono giornalisti di parte e spin doctors”. Questo gioco mascherato è peggiore del confronto aperto in cui i contendenti sono politicamente identificati.
L’esistenza di un Ordine dei giornalisti è una peculiarità italiana. A Russ-Mohl appare “di dubbia costituzionalità”. Tuttavia, ammette, “la posizione iconoclasta forse sottovaluta il rischio che l’assenza di un ordine potrebbe indebolire ulteriormente il giornalista di fronte all’editore”. Quanto alla deontologia, “là dove il diritto e la giurisprudenza non arrivano dovrebbe esserci almeno un codice etico a guidare e orientare le decisioni e le azioni dei giornalisti”. Quanto sono efficaci principi che non sono riconosciuti da tutti e che non sono vincolanti? Essi sono in grado di influenzare i comportamenti in una società sempre più complessa, pluralista e multiculturale? I codici etici e le norme professionali sono strumenti relativamente deboli. Manca di solito il potere di sanzione per poterli imporre. È importante quindi risvegliare l’etica della responsabilità: la consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. In Italia il dibattito sulla deontologia è tutto interno alle redazioni: “dovrebbe invece coinvolgere tutti gli interessati, da chi compra a chi consuma a chi ci guadagna a chi ne è oggetto”.
Persino nelle redazioni più rinomate la tutela nei confronti dei falsi non sempre funziona. Quanto lontano si può spingere il giornalista per far accettare il proprio lavoro? È lecito drammatizzare una storia per conquistare il pubblico aumentando così le vendite o i dati d’ascolto? Il redattore scientifico può riferire di una nuova cura sul cancro e illudere migliaia di pazienti? I media devono tenere per settimane in primo piano l’influenza aviaria o suina anche se i casi seri in Italia e nel resto d’Europa sono poche decine? I danni causati dalle notizie date in maniera irresponsabile hanno spesso un enorme impatto economico. Gli inglesi e gli svizzeri, rimarca ironicamente Russ-Mohl, “dovrebbero essere già estinti se la possibilità di ammalarsi di mucca pazza fosse stata anche solo la metà di quella affermata dai media!”.
Per i giornalisti non è facile mantenere le debite distanze dalle fonti di informazione, con le quali sono giornalmente in contatto e dalle quali in certa misura dipendono. Mantenere un buon rapporto con le fonti significa poter ottenere molte informazioni, talvolta anche in via esclusiva. Ma la prossimità con le fonti nasconde l’insidia della corruzione. E non sono rari i tentativi degli addetti alle Pubbliche relazioni di influenzare i servizi giornalistici mediante favori. Così come le richieste ai giornalisti di scrivere articoli benevoli in cambio di vantaggi.
Talvolta sono i giornalisti a pagare i testimoni nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Pratica ormai consueta, avverte Russ-Mohl. L’informazione a pagamento è in realtà una sorta di “normalità” cui i giornalisti sono abituati: si pagano le agenzie di stampa e si pagano le fotografie. Le notizie sono trattate come una merce, per quanto una merce molto particolare: chi non è giornalista reputa dunque moralmente accettabile il guadagno ricevuto dalla vendita di storie o fotografie esclusive. Certo la bramosia di denaro può indurre gli informatori a immaginare o a rendere più drammatiche le storie.
Ci sono casi in cui la protezione degli informatori va messa in discussione: ad esempio nel caso di criminali che mettono in pericolo la vita di altre persone. In questi casi il giornalista non è tenuto a coprire la fonte informativa. I giornalisti che vogliono mantenere la loro credibilità dovrebbero essere altrettanto critici anche quando scrivono su giornalisti e media.
Quali sono le informazioni che sono autorizzati a riprendere da altri giornalisti senza indicare la fonte e dove inizia il plagio? Il pubblico ha diritto di sapere da dove proviene l’informazione. Un discorso ancora più complesso riguarda gli inserzionisti.
Un principio irrevocabile del giornalismo di qualità dovrebbe essere la divisione netta tra la redazione e il settore pubblicità. In nessun caso la pubblicità dovrebbe influenzare i contenuti redazionali. Lo sviluppo delle inserzioni è invece legato, troppo spesso, alla condizione che i prodotti siano valutati in modo positivo anche nella parte redazionale. Ciò rappresenta un inganno per il pubblico. Gli inserzionisti sono, insomma, i principali clienti per le imprese dei media.
L’errore principale dei tentativi di risolvere dilemmi legati all’etica professionale è quello di enunciare norme universalmente valide. La maggior parte delle volte è necessario soppesare fra loro interessi contrapposti. La responsabilità etica non va addossata ai singoli giornalisti; ma condivisa anche dalle redazioni, dal management e dalla proprietà. Un’esigenza questa rimasta senza eco. Il giornalista ha l’obbligo di accuratezza ed è responsabile per le eventuali conseguenze delle notizie. Eppure non può avere ogni colpa: perché anche le aspettative dei colleghi e dei direttori ne influenzano il comportamento. Un sistema di norme professionali interne all’impresa editoriale, accettato dagli stessi giornalisti, offre la migliore difesa affinché il giornalismo possa mantenere intatta la sua autonomia. D’altra parte nelle società multiculturali e globalizzate contemporanee riuscire a fissare degli standard etici non è semplice. L’etica nel giornalismo può essere garantita solo in parte: “non sarà mai in grado di mettere sotto sopra i principi fondamentali del capitalismo o delle più radicate tradizioni culturali, proprie di ciascun paese”. Può, nondimeno, rappresentare un correttivo.
Migliorare la qualità dei giornali non è facile, conclude l’autore. Le iniziative in tal senso sono viste con sospetto da chi pratica la professione. Innanzitutto perché accolte come una minaccia all’indipendenza giornalistica.
Purtroppo, non esiste una ricetta unica per diffondere nelle redazioni coscienza e consapevolezza della qualità. Il lavoro del giornalista è spesso svolto in condizioni di stress; per questo si può addirittura definirlo come particolarmente esposto all’errore. I direttori e le redazioni devono rendere noti gli errori in modo adeguato, sia tra i colleghi, sia al pubblico. Occorre imparare dagli errori, non nasconderli. Le redazioni che hanno il coraggio di ammettere gli errori guadagnano in credibilità.

Le guerre future con l’AGS e i droni di Sigonella

La Sicilia sacrificata sull’altare del dio di tutte le guerre. Quelle di oggi e quelle future. Negli oceani, in cielo, in terra. Guerre satellitari, spaziali, stellari. Disumanizzate e disumanizzanti. Da combattere su un monitor a migliaia di chilometri distanti. Con aerei senza pilota e bombe teleguidate. Ordigni di ogni tipo, forma e dimensione. Al laser o all’uranio impoverito, killer elettromagnetici o nucleari. Target “virtuali” ma terribilmente reali: bambini, donne, anziani di cui nessuno conoscerà mai volti e identità. Corpi da spezzare, stuprare, dilaniare. Continenti da affamare. Popoli da sterminare.
I signori e i marcanti di morte hanno ipotecato ruolo e funzioni dell’isola: trampolino di guerra per colpire regimi disobbedienti e perpetuare ingiustizie e disuguaglianze planetarie; enorme centrale di spionaggio per incunearsi nelle vite di ognuno, dall’Atlantico agli Urali, dall’Africa all’estremo oriente. Il territorio siciliano è divorato dal cancro Sigonella, la più grande base militare Usa, Nato ed extra-Nato nel Mediterraneo. E le metastasi hanno pervaso Niscemi, Birgi, Augusta, Pantelleria, Lampedusa, Marsala, Noto-Mezzogregorio, Pachino, sedi di supersegrete installazioni militari e laboratori sperimentali dell’olocausto del terzo millennio.
A Bruxelles, l’ultimo summit dei ministri della difesa della Nato ha ufficializzato la scelta di Sigonella come “principale base operativa” dell’AGS (Alliance Ground Surveillance), il nuovo sistema di sorveglianza terrestre dell’Alleanza: un Grande Orecchio per monitorare il globo 24 ore al giorno, individuare gli obiettivi e scatenare il first stike, convenzionale o nucleare, in nome della guerra globale e permanente, preventiva e distruttiva. Entro cinque anni, nella grande stazione aereonavale saranno ospitati i sistemi di comando e di controllo dell’AGS che analizzeranno le informazioni intercettate da migliaia di sistemi radar satellitari, aerei, navali e terrestri. Per poter poi pianificare e ordinare gli attacchi, ovunque e comunque. Senza vincoli e regole morali.
Strumento cardine del nuovo sistema Nato, il più grande e sofisticato velivolo senza pilota mai progettato, l’RQ-4 “Global Hawk”, un falco globale di 13 metri e mezzo di lunghezza e un’apertura alare di oltre 35, in grado di volare a circa 600 chilometri all’ora a quote di oltre 20.000 metri. Con un’autonomia di 36 ore, è in grado di perlustrare un’area di 103.600 chilometri quadrati, in qualsiasi condizione meteorologica, grazie ad un potentissimo radar e all’utilizzo di telecamere a bande infrarosse. La sua rotta è fissata da mappe predeterminate, un po’ come accade con i famigerati missili da crociera “Cruise”, ma da terra gli operatori possono cambiare le missioni in qualsiasi momento. Un velivolo a tecnologia avanzata che tra ricerca, sviluppo e produzione comporta un costo unitario di 125 milioni, sperimentato proprio da Sigonella in occasione del recente conflitto alla Libia.
Per gli strateghi del Pentagono, la Sicilia dovrà fare da vera e propria caput mundi di falchi e predatori teleguidati: una decina i “Global Hawk” che l’aeronautica e la marina militare Usa si apprestano a dislocare; ancora più numerosi i “Predator” e i “Reaper” lanciamissili e lanciabombe. Per l’AGS di Sigonella, i “Global Hawk” dovrebbero essere ufficiosamente quattro, forse cinque e magari sei. O perfino otto, come riferì in Parlamento il 12 giugno 2009 l’allora ministro della difesa Ignazio La Russa. “L’Alleanza atlantica acquisterà un sistema di sorveglianza aerea basato su una flotta di otto velivoli a pilotaggio remoto e un segmento terrestre di guida e controllo, da integrare nell’ambito del sistema C4ISTAR della Nato”, annunciò il ministro che più si è battuto per fare di Sigonella la centrale strategica del nuovo sistema di sorveglianza.
Di otto falchi globali ha parlato pure Ludwig Decamps, caposezione dei programmi di armamento della Nato. “Il sistema AGS sarà fondamentale per le missioni alleate nell’area mediterranea ed in Afghanistan, così come per assistere i compiti della coalizione navale contro la pirateria a largo delle coste della Somalia e nel Golfo di Aden”, ha dichiarato. “L’AGS fornirà un preciso quadro della situazione operativa soprattutto per tutti i responsabili della Nato Response Force, la forza d’intervento rapido alleata, accrescendo le capacità di sorveglianza aerea. Il sistema consentirà inoltre di supportare i crescenti requisiti operativi anche per la gestione delle crisi, la sicurezza nazionale e gli aiuti umanitari”.
Per comprendere appieno la vocazione umanitarista degli odierni apprendisti stregoni bisogna dare un’occhiata alla nuova dottrina strategica dell’Alleanza, denominata NCW Network Centric Warfare. “L’AGS è un programma di vitale importanza per poter applicare sul campo la NCW e puntare all’integrazione in tempo reale delle forze militari in un’unica rete informativa globale”, spiegano a Bruxelles. “La NCW prevede un radicale cambiamento nei rapporti tra piano strategico, operativo e tattico e un diverso modo di comunicare, pianificare ed operare tra Comandi e forze militari”. Per farla breve, stabiliti gli obiettivi prioritari “senza limiti geografici”, gli interventi vengono demandati alle componenti spaziali, aeree, navali e terrestri che operano “in piena autonomia” nei teatri di guerra. Un network dunque che azzererà le tradizionali catene di comando-decisionali e impedirà qualsivoglia forma d’interferenza da parte delle autorità politiche sulle scelte e l’operato delle forze armate. Un modello ritenuto “indispensabile” perché “il campo di battaglia è ormai indefinito, la minaccia è asimmetrica e il nemico è invisibile, onnipresente e capace di colpire ovunque”. Un’orgia di follia, mentre cresce l’assuefazione dei giusti e dei pii all’odore acre della morte. Come in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Libia, Somalia. E il sonno della ragione genera nuovi e più terribili mostri.
AGS, affare Usa sulle tasche Nato
Come dare torto al segretario della difesa USA, Leon Panetta. È sicuramente un “ottimo accordo” quello raggiunto tra i paesi Nato per l’AGS a Sigonella. Ottimo per i massimizzare i profitti delle industrie chiave del complesso militare industriale degli Stati Uniti d’America e trasferire ai partner europei gli oneri finanziari e gli insostenibili impatti ambientali e sociali.
Merita essere rammentata la storia che ha portato a fare della Sicilia la patria-colonia dei falchi globali per le missioni di guerra del XXI secolo. Maturata la decisione di dar vita a quello che per voce di Bruxelles è il più “ambizioso e costoso” programma della storia dell’alleanza atlantica, l’ultimo governo Prodi candidò l’Italia quale main operating base del sistema AGS, negli stessi mesi in cui offriva segretamente l’ex scalo Dal Molin di Vicenza alle truppe aviotrasportate dell’esercito USA e la riserva naturale “Sughereta” di Niscemi al MUOStro per le telecomunicazioni spaziali della Us Navy.
Il 19 e 20 febbraio 2009, durante il vertice dei ministri della difesa Nato, venne raggiunto un accordo di massima per assegnare a Sigonella i comandi e gli aerei senza pilota AGS, dopo una lunga e lacerante trattativa che aveva visto ridurre progressivamente a 13 il numero dei paesi disposti a contribuire economicamente al programma (Stati Uniti, Italia, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Romania, Slovacchia e Slovenia).
Originariamente, il piano di sviluppo del sistema di sorveglianza vedeva associate 23 nazioni. Tutte determinate a dividersi le ultramilionarie commesse per allestire aerei e centri d’intelligence. “C’erano in gara due consorzi d’industrie che proponevano piattaforme diverse, la Transatlantic Industrial Proposed Solution (TIPS) ed il Cooperative Transatlantic AGS System (CTAS)”, ha riferito l’esperto John Shimkus all’Assemblea Parlamentare della Nato. “Tutti e due i consorzi proponevano di utilizzare lo stesso sistema radar di base. La principale differenza era il tipo di piattaforma aerea suggerita. TIPS prospettava una combinazione del velivolo europeo Airbus A321 e dell’aereo senza pilota Global Hawk di produzione statunitense, mentre CTAS prevedeva un’associazione di piccoli aerei Bombardier e Predator. Quest’ultima proposta sarebbe risultata meno costosa per l’acquisto del velivolo, ma avrebbe presupposto il doppio di stazioni a terra rispetto al sistema TIPS (49 contro 24)”.
Fu così che il vertice Nato di Istanbul dell’aprile 2004 attribuì al consorzio TIPS la ricerca e la progettazione delle apparecchiature terrestri e aeree dell’AGS. La scelta accontentava quasi tutti i maggiori protagonisti dell’industria bellica transatlantica: dai colossi Usa Northrop Grumman e General Dynamics, al gruppo aerospaziale franco-tedesco-olandese EADS, ai francesi di Thales, agli spagnoli di Indra sino alle italiane Selex e Galileo (gruppo Finmeccanica). Nel novembre 2007, l’inatteso colpo di scena. Senza consultarsi con gli alleati, l’amministrazione degli Stati Uniti annunciò l’abbandono della soluzione “mista” e affidò in esclusiva la realizzazione dell’intero sistema AGS alla Northrop Grumman, produttrice dei “Global Hawk”. La delusione degli europei fu incontenibile e, uno dopo l’altro, Belgio, Francia, Ungheria, Olanda, Portogallo, Grecia e Spagna ritirarono il proprio appoggio finanziario ed industriale, con la conseguenza che aumentò l’onere a carico dell’Italia.
In cambio di una subfornitura delle due aziende Finmeccanica di apparecchiature destinate alle stazioni terrestri e alle comunicazioni e la trasmissione dei dati, il governo italiano si accollò una spesa di 177,23 milioni di euro, pari al 12,26% del costo globale del programma (stimato in 1.335 milioni di euro). Nel settembre 2009, il memorandum sottoscritto in sede Nato per definire il quadro giuridico, organizzativo e finanziario dell’AGS ha tuttavia stimato i costi finali del programma a non meno di 2 miliardi di euro. Ciò significherà per il nostro paese un esborso di 245 milioni circa, a cui si aggiungeranno i costi per le trasformazioni infrastrutturali necessarie ad ospitare a Sigonella il personale Nato preposto al funzionamento del sistema, 800 militari circa, secondo l’ex ministro La Russa. Con la conseguente spinta ad accrescere la già asfissiante pressione militare sui territori della regione.
Le ombre più funeste riguardano però il futuro del traffico aereo in Sicilia. Quando le autorità spagnole che in un primo tempo avevano candidato Zaragoza come base operativa dell’AGS decisero di ritirarsi, spiegarono che i velivoli senza pilota avrebbero pregiudicato il normale funzionamento del vicino aeroporto della città. “Dato che le aeronavi della Nato voleranno continuamente per catturare le informazioni, si potevano generare restrizioni al traffico aereo, saturazione nello spazio aereo e problemi durante gli atterraggi e i decolli”, dichiarò un portavoce dell’allora governo Zapatero. Una valutazione dei rischi per la sicurezza dei sei milioni e mezzo di passeggeri in transito annualmente dallo scalo di Catania-Fontanarossa che i governi Prodi, Berlusconi e Monti non si sono sentiti di dover fare.
Il 31 marzo 2008, l’allora comandante del 41° Stormo dell’Aeronautica militare italiana, colonnello Antonio Di Fiore, aveva assicurato un parlamentare e i rappresentante della Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella che mai sarebbero stati trasferiti nella base siciliana i Global Hawk in quanto “la gestione di quel tipo di aerei senza pilota non è compatibile col traffico civile del vicino aeroporto civile Fontanarossa”. Oggi, però, nella base ci sono attivi perlomeno tre falchi globali e il Congresso ha approvato un piano di 15 milioni di dollari per installarvi una selva di antenne e generatori di potenza per supportare le telecomunicazioni via satellite dell’Unmanned Aircraft System (il sistema degli aerei senza pilota) e gestire le operazioni dei droni.
“Nel nuovo centro sorgeranno dodici ripetitori con antenne, attrezzature e macchinari, con la possibilità di aggiungere altri otto ripetitori della stessa tipologia”, è riportato nella scheda progettuale del Dipartimento della difesa. Intanto procedono celermente i lavori di realizzazione del Global Hawk Aircraft Maintanance and Operations Complex, il complesso che consentirà ai militari Usa di eseguire a Sigonella la manutenzione dell’intera flotta degli aerei senza pilota schierata in Europa e Medio oriente. L’appalto per 16 milioni e mezzo di euro è stato assegnato dal Pentagono alla CMC - Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna, società di costruzioni leader della “rossa” Lega Coop. Rossa di vergogna per aver disseminato l’Italia di basi e infrastrutture Usa e Nato. E gestire da mercenaria i centri-prigione per migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

mercoledì 22 febbraio 2012

Accendiamo la luce su Rossella Urru



da Il Fatto Quotidiano
di Giulio Cavalli | 20 febbraio 2012
Accendiamo la luce su Rossella Urru
Rossella Urru lavorava con la ONG ‘Comitato internazionale per lo Sviluppo dei Popoli’. Fino al 22 ottobre scorso. Quella notte è stata rapita insieme ai suoi colleghi spagnoli Enric Gonyalons e Ainhoa Fernandez che lavoravano con lei al campo profughi di Tindouf, dove da 36 anni il popolo saharawi vive in esilio. Secondo Khatri Addouh, presidente del parlamento saharawi, sarebbe detenuta in Mali al confine con il Niger in mano ad un’organizzazione terroristica. Il sequestro è stato rivendicato dal Movimento Unito per la jiahad in Africa, un gruppo in ascesa che probabilmente con questo sequestro ha puntato ad avere visibilità internazionale nel frastagliato mondo di piccoli e grandi gruppi in guerra tra loro in una torbida miscela di povertà, fanatismo e criminalità.
Il 12 dicembre un giornalista dell’Afp vede un video grazie un mediatore che si sta adoperando per la liberazione degli ostaggi. Il filmato si apre con il nome dell’organizzazione (Tawhid Wal Jihad Fi Garbi Afriqqiya) e mostra i volti di un uomo e due donne: Rossella è viva, dunque. Nel video indossa una tunica di colore blu e un velo giallo come la sabbia,alle sue spalle uomini armati con il viso coperto da un turbante.
È l’ultima foto di Rossella che è rimbalzata per il mondo poi, passati i secondi veloci della sensazione, tra i media è calato un immorale silenzio. Ci sono sequestri che sono troppo complicati da spiegare e troppo ventosi e normali per rimanere notiziabili. Evidentemente bisogna avere anche la fortuna di essere sequestrati nel modo giusto per rimanere in pagina nei giornali. Da qualche tempo la voce d’indignazione e di vicinanza per Rossella è uscita dai confini sardi e ha cominciato ad urlare più forte: Geppi Cucciari dal palco di Sanremo ha alzato la voce, Il Tg3 ha dedicato a Rossella Urru uno spazio per chiederne la liberazione, il Comune di Milano ha acceso i riflettori a Palazzo Marino, il Popolo Viola ha rilanciato l’appello e molti altri si sono mobilitati.
Da qualche tempo è stato aperto anche un blog che si apre con questa parole: In molti abbiamo vacillato di impotenza. Ci siamo sentiti infinitamente soli di fronte a tanto assurdo, svuotati da tanta assenza improvvisa. Così ci siamo chiusi in un lungo silenzio. Ma quello che noi credevamo un silenzio si è rivelato essere in realtà un coro di voci giunte da ogni dove. Un coro di solidarietà e di affetto che, dalla notte tra il 22 e il 23 ottobre, diventa sempre più accorato, sempre più grande e sincero. Senza addentrarsi in considerazioni ed analisi di ordine politico o religioso, lasciando quindi che siano gli esperti ad occuparsene in altre sedi più appropriate, questo blog vorrebbe solamente essere il punto di incontro fra tutte queste voci. Raccogliendo e condividendo in un unico spazio libero e aperto a tutti le numerose testimonianze per l’immediata liberazione di Rossella Urru.
Non facciamoci sequestrare anche la voce: la solitudine ha bisogno del buio e del silenzio per bruciare impunemente. Accendiamo la luce su Rossella Urru.

domenica 19 febbraio 2012

da Nigrizia

Salviamoci con il pianeta Terra

Alex Zanotelli

È necessario che la società civile italiana arrivi preparata alla conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, che si terra a Rio de Janeiro il giugno prossimo.

È incredibile notare quanto in questo paese si parli di banche, borsa, finanza e quanto poco di ambiente. Il governo Monti è tutto proteso sulla crescita dimenticando che il Pianeta Terra non ci sopporta più. È inconcepibile il silenzio che ha circondato la Conferenza sull'ambiente di Durban (Sudafrica) tenutasi lo scorso dicembre. Silenzio prima, durante e dopo quell'importante vertice. «Gli abitanti di questo Pianeta - ha detto giustamente a Durban il noto politologo Noam Chomsky - sono affetti da un qualche tipo di follia letale».

Sembra quasi che il problema del surriscaldamento, che è stato al centro delle trattative a Durban, non lo si voglia affrontare in pubblico dibattito. È un tabù! Eppure è il problema più grave che ci attanaglia tutti: il Pianeta Terra non ce la fa più con l'Homo sapiens. Giustamente il teologo australiano Paul Collins ha scritto nel suo recente libro Judgment Day: «Ritengo che la generazione che va dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi sarà tra le generazioni più maledette della storia umana: mai prima di oggi esseri umani hanno talmente degradato e danneggiato il pianeta Terra».

Eppure questa gravissima crisi ecologica sembra quasi che non ci tocchi, non ci interroghi, non ci preoccupi. Dopo la Conferenza dell'Onu di Rio del 1992 (il Vertice della Terra) che aveva suscitato così tante speranze, l'umanità non ha fatto altro che ignorare o sottovalutare il dramma ecologico. Abbiamo perfino lasciato decadere, quest'anno, il Trattato di Kyoto. La comunità scientifica mondiale, che si esprime tramite l'IPCC, ha continuato ad ammonire tutti che la situazione va peggiorando. Tutti i tentativi fatti per arrivare ad un accordo sia a Copenhagen (2009), come a Cancun (2010) e a Durban (2011) sono falliti. «Questa conferenza di Durban - ha scritto Giuseppe De Marzo, presente al vertice - finisce senza accordi vincolanti e una volta scaduto Kyoto niente potrà sostituirlo, stando così le cose. Dovremo aspettare il 2015 o addirittura il 2020».

Ma non abbiamo dieci anni a disposizione per salvarci! La comunità scientifica ritiene che la temperatura potrebbe salire di 3-4° centigradi entro la fine del secolo. Per evitare tale disastro dobbiamo tagliare l'80% delle emissioni di gas serra entro il 2050. Purtroppo i governi sono oggi prigionieri dei potentati economico-finanziari, come dei potentati agro-industriali che traggono enormi profitti da questo sistema. La finanza poi, che è il vero governo mondiale, vuole guadagnare anche sulla crisi ecologica con la cosiddetta green economy, l'economia verde. È la finanziarizzazione anche della crisi ecologica.

"Che dobbiamo fare?" è la domanda che ci viene spesso rivolta.

Dobbiamo prima di tutto rimettere in discussione il nostro modello di sviluppo e il nostro stile di vita, che costituiscono la causa fondamentale del disastro ecologico.

Secondo, dobbiamo informare più che possiamo utilizzando tutti i mezzi perché la gente prenda coscienza della gravità della crisi ecologica. Mi appello anche ai sacerdoti perché nelle chiese parlino di tutto questo: è un problema etico morale e teologico.

Terzo, dobbiamo impegnarci a tutti i livelli: a livello personale e familiare con uno stile di vita più sobrio, riducendo la dipendenza dal petrolio e potenziando il solare, e a livello locale (Comuni) con il riciclaggio totale dei rifiuti opponendoci all'inceneritore. A livello nazionale con un bilancio energetico (mai fatto in Italia!) che riduca del 30% le emissioni di gas serra entro il 2020. E a livello mondiale con la costituzione di un Fondo per aiutare i paesi impoveriti a far fronte ai cambiamenti climatici (sarà l'Africa a pagarne di più le conseguenze!). Questo lo potremo ottenere tassando le transazioni finanziarie dello 0,05% (la cosiddetta Tobin tax). Sempre a livello planetario con il riconoscimento non solo dei diritti dell'uomo ma anche dei diritti della Madre Terra, come ha fatto l'Ecuador.

È questa la maniera migliore per prepararci alla grande conferenza sullo sviluppo sostenibile che l'Onu ha indetto a Rio de Janeiro dal 18 al 23 giugno prossimo…

Uniamoci per assicurare che Rio+20 diventi una grande mobilitazione popolare in grado di fronteggiare la grave crisi ecologica. La speranza viene dal basso, dalla cittadinanza attiva. Come ce l'abbiamo fatta per l'acqua, dobbiamo farcela per salvare il Pianeta.

Diamoci da fare perché vinca la vita di tutti gli esseri umani insieme con il Pianeta Terra. È un unico impegno: salvare la Vita!

Nigrizia - 13/02/2012


sabato 18 febbraio 2012

Panorami mozzafiato, a nord l’Etna innevata, da est a sud il mare azzurro smeraldo dello Ionio e del Canale di Sicilia. Intorno, le innumerevoli cave di calcare dell’altopiano ibleo, i voli dei falchi, i carrubi, i mandorli, gli ulivi. le antichissime necropoli lambite dai letti di fiumi e ruscelli. I ruderi di eremi e chiese bizantine, i resti di quella che fu l’antica Noto spazzata dal funesto terremoto del 1693. Più a valle, la Noto nuova, città-gioiello del barocco siciliano.
Su per i tornanti, ad una decina di chilometri in direzione nord-ovest, contrada Mezzogregorio, 639 metri sul livello del mare. Un balcone con vista su mezza Sicilia e il Mediterraneo. Dalla fine del 1983, ospita una delle stazioni radar più importanti e meno conosciute dell’Alleanza Atlantica. Un enorme fungo-pallone bianco si erge a fianco di edifici e casermette. Più a lato, su una torretta, un radar che si muove incessante. Ad un centinaio di metri, separata da una stradina, una seconda area sottoposta a servitù militare, con sette alte antenne per le telecomunicazioni.
E’ domenica, ma i camion e le ruspe si alternano all’ingresso dei cancelli della base del “34° Gruppo Radar GRAM dell’Aeronautica Militare di Siracusa”. Accanto al fungo-pallone, alcuni operai lavorano ad una nuova grande torre in cemento armato. Altri sono impegnati a scavare e posare lunghi cavi di acciaio. Le opere di ampliamento della telestazione di guerra sono iniziati qualche mese fa. “A Mezzogregorio è in atto l’ammodernamento delle strutture operative e tecniche nell’ambito del progetto Air Command and Control System (ACCS), che prevede il progressivo trasferimento delle funzioni di controllo radar presso un unico centro operativo nazionale”, spiegano i portavoce dell’Aeronautica militare. L’ACCS è uno dei più recenti programmi della Nato (2009), costo complessivo due miliardi di euro, per potenziare la rete strategica di comando e controllo alleato in Europa.
Nella grande torre in costruzione verrà installato uno dei dodici sistemi Fixed Air Defence Radar (FADR) RAT31-DL commissionati dal ministero della Difesa italiano a Selex Sistemi Integrati, la società fino a poco tempo fa amministrata da lady G, Marina Grossi, moglie dell’ex presidente ed ad Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini. Una supercommessa da 260 milioni di euro che interessa altri undici siti radar sparsi in tutto il territorio nazionale, a cui partecipa anche la Vitrociset S.p.A. di Roma, il cui presidente è il generale in pensione Mario Arpino, capo di Stato Maggiore della difesa fino al 2001.
“Il FADR costituisce la struttura portante del programma con cui l’Aeronautica militare ha avviato la sostituzione dei propri sistemi di sorveglianza aerea per rendere disponibili le frequenze necessarie all’introduzione della nuova tecnologia Wi-MAX (Worldwide Interoperability for Microwave Access) di accesso internet ad alta velocità in modalità wireless”, ha spiegato il generale Mario Renzo Ottone, comandante del Centro per le operazioni aeree nazionali e Nato (COA-CAOC) di Poggio Renatico (Ferrara). Per i manager di Selex-Finmeccanica, il nuovo sistema radar “ha eccellenti capacità di scoprire e tracciare i segnali radio a bassa frequenza di aerei e missili balistici”, supportando diverse funzioni d’intelligence e guerra elettronica in ambito alleato. Il Fixed Air Defence Radar appartiene all’ultima generazione dei sistemi 3D a lungo raggio: con una portata sino a 500 km di distanza e 30 km in altezza, opera in una frequenza compresa tra 1,2 e 1,4 GHz (L-band) e con una potenza media irradiante di 2,5 kW.
Il 34° GRAM concorre oggi alla sorveglianza dello spazio aereo italiano e di buona parte di quello della regione sud-europea della Nato, “funzione primaria del sistema di difesa aerea che vede operativi, 24 ore su 24, i caccia-intercettori dei gruppi di volo dell’Aeronautica ed i sistemi missilistici Spada ed Hawk”. “Il Gruppo radar di Mezzogregorio” – aggiunge il Comando dell’Aeronautica - è sottoposto ad una doppia dipendenza, una in linea gerarchica da parte del Comando di squadra aerea “Drago” di Milano, ed una operativa Nato/Nazionale, rappresentata dal CAOC 5 (per la parte Nato) e dal co-ubicato comando COFA (per la parte nazionale) di Poggio Renatico”.
Al 34° GRAM convergono, per la loro elaborazione, le informazioni raccolte dalle due Squadriglie radar dell’AMI operanti in Sicilia, la 134^ di Lampedusa e la 135^ di Marsala. Il centro assicura pure l’interscambio informativo con le unità navali Usa e Nato in navigazione nel Mediterraneo. “Il 34° Gruppo radar è uno dei due siti italiani in possesso del sistema SSSB (Ship-Shore-Ship Buffer), attraverso il quale è possibile ricevere e trasmettere, in tempo reale, alle navi militari impegnate nelle attività di pattugliamento e sorveglianza marittima e dotate di particolari apparati elettronici, l’immagine della situazione aerea d’interesse”, aggiunge l’AMI. Anche l’SSSB è uno dei programmi più rilevanti dal punto di vista strategico avviati in sede Nato.
La stazione nel territorio di Noto (20 ettari di terreno espropriati a partire del 1977) fu inaugurata ufficialmente l’1 gennaio 1984, assorbendo le funzioni e parte dei sistemi di rilevamento dell’allora centro radar AMI di contrada Belvedere, nel comune di Siracusa. “Per l’assolvimento della missione assegnata, il 34° Gruppo radar si avvarrà di due distinte sedi, distanti tra loro circa 40 Km, la sede operativa di Mezzogregorio e la sede logistica di Siracusa che utilizza il sedime e parte delle strutture dell’ex-idroscalo militare “Arnaldo De Filippis” e dell’adiacente idroscalo civile che a partire dal 1955 furono restaurati e riconvertiti per divenire un’unica sede di supporto logistico”, spiegò l’Aeronautica. Nella base furono installati un radar 2D del modello “Argos 10” della Selenia e le apparecchiature “semiautomatizzate” integrate nel NADGE (Nato Air Defence Ground Environment), il sistema di comando e controllo della difesa aerea che copre integralmente il territorio europeo della Nato, dalla Norvegia alla Turchia.
Nella seconda metà degli anni ’90, le apparecchiature furono ulteriormente potenziate: l’Argos 10 fu sostituito dal radar 3D “multimissione e a lunga portata” AN/FPS-117 della Lockheed-Martin, in funzione in sedici paesi Nato ed extra-Nato. Nel 2003, il 34° GRAM ricevette il “Multi AEGIS Site Emulator” (M.A.S.E.), sensore Nato per l’elaborazione dati, la gestione delle operazioni di difesa e attacco e il “mantenimento della superiorità aerea”.
Nonostante la potenza dei trasmettitori e dei dispositivi radar ospitati, scarsissima attenzione è stata prestata dalle autorità civili e militari ai possibili effetti dell’inquinamento elettromagnetico sulla popolazione residente nella vicinissima frazione di Testa dell’Acqua. In passato, alcuni professionisti locali avevano denunciato “il cattivo funzionamento dei sistemi d’allarme, delle apparecchiature elettriche e degli elettrodomestici”. “Mi accorsi una volta che un giocattolo di mio figlio si accendeva improvvisamente nei pressi del radar”, racconta uno di loro. “Allertammo il sindaco di Noto e chiedemmo l’intervento dell’ARPA, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente. Fu pure denunciato il caso di un bambino che abitava a poche centinaia di metri dalla base che si ammalò di leucemia. I vertici dell’Aeronautica militare ci assicurarono di aver preso le dovute precauzioni schermando gli impianti. Questi fatti avvennero intorno al 1996, ma ad oggi non sappiamo ancora se sono stati eseguiti controlli sull’elettromagnetismo”.
Negli stessi anni, a Potenza Picena (Macerata), dove era in funzione un analogo sistema radar “Argos 10” dell’AMI, amministratori e gruppi ambientalisti denunciarono l’alta incidenza di gravissime patologie e di decessi per particolari neoplasie “con una percentuale anche di 9-10 punti alla media nazionale”. Un’interrogazione parlamentare presentata nel novembre 1998 segnalò che nella cittadina si registravano “fenomeni inspiegabili, dall’accensione e dallo spegnimento improvvisi di TV e radio alla perdita del controllo delle auto da parte degli automobilisti”. Inoltre si erano moltiplicati “i casi di tumori, le leucemie, gli aborti spontanei, i problemi al cristallino dell’occhio, i casi di vertigini, le convulsioni, le insonnie, l’ipertensione”.
Il 30 aprile 1999, fu l’allora sottosegretario di Stato alla sanità, Antonino Mangiacavallo, a negare in parlamento qualsivoglia responsabilità delle onde elettromagnetiche dell’impianto militare. In esito alle proprie indagini – riferì - sia l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro ISPESL sia l’Istituto superiore di sanità concordarono che i campi elettromagnetici irradiati a Potenza Picena non comportavano rischi per la popolazione, in quanto la loro intensità risultava, in qualunque condizione, inferiore ai limiti raccomandati dalle più autorevoli organizzazioni protezionistiche internazionali”.
Due mesi prima, il diligente sottosegretario aveva preso carta e penna per rispondere al parlamentare Nicola Bono (An), che aveva ipotizzato possibili legami tra la stazione militare di Noto – Mezzogregorio e “l’aumento di neoplasie solide e liquide” in alcuni comuni della provincia di Siracusa. “I dati e le notizie raccolti dalle autorità sanitarie della regione Sicilia e, in particolare, dai competenti servizi dell’azienda USL n. 8 di Siracusa, non indicano alcun significativo aumento di patologie neoplastiche nei comuni circostanti l’area in cui è installato il radar”, scrisse Mangiacavallo. “L’USL aveva disposto un’indagine epidemiologica al fine di accertare l’eventuale relazione fra mortalità e morbosità per neoplasie ed inquinamento elettromagnetico nel territorio limitrofo al 34o Gruppo Radar dell’Aeronautica militare. Tale indagine ha contemplato un arco temporale di incidenza delle patologie di dieci anni, così da poter verificare in maniera attendibile la linea di tendenza, in incremento o decremento, dei fenomeni indagati. Nel complesso, sono state individuate undici persone ammalate o diversi tipi di cancro. Tuttavia, veniva riscontrato, fra essi, un solo caso di leucemia infantile (in una bambina di 5 anni), mentre era considerato come “sospetto” caso di leucemia lo stato patologico osservato in una paziente adulta”.
Nonostante l’ammissione che “taluni studi epidemiologici e sperimentali” avevano provato l’associazione tra l’esposizione ai campi elettromagnetici a bassa frequenza e l’insorgenza di patologie tumorali e leucemia infantile, il sottosegretario alla sanità giungeva ad affermare che “il nesso di causalità non viene tuttavia dimostrato, sia per la mancanza di un chiaro meccanismo d’azione dell’eventuale cancerogenicità dei campi magnetici di frequenza industriale, sia per le stesse carenze talvolta riscontrate negli studi in questione”. Infine, il membro dell’allora governo di centrosinistra sposava le conclusioni di un rapporto appena pubblicato dallo statunitense National Research Council: “Dopo aver esaminato oltre 500 studi in tre anni, il prestigioso organismo afferma che le ricerche effettuate non hanno mostrato in alcun modo esauriente che i campi elettrici e magnetici comunemente riscontrabili negli ambienti residenziali possano causare problemi di salute”.
Tutto era sotto controllo dunque, e diveniva inutile qualsivoglia studio o valutazione della portata delle emissioni del Grande occhio Nato del Mediterraneo. Adesso il 34° GRAM si fa ancora più importante e più potente. Con buona pace degli ignari abitanti di Testa dell’Acqua e Mezzogregorio.

domenica 12 febbraio 2012

Siria, ora ci sono le prove: bambini torturati e uccisi, scuole trasformate in prigioni.
Bambini dai 13 anni in giù sono stati rapiti e sottoposti a violenze terribili. Acqua bollente, ustioni, elettroshock. La denuncia dettagliata di Human rights watch.

redazione
venerdì 3 febbraio 2012 12:04


L'esercito siriano e gli agenti di sicurezza del regime di Assad hanno arrestato e torturato anche i bambini nel corso dell'anno appena passato. La notizia era già circolata in passato, ma ora riceva autorevole e drammatica conferma. E' questa infatti la terribile denuncia diffusa oggi dall'organizzazione internazionale "Human Rights Watch". HRW ha documentato almeno 12 casi di bambini, al di sotto dei 13 anni, detenuti in condizioni disumane e torturati; altri bambini sono stati uccisi nelle loro case o per strada. Ancora, Human Rights Watch, ha documentato la trasformazione delle scuole, da parte del governo, in centri di detenzione, basi militari, postazioni per i cecchini, inoltre è stato provato l'arresto di bambini nelle scuole. La gran parte degli istituti scolastici del Paese sono vuoti, i genitori non mandano più i figli a scuola, il terrore domina per le strade delle città siriane.

Human Rights Watch ha esortato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a chiedere che al governo siriano la fine di tutte le violazioni dei diritti umani e di iniziare a cooperare con la commissione d'inchiesta inviata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e la missione della Lega Araba. Viene poi chiesto al governo guidato da Bashar al Assad di ritirare le forze di sicurezza dagli ospedali e dalle scuole. "Ai bambini non è stato risparmiato l'orrore della repressione in Siria", ha detto Lois Whitman, direttore dell'ufficio dei diritti dei bambini di Human Rights Watch. "Le forze di sicurezza siriane - ha detto Whitman - hanno ucciso, arrestato, torturato i bambini nelle loro case, nelle scuole o per le strade". Human Rights Watch ha pure documentato la violenza messa in atto dal governo contro manifestanti pacifici, quindi le uccisioni sistematiche, i pestaggi, le torture con elettroshock l'arresto di persone che cercavano cure mediche.

Human Rights Watch ha potuto parlare con oltre 100 persone detenute dalle forze di sicurezza siriane nelle città di tutta la Siria da quando sono iniziate le proteste nel marzo del 2011; tra queste diversi bambini e un certo numero di adulti che hanno incontrato altri bambini durante la detenzione. Gli intervistati hanno descritto l'uso dilagante della tortura nei centri di detenzione anche contro i detenuti più giovani, le testimonianze, in questo senso,vanno oltre i 12 casi specificamente documentati da Human Rights Watch.

Tra le voci raccolte quella della madre di Fouad, 13 anni, residente a Lattakia. Foaud lo scorso dicembre è stato arrestato e trattenuto per nove giorni. Secondo i suoi genitori, è stato accusato di aver dato fuoco a un'immagine del presidente Assad, di aver danneggiato delle vetture delle forze di sicurezza e di aver incoraggiato altri bambini alla rivolta. I membri dei servizi di sicurezza hanno provocato ustioni al ragazzo con le sigarette sul collo e sulle mani, poi l'hanno cosparso di acqua bollente. Un altro ragazzo, "Hossam", sempre di 13 anni, ha detto a HRW di essere stato arrestato con un amico della stessa età e di essere stato sottoposto a torture per tre giorni in un centro di sicurezza militare a 45 minuti da Tal Kalakh. Altri racconti parlano di bruciature, di isolamento, della pratica di appendere per le manette i bambini che restavano sospesi nel vuoto.

Mentre si contano a migliaia i morti e le vittime di una repressione sempre più brutale, il consiglio di Sicurezza dell'Onu cerca un difficile accordo per una risoluzione sulla crisi siriana che possa ricevere l'appoggio della Russia, il più strenuo difensore del regime. Un testo sarà forse presentato lunedì prossimo. L'isolamento internazionale di Asad cresce, e tuttavia le strade continuano a riempirsi di cadaveri, ogni giorno che passa la situazione interna al Paese precipita. Certo è che la caduta del regime provocherà un terremoto senza precedenti negli assetti della regione.
Il clan dei genovesi/2 Fratelli coltelli alla conquista della Chiesa universale
Mentre il Vaticano affoga negli scandali, le lotte di potere fra alti prelati proseguono senza sosta. I cardinali Bertone e Bagnasco governano la scena

redazione
mercoledì 1 febbraio 2012 10:00


Di Francesco Peloso

Il nuovo patriarca di Venezia arriva da La Spezia, curioso, quasi che nessun prete del Triveneto fosse adatto al'arduo compito. Ma si sa, ormai le nomine delle diocesi italiane assomigliano alla lotta per le investiture del Medioevo, e poi il patriarcato è sede dalla quale sono usciti diversi papi.
Con un occhio al conclave la battaglia per il potere degli uomini di vertice della Chiesa va avanti senza esclusione di colpi. Il nuovo arcivescovo veneziano dice di essere un servitore della diocesi e di non portare con sé alcuna ricchezza. Buoni propositi, il resto si vedrà. Questo il servizio che ho realizzato sull'argomento.


Il cardinale Tarcisio Bertone Segretario di Stato; l'attuale arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, alla presidenza della Cei; il cardinale Mauro Piacenza, prefetto della congregazione vaticana per il clero; e ora monsignor Francesco Moraglia, anche lui genovese d'origine e di formazione ecclesiale, ormai ex vescovo di La Spezia, alla guida del prestigioso Patriarcato di Venezia. Forse la Chiesa cattolica sarà pure in crisi per la caduta della fede e i continui scandali, ma certo il 'pacchetto di mischia' di origine genovese - che qualcuno chiama da tempo 'il clan dei genovesi' - miete successi e nomine di primissimo piano dal Vaticano alle diocesi di maggior prestigio. Poi che qualche volta fra le diverse personalità in ascesa vi sia anche un clima da "fratelli coltelli", questa è un'altra storia, i problemi del resto non mancano nelle migliori famiglie.

Intanto Moraglia, ieri, ha ricevuto dal Papa l'attesa nomina veneziana. Non è un mistero che i vescovi del Triveneto avrebbero preferito una soluzione locale, magari nella persona di monsignor Bruno Mazzocato, attuale vescovo di Udine, e che la stessa Segreteria di stato volesse giocare anche altri due assi che da tempo ha nella manica: quelli di monsignor Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza, e di monsignor Aldo Giordano, osservatore della Santa Sede al Consiglio d'Europa. Eppure Moraglia è una nomina che, in qualche modo, va bene anche al cardinale Bertone nonostante l'eterno confronto-scontro con la Cei.

Il nuovo patriarca, infatti, ha collaborato in passato - in qualità di vicario episcopale - proprio con Bertone che è stato anche arcivescovo di Genova, successivamente ha avuto a che fare con Bagnasco. E' stato quest'ultimo, non a caso, a chiamarlo alla "Fondazione Comunicazione e Cultura" della Cei. Insomma da parte dell'episcopato italiano la scelta Moraglia è ben vista. Fra l'altro fino all'ultimo è stato in lizza per la diocesi veneziana monsignor Vincenzo Paglia, attuale vescovo di Terni, appartenente alla Comunità di Sant'Egidio. Quest'ultima - va sottolineato - ieri ha avuto comunque un riconoscimento importante da parte del Papa che ha nominato vicario della diocesi di Roma monsignor Matteo Zuppi, assistente ecclesiastico della comunità con sede nel quartiere romano di Trastevere. Moraglia, 59 anni, dovrà però attendere almeno un anno per ricevere l'agognata berretta rossa cardinalizia. Il Papa ha infatti già convocato il prossimo concistoro per la nomina di 22 nuovi cardinali. E' probabile che fra un anno, un anno e mezzo, Benedetto XVI proceda a un'altra serie di nomine e quale punto quasi certamente il nome di Moraglia farà parte del gruppo Il nuovo patriarca, infine, si è presentato con un lungo messaggio alla nuova diocesi e ai fedeli nel quale fra l'altro affermava: "Sono mandato a voi - nella successione apostolica - come vostro vescovo; non conto su particolari doti e doni personali, non vengo a voi con ricchezza di scienza e intelligenza ma col desiderio e il fermo proposito d'essere il primo servitore della nostra Chiesa che è in Venezia".
Manovre pre-conclave, ma si scontrano due destre (per ora)
Dai sacri palazzi ormai esce di tutto, è la conferma che il Papa è debole e il Segretario di Stato non è amato; i papabili, intanto, rischiano di bruciarsi.

redazione
sabato 11 febbraio 2012 19:05


Di Francesco Peloso

Fra dossier e lettere riservate, documenti anonimi e messaggi trasversali, la lotta di potere all'interno della Chiesa è entrata nel vivo. Con l'avanzare dell'età del Papa, ad aprile toccherà gli 85 anni, le manovre per la successione sono iniziate. Fra l'altro è stato lo stesso Benedetto XVI ad affermare nel libro-intervista "Luce del mondo" che, qualora non si sentisse più in grado, sotto il profilo fisico e psichico, di rimanere al suo posto, sarebbe pronto a dimettersi. Ma intanto nell'agenda del Pontefice ci sono viaggi - a Messico e a Cuba a fine Marzo e in Libano a settembre - e altri impegni; per il resto i collaboratori del Pontefice cercano di alleggerire i carichi di lavoro e gli impegni, tutto procede insomma. E però la competizione per la successione è già iniziata, d'altro canto tradizionalmente ha tempi lunghi e macina candidati nel corso del tempo. Quella che si sta svolgendo in questi mesi è una lotta tra due schieramenti trasversali, entrambi conservatori, ma fieramente opposti fra loro. Se in Curia il cardinale Tarcisio Bertone rimane forte e ben rappresentato, le critiche verso il suo operato si moltiplicano in diversi episcopati del mondo, in ambienti ecclesiali che hanno perso alcune quote di potere, fra quanti ritengono che dal punto di vista diplomatico e internazionale l'attuale squadra della Segreteria di Stato non stia operando al meglio.

I 'bertoniani' si sono rafforzati notevolmente con l'ultima serie di nomine cardinalizie - il concistoro durante il quale il Papa assegnerà la fatidica berretta rossa si svolgerà il 18 febbraio - che hanno visto l'ingresso nel Sacro collegio di diverse personalità legate al Segretario di Stato. In particolare Giuseppe Bertello, che è anche presidente del Governatorato, quindi il vescovo Giuseppe Versaldi, che ora guida la Prefettura degli Affari economici, quindi Domenico Calcagno, a capo del dicastero che amministra il patrimonio della sede apostolica (Apsa). A questi si può aggiungere il cardinale Mauro Piacenza, alla guida della Congregazione per il clero. Poi ci sono diversi altri cardinali italiani più o meni vicini a Bertone o che in qualche modo fanno riferimento a lui. In termini numerici questo gruppo può contare almeno su una decina di 'voti' sicuri in un eventuale conclave che possono risultare determinanti per eleggere qualsiasi candidato (in tutto i partecipanti al conclave oscillano intorno a quota 125).

Gli italiani con la porpora e con diritto di voto sono però molti, 30 allo stato attuale delle cose. Fra loro si scorgono nomi eccellenti come quello dell'arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco, presidente della Cei. E che l'episcopato italiano non abbia amato un granché Bertone non è un mistero. Spicca poi il nome di Angelo Scola, arcivescovo di Milano, di cui si dice che sia ben visto da Benedetto XVI; intorno al suo nome potrebbe coagularsi l'altra alla conservatrice, quella di opposizione. In Curia, in effetti, vi sono anche alcuni 'ratzingeriani doc' in posti chiave che non sono allineati a Bertone. Fra loro certamente il prefetto della Congregazione dei vescovi Marc Ouellet, canadese, e l'americano William Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. A loro si può aggiungere l'ultraconservatore statunitense Raymond Burke, chiamato dal Papa alla guida del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica, sostenitore della messa in latino nel rito antico e di una lettura riduzionista del Vaticano II.

In tale contesto si apre la strada anche alla candidatura di Timothy Dolan, arcivescovo di New York, appena nominato cardinale, cui il Pontefice ha affidato l'apertura del prossimo concistoro straordinario, cioè dell'assise dei cardinale di tutto il mondo che si svolgerà a Roma subito prima della cerimonia per la nomina dei nuovi cardinali. Dolan è un antiobamiano senza se e senza ma, e sostiene una Chiesa che mette difesa del matrimonio e della vita al primo posto; potrebbe essere però il candidato di mediazione fra le diverse componenti. Meno chance sembra avere - per ora - l'arcivescovo di Boston, Sean O'Malley, un frate cappuccino che ha avuto il merito di affrontare lo scandalo pedofilia nella città che fu epicentro della vicenda più di dieci anni fa. Quasi del tutto scomparsa, con il pontificato di Benedetto XVI, l'ala riformista della Chiesa. Resta in campo il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, vescovo dell'Honduras, molto stimato ma proveniente da un Paese dallo scarso peso politico.

Ancora, in quest'area, potrebbe rientrare il brasiliano moderato di Curia, Joao Braz de Aviz, Prefetto della Congregazione per i religiosi. Infine c'è il nome di una quasi ex stella del firmamento ecclesiale come il cardinale di Vienna Christoph Schoenborn; amico personale di Ratzinger, ha contestato l'eccesso di centralità romana, ma sotto di sé si trova una Chiesa ormai in rivolta contro la dottrina di Roma che invoca una nuova Riforma.
Svolta storica in Vaticano: il papa abbandona Assad
Dopo una lunghissima vicinanza, per paura di un futuro peggiore, il papa capovolge la linea del Vaticano sulla Siria e non solo.

Riccardo Cristiano
domenica 12 febbraio 2012 12:47


di Riccardo Cristiano
E' un testo che potrebbe avere valenza storica quello che papa Benedetto XVI ha letto oggi, alle 12,10, dopo aver recitato la preghiera dell'Angelus, al riguardo della tragedia siriana. Eccolo: "Seguo con molta apprensione i drammatici e crescenti episodi di violenza in Siria. Negli ultimi giorni essi hanno provocato numerose vittime. Ricordo nella preghiera le vittime, fra cui ci sono alcuni bambini, i feriti e quanti quanti soffrono le conseguenze di un conflitto sempre più preoccupante. Inoltre rinnovo un pressante appello a porre fine alle violenze e allo spargimento di sangue. Infine invito tutti - e anzitutto le Autorità politiche in Siria - a privilegiare la via del dialogo, della riconcilazione e dell'impegno per la pace. E' urgente rispondere alle legitime aspirazioni delle diverse componenti della Nazione, come pure agli auspici della comunità internazionale, preoccupata del bene comune dell'intera società e della Regione".
Questo appello, dal punto di vista vaticano di enorme coraggio, pone termine a un anno di imbarazzatissimo silenzio. Dall'inizio della "primavera arba" la Santa Sede ha sperato in un cambiamento, ma ha temuto anche, e comprensiblmente, che la volontà di libertà delle piazze venisse poi capovolta da esiti islamisti, con la nascita di governi che aumentassero e non alleviassero le discriminazioni e le sofferenze delle comunità cristiane. Il regime simbolo di questo sistema è stato per anni proprio quello siriano: dispotico, dittatoriale, ma espressione di una minoranza religiosa, gli alawiti, e quindi rispettoso se non della libertà politica quanto meno di quello di culto delle altre minoranze religiose, a partire da quella delle comunità cristiane. Ecco perchè è stato sempre difeso dai patriarchi cristiani e sopportato dal Vaticano.
Ma davanti alla barbarie di questi ultimi giorni il papa ha scelto la posizione più rischiosa e coraggiosa: "questa libertà vigilata quando si immerge in un mare di sangue non ci può più bastare". Il passaggio cruciale del discorso di Benedetto XVI è infatti questo: "E' urgente rispondere alle legittime aspirazioni delle diverse componenti della Nazione".
Presi nel mezzo dei paradossi sovente necessari del pragmatismo, i leader cristiani in Medio Oriente dopo aver denunciato la condizione di "minoranza protetta" nella quale hanno vissuto per secoli negli stati islamici, svaporata rapidamente l'epoca della speranza, all'inizio del 900, davanti al rischio islamista sono rifluiti nella richiesta di protezione da parte dei despoti arabi. Ora Benedetto XVI, con la prudenza del caso ma anche con chiarezza, ha indicato una strada diversa. Difficile, rischiosa, ma per molti indispensabile.

mercoledì 8 febbraio 2012

Padre Turoldo, un profeta del ‘900
                                                                          di Ettore Masina
Padre Davide Maria Turoldo è morto il 6 febbraio del 1992 e certo molti giovani di oggi non lo hanno mai sentito nominare, se non per qualche poesia sulle antologie scolastiche meno conformiste. Ma il ricordo di lui è ancora vivo in molti adulti, come si vede dalla imminenza di numerosi convegni dedicati alla sua memoria e a quella del suo amico Ernesto Balducci, morto poco dopo di lui, il 25 aprile 1992. Turoldo e Balducci, due uomini diversissimi fra loro, rimangono infatti tra i maestri di chi, durante e dopo il Concilio, pensò che la Chiesa avrebbe dovuto diventare, secondo la parola di Giovanni XXIII, Chiesa dei poveri.
Essi stessi erano figli di poverissima gente. Davide, nono di dieci figli, era stato pastore, da bambino, prima di entrare in seminario; la casa dei suoi genitori era così misera da non avere neppure un camino, le pareti dunque annerite dal fumo. Considerò sempre questa sua condizione come un titolo di nobiltà: il suo Cristo si era identificato nei poveri e aveva proclamato che il criterio del giudizio universale sarebbe stato quello della solidarietà mostrata o negata loro. Così, uomo dal multiforme ingegno, Turoldo fu monaco, nell’ordine dei Servi di Maria, e poeta, scrittore di meditazioni teologiche e di note politiche, predicatore di successo anche mediatico, teatrante e persino sceneggiatore e regista di un film. Ma tutto questo avendo sempre come bussola i diritti dei poveri, la loro dignità, la necessità, per i credenti, di testimoniare la propria fede con le opere. Nella chiesa milanese di san Carlo al Corso, presso la quale era stato “incardinato” nel 1940, inventò la “messa del povero”, durante la quale si raccoglievano offerte anche di generi alimentari e vestiario, ma chiarì subito ai fedeli che questo era il minimo che il Vangelo richiedesse: ben più radicali erano le esigenze della carità.
Con il suo fraterno amico, p. Camillo de Piaz, fondò un centro culturale denominato Corsia dei Servi, che dopo l’8 settembre 1943 divenne un nucleo importante di resistenza al nazismo e al fascismo. Furono nascosti fuggiaschi, aiutate famiglie, ospitate riunioni clandestine, stampato e diffuso un giornale (L’Uomo) in cui si cominciava a discutere delle forme da dare alla nascente democrazia italiana. Da allora Turoldo si legò vitalmente a ogni lotta di liberazione, non solo a quelle italiane dei contadini e degli operai, ma anche di regioni lontane: da quella antifranchista a quella del Salvador di mon. Oscar Romero, del Guatemala di Rigoberta Menchú, del Nicaragua di Ernesto Cardenal, dei movimenti “neri” degli Stati Uniti e del Sudafrica. Nell’epoca della guerra fredda non permise a nessuno di incasellarlo negli schemi di quello che lui chiamava sprezzantemente «il sistema». A chi lo invitava (ma è un eufemismo) ad aderire alla Democrazia Cristiana, rispondeva che non si doveva confondere un partito con la Chiesa né la Chiesa con un partito.
Amò grandemente papa Gio-vanni e il Concilio e fu appassionatamente con chi desiderava che il cattolicesimo italiano diventasse più cristiano. Anche da questo punto di vista non si limitò a predicare: già colpito dal cancro che lo avrebbe ucciso, lavorò con impegno, insieme a Gianfranco Ravasi, a una nuova versione italiana del Salterio, prezioso dono alla Chiesa.
Questa sua poliedrica personalità, il tumulto dei suoi sentimenti, la radicalità della sua testimonianza di fede gli procurò l’ostilità di non pochi clericali e di atei devoti; i suoi superiori, almeno alcuni, lo amarono – o almeno lo stimarono – ma temettero che la sua presenza fosse troppo ingombrante e risultasse scandalosa ai vertici vaticani. Perciò, più volte, lo allontanarono dall’Italia senza rendersi conto che in questo modo si espandeva il raggio della sua azione. Turoldo diventò così, oggetto di interesse in molti Paesi e maestro più o meno consapevole di sacerdoti e di seminaristi.
Il suo macro ecumenismo nel nome dei poveri lo rese amico di Vittorini e di Carlo Bo, di Testori e di Pasolini, di Luzi, Giudici, Zanzotto, Sanguineti e di tanti altri intellettuali che pure non sarebbero facilmente stati disposti ad accettare il nome di cristiani. Ma, naturalmente, anche più ampia fu la cerchia degli amici con i quali condivise sensibilità ed esperienze ecclesiali: Dossetti, Lazzati e La Pira, p. Balducci, don Zeno Saltini, don Milani, don Mazzolari, don Vivarelli, p. Nazareno Fabretti, Luigi Santucci.
Trascorse gli ultimi anni in una antica abbazia, da lui restaurata con il contributo di amici, a Fontanella di Sotto il Monte (Bg), il paese natale di papa Giovanni XXIII. Come era accaduto in tutti i luoghi in cui aveva dovuto piantare la sua tenda di pellegrino o di esiliato, gli si strinse attorno una comunità che con lui vedeva la necessità di un vangelo incarnato non in grandi strutture ma in piccoli cerchi di amicizia. Nel 1988 seppe di dover morire entro pochi mesi. Allora vedemmo in lui più chiaramente la profondità della sua fede in un’attesa serena dell’eternità.
Il 21 novembre 1991 il cardinale Martini, arcivescovo di Milano, gli consegnò il Premio Lazzati per l’appassionata ricerca sui rapporti fra religione e società civile. Martini, quasi piangendo chiese scusa al vecchio poeta per le incomprensioni della Chiesa. «La tua – disse – è stata una delle voci profetiche del nostro tempo».
Il 2 febbraio 1992 era domenica. Turoldo celebrò la sua ultima messa nella cappella dell’ospedale San Pio X di Milano. Si congedò dai suoi amici dicendo: «La vita non finisce mai». La mattina del giovedì seguente “visse la sua Pasqua”. Più di tremila persone sfilarono accanto alla sua bara. C’era molta gente “importante” alla quale egli non aveva negato amicizia (ma non senza additare loro la severità della parola di Dio), ma moltissimi erano i poveri, che non avevano certamente compreso a fondo il linguaggio poetico di Davide ma avevano capito con certezza che egli era sempre stato dei loro.
Che resta di lui? In questi giorni, voglio ricordare soprattutto un episodio. Dopo la Liberazione, Milano conobbe una primavera di feste come non se ne sono viste più, ma il resistente Turoldo non vi partecipò: continuava a pensare ai lontani, quelli portati via dai nazisti, imprigionati in campi di concentramento o, peggio, in quei luoghi di sventura dei quali si cominciavano a scoprire le orrende dimensioni. No, la guerra non era ancora finita se centinaia di migliaia di persone erano sperdute al freddo, alla fame, mentre gli eserciti vittoriosi, inseguendo il nemico in fuga, non si fermavano ad assisterle. P. Davide mobilitò allora la Terra ma soprattutto, ne sono convinto, il Cielo. In pochi giorni, pregando ma anche gridando minacciosamente (era un nonviolento, ma la gente che non lo sapeva vedeva invece le sue enormi mani e le sue braccia gigantesche), improvvisò una colonna di camion, raccolse viveri, trovò coraggiosi che lo accompagnassero e partì. È impossibile a chi non ha conosciuto quei tempi comprendere cosa volesse dire, allora, trovare degli autocarri, del carburante, dei generi alimentari e dei volontari disposti a lasciare le loro famiglie per attraversare un’Europa ancora in preda ai colpi di coda della mostruosa Bestia della violenza. Turoldo ci riuscì.
L’impresa di Davide e dei suoi amici fu una straziante Odissea per un continente distrutto e insanguinato, mentre già gli statisti vincitori cominciavano a valutare la convenienza di una nuova guerra. Trovò uomini così schiacciati dagli orrori subìti da non riuscire più a credere di essere tornati liberi. Misurò nelle masse disperate dei vinti e nella superbia dei vittoriosi a quali disumanità può portare la negazione della dignità umana. Penso che oggi ci domanderebbe cosa stiamo facendo perché la dignità dei poveri non sia schiacciata dai pesi che gli “esperti” impongono loro per medicare il malconcio sistema del profitto, così come hanno sempre fatto i professionisti della realpolitik ogni volta che è entrato in crisi il sistema del potere.
* Giornalista, scrittore, fondatore della Rete Radié Resch. Il suo ultimo libro è “L’arcivescovo deve morire. Oscar Romero e il suo popolo”, (Il Margine, Trento, 2011; v. Adista 24/11)