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domenica 11 settembre 2011

da Il Fatto Quotidiano

Mondo | di Roberto Festa

Usa, gli attivisti accusano:

“Limiti ai diritti civili dopo l’11 settembre”

Tra gli effetti dell'attacco alle Torri Gemelle ci sono state le detenzioni dei presunti terroristi nelle prigioni di Guantanamo e di Bagram, in Afghanistan. Ma, con provvedimenti come il Patriot Act, anche "l’intero quadro delle libertà dei cittadini è stato sovvertito”, dice Webster Tarpley, presidente del Washington Grove Institute

Se chiedete a Sara Flounders, una militante pacifista di New York, che effetti ha avuto l’11 settembre sulla sua vita – e su quella dei suoi compagni – la lista delle recriminazioni è lunga: intercettazioni telefoniche, perquisizioni di case e uffici, demonizzazione del dissenso. Se poi lo sguardo si leva dal ristretto gruppo di militanti, il panorama appare ancora più desolante (e ormai noto): detenzioni senza diritto alla difesa a Guantanamo, a Bagram, nelle tante carceri segrete della Cia in giro per il mondo, tortura dei prigionieri, extraordinary renditions, infiltrazioni di polizia e Fbi nelle comunità musulmane (ancora la settimana scorsa Associated Press ha rivelato che agenti di New York, in collaborazione con la Cia, hanno monitorato incontri e frequentatori di diverse moschee).

“Dopo l’11 settembre 2001, pensai che le nostre libertà non sarebbero state limitate. Purtroppo, non è andata così”, dice Loretta Valtz Mannucci, americanista. “Quel poco di democrazia limitata, che esisteva negli Stati Uniti prima dell’11 settembre, è evaporata a una velocità allarmante”, le fa eco una studiosa e attivista dei diritti umani, Naomi Archer. “Non sappiamo che cosa stia esattamente succedendo”, aggiunge Alex Vitale, professore di sociologia al Brooklyn College e consulente dell’American Civil Liberties Union. Gran parte delle strategie di controllo e contro-terrorismo delle autorità americane restano infatti coperte dal più fitto segreto.

Se, dieci anni dopo l’11 settembre, il quadro di limitazione dei diritti civili appare ancora incompleto, su un fatto molti analisti e attivisti paiono concordare. Come gli Alien e Sedition Acts del 1798, come i Palmer raids del 1920, come i campi per nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale e le persecuzioni in tempi di maccartismo, anche l’11 settembre verrà ricordato come un’età di involuzione autoritaria della società americana. “E il simbolo di questa era resterà il Patriot Act, la legge antiterrorismo votata dopo gli attacchi”, dice David Cole, che insegna diritto costituzionale alla Georgetown University. “Un pezzo di legislazione di 342 pagine, che ha dato al governo americano formidabili poteri di investigazione e di indagine”.

Il Patriot Act, che l’amministrazione Obama ha in queste settimane ri-autorizzato, fu approvato nell’ottobre 2001 dalla stragrande maggioranza di deputati e senatori pressati dal terrore e dall’indignazione di un intero Paese (un solo senatore, Russ Feingold, votò contro, spiegando che la legge avrebbe “intaccato in modo permanente la Costituzione”). Gli effetti del Patriot Act si avvertono ancora oggi. Il governo può per esempio spiare i cittadini americani – i loro conti bancari, le loro letture, i loro viaggi e acquisti – al di fuori di un adeguato controllo giudiziario. Polizia e Fbi non sono nemmeno costretti a dimostrare che lo spiato sia oggetto di un qualsiasi tipo di indagine terroristica. Un discorso simile vale per gruppi ed enti di beneficenza americani. Il governo può oggi chiudere questi enti sulla base esclusiva di prove segrete, che non vengono mostrate agli avvocati difensori, ma soltanto alle corti nell’ambito di sedute riservate.

“Ma il vero salto di qualità, dopo l’11 settembre, riguarda i nostri rapporti con il mondo esterno”, aggiunge David Cole. Immediatamente dopo l’attacco a Due Torri e Pentagono, più di mille uomini, spesso di origine asiatica e mediorientale, sparirono nelle carceri americane. Molti ci restarono mesi, anche anni, senza che nessuna accusa venisse formalizzata contro di loro, spesso per reati amministrativi che un tempo venivano puniti con una semplice multa. Oggi, proprio grazie al Patriot Act, il governo ha esteso a dismisura il suo potere di arrestare o deportare i cittadini stranieri. La legge prevede la possibilità di escludere dal suolo americano chiunque abbia offerto aiuto a gruppi definiti terroristici (per “aiuto” si intende anche quello fornito non-volontariamente. Offrire dell’acqua a presunti gruppi della guerriglia in Sudamerica, sotto minaccia armata, è considerato condizione sufficiente per la deportazione).

La nuova legislazione ha spazzato via mezzo secolo di giurisprudenza. Sino al periodo precedente all’11 settembre, la mera affiliazione a un’organizzazione sovversiva non poteva essere considerato un crimine. Di più. Proclamare, in astratto, a parole, la distruzione del governo americano era un’attività protetta dal Primo Emendamento. “L’intero quadro delle nostre libertà civili è stato però sovvertito”, ci dice al telefono da Washington Webster Tarpley, presidente del Washington Grove Institute. “Sono stati dieci anni terribili. E gli emblemi di quanto successo restano tutti in piedi”. Il carcere di Guantanamo, nonostante i ripetuti tentativi di chiusura da parte di Barack Obama, resta operante. Bagram, in Afghanistan, è il centro di raccolta dei nuovi prigionieri – dallo stesso Afghanistan, dal Pakistan, dall’Iraq, dallo Yemen – e non ammette al suo interno gli avvocati. Continuano a funzionare le commissioni militari istituite da George Bush per giudicare Khalid Sheick Mohammed e gli altri presunti terroristi dell’11 settembre.

La lista delle violazioni delle libertà – almeno dal punto di vista degli attivisti dei diritti civili – potrebbe essere ancora lunga. L’espressione forse più azzeccata di quanto successo in questi anni è però venuta – paradossalmente – proprio da John Ashcroft, che come ministro della Giustizia di George W. Bush presiedette al Patriot Act. “L’11 settembre impone un nuovo paradigma – disse Ashcroft -. Prevenire gli atti terroristici è diventato più importante che punire i crimini dopo i fatti”. La macchina giudiziaria messa in piedi in questi anni ha cercato di fare esattamente questo: anticipare i fatti, punire ciò che ancora non è successo. Come magistralmente anticipato da Philip Dick in The Minority Report, pensieri, idee, parole sono divenuti spesso i nuovi target. E sono saliti sul banco degli imputati.

da Il Fatto Quotidiano

Mondo | di Roberto Festa

Un libro per bambini sull’11 settembre
È polemica sui “musulmani estremisti”

Il testo è la dimostrazione di come, a distanza di dieci anni dall'attentato alle Torri gemelli, l'integrazione dell'Islam negli Usa resta ancora molto difficile tra diffidenza e paura

Un libro per bambini, di quelli da colorare. Un titolo poetico: Il libro della libertà dei bambini. Eppure il volume della Really Big Coloring Books, una casa editrice del Missouri, sta sollevando un fiume di critiche e commenti. “E’ disgustoso”, dice Dawud Walid del Council on American-Islamic Relations. “E’ un lavoro che vuole educare e non offendere”, gli risponde Wayne Bell, direttore della Coloring Books. Il tema del contendere è il modo in cui il libro – che racconta la storia delle Due Torri e l’uccisione di Osama bin-Laden – rappresenta i musulmani. La frase “estremisti radicali musulmani” è usata per ben 10 volte. E bin-Laden è disegnato nel momento in cui sta per essere ucciso dalle truppe speciali USA. Si nasconde dietro una donna, che indossa il velo islamico.

Dieci anni dopo l’11 settembre, il tema dei rapporti tra Islam e Stati Uniti continua a creare tensione e imbarazzi. Un sondaggio del Washington Post spiega che il 31% degli americani crede che l’Islam più istituzionale “incoraggi la violenza”. Da parte loro, i musulmani americani non nascondono un forte disagio. Il 55% (secondo una ricerca del Pew Research Center) pensa di essere ancora oggetto di pressioni e discriminazioni: controlli agli aeroporti, diffidenza a scuola e nei luoghi di lavoro, vandalismi contro moschee e centri di cultura islamica. I tentativi di raffreddare i toni si susseguono, da entrambe le parti. La Casa Bianca ha invitato il boxeur, inglese e musulmano, Amir Khan, alla sua celebrazione ufficiale dell’11 settembre. Lo sportivo, che da due anni risiede negli Stati Uniti, è continuamente bloccato e interrogato prima di prendere un aereo. E i musulmani USA, per ricordare la tragedia, hanno organizzato la campagna “Muslims for Life”, che prevede di raccogliere sangue, donato dagli stessi musulmani, in modo da salvare almeno 10 mila vite.

“Da dieci anni non riesco a liberarmi da un senso di disagio. Quasi fossi fuori posto”. Ce lo racconta Butheina Hamed, figlia di immigrati siriani emigrati negli Stati Uniti negli anni Settanta. Butheina, che oggi vive a Emerson, New Jersey, aveva undici anni nel 2001. Ricorda il giorno della tragedia. “Ero a scuola, in classe. Qualcuno entrò, disse che c’era stato un grande attentato a New York. Pregai perché gli autori non fossero musulmani”. Oggi Butheina non indossa il velo islamico. E’ stata una decisione presa dopo mesi di discussioni, in famiglia, soprattutto con la sorella più piccola, Zanubya (che ancora lo porta). “Ma per anni mi sono coperta anch’io il capo. Mia madre non voleva, temeva che nel tragitto da scuola a casa qualcuno mi aggredisse, e facesse del male”. Butheina sta per laurearsi in lingue romanze a Rutgers University. “Con i compagni va bene – dice -. Ma io porto dietro il bisogno di giustificarmi, di sottolineare ogni volta che bin-Laden non è il mio leader, che i miei valori sono quelli di tutti gli americani”.

L’equazione Islam/opposizione ai valori dell’Occidente è stata in questi anni nutrita dai politici della destra repubblicana. Un referendum passato in Oklahoma lo scorso 2 novembre, promosso dall’avvocato e deputato repubblicano Rex Duncan, ha bandito la legge islamica dalle corti dello stato. Nessun musulmano, in Oklahoma o in altre parti degli Stati Uniti, aveva però mai chiesto l’imposizione della legge islamica; e nessun tribunale aveva riconosciuto la precedenza della legge islamica sulla Costituzione. L’ascesa del Tea Party ha ulteriormente inasprito la situazione. Alle scorse elezioni di midterm, Sharron Angle, favorita del Tea Party, ha annunciato che l’Islam aveva ormai issato le sue bandiere su due città del Michigan e del Texas. Il sentimento anti-musulmano ha però probabilmente raggiunto il suo apice con le udienze della Commissione per la sicurezza nazionale della Camera americana, presieduta da un altro repubblicano, Peter King, che ha indagato su “fisionomia ed estensione del radicalismo islamico” (e molti hanno rievocato il fantasma della commissione McCarthy sulle attività anti-americane).

“Ci sono stati momenti in cui ho pensato di andarmene. Soprattutto quando il reverendo Jones ha organizzato il suo ‘falò del Corano’”. Ali (che preferisce non dare il cognome) ha 27 anni, lavora per una società di spedizioni del Michigan. Non se ne è andato “perché non ho un altro posto dove andare. Non mi va nemmeno di tornare in Marocco, da dove arrivano i miei nonni”. Ammette che, soprattutto tra le sue amicizie di adolescente, “esisteva un sentimento di simpatia per le azioni di bin-Laden. Non ci rendevamo esattamente conto di quello che aveva fatto. Penso che c’entrasse la nostra frustrazione di figli di immigrati. Poi, crescendo, ci siamo accorti che dietro bin-Laden non c’era alcun disegno divino, e nemmeno possibilità di successo”. La rabbia di Ali è rimasta, e riemerge quando lui, suo padre, i suoi fratelli passano i controlli all’aeroporto. “Ogni volta, decine di domande. Ogni volta, controlli incrociati. Ogni volta, interrogatori separati rispetto a quelli degli altri passeggeri”.

A fine agosto la polizia di New York ha dovuto ammettere di aver assegnato poliziotti in borghese per spiare e raccogliere informazioni nei caffè, librerie, centri di ritrovo della comunità musulmana (attività condotta in collaborazione con la CIA). Lo sdegno di molti musulmani è stato riassunto da Abdul Alim Musa, Iman di Washington, secondo cui “i musulmani d’America vivono in uno stato di paura; paura nelle loro case, paura di andare a lavorare, paura persino di recarsi a pregare”. “Ma anche i nostri leader non hanno fatto sentire abbastanza la loro voce. Non basta la condanna del terrorismo, la distinzione tra Islam e terroristi”. Ce lo spiega Lena Shakir, 23 anni, figlia di libanesi. Lena rifiuta una concezione puramente “difensiva” dei musulmani d’America. “E’ giusto difendere i nostri diritti civili – spiega -. Ma vorrei anche i musulmani d’America non restassero ai margini, e trovassero una loro identità, un ruolo attivo nella società. Come le altre comunità americane”. Lena ha abbandonato il college a 20 anni. Lo riprende in queste settimane, e spera di laurearsi in business. “E’ il regalo che mi faccio. Un modo, anche, per lasciarmi dietro questi dieci brutti anni. Anzi, sai una cosa? Penso che non seguirò le celebrazioni del decennale. Nemmeno in televisione”.


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