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martedì 27 dicembre 2011

La fede cieca ed incondizionate nel Dio Mercato

Per decenni il sistema di potere creato dalla borghesia capitalista ha predicato nel mondo, a partire dal secondo dopoguerra, quella che si potrebbe qualificare come la religione più diffusa e vincente di ogni tempo e luogo, la fede cieca e incondizionata nel Dio mercato e nel totem della finanza, il culto idiota e mondano del denaro e del successo, il feticismo della merce e del profitto, la morale utilitaristica dell’avere e dell’apparire ad ogni costo in luogo dell’essere, sacrificando e calpestando tutto e tutti.
Azzardo alcune riflessioni preliminari di ordine filosofico ed esistenziale, quindi politico. Il re è nudo, si potrebbe osare. La realtà, che supera puntualmente ogni immaginazione, ispira e suggerisce un’elaborazione critica di straordinaria attualità storica.
Il corollario finale è stato l’avvento di una sottocultura di massa improntata al consumismo più esasperato, acritico ed alienante, all’edonismo ebete, individualista e conformista, quella che nell’età contemporanea è l’ideologia più ottusa e onnipotente, una mentalità autoritaria e pervasiva, più feroce e persuasiva rispetto a qualsiasi tipo di assolutismo e totalitarismo che si sia mai conosciuto nella storia millenaria dell’umanità.
Negli ultimi cinquant’anni, alle popolazioni del mondo occidentale è stato imposto uno stile di vita ultraconsumista: ci hanno bombardato il cervello per convincerci che bisognava lavorare e produrre al massimo per guadagnare e consumare il più possibile con il risultato che gli individui sono in gran parte stressati, assai insoddisfatti e infelici.
Pertanto, si potrebbe dedurre che la scelta più saggia sia quella di moderarsi in modo da lavorare il meno possibile e, di conseguenza, avvelenarsi il meno possibile, sentirsi meno stressati e puntare ad arricchirsi, non tanto sul versante strettamente materiale, quanto a livello umano, ossia affettivo e spirituale. In altri termini si può scegliere di condurre uno stile di vita più sobrio sul piano dei consumi in modo da permettersi un’esistenza più emancipata dal bisogno, ovvero più libera dallo stress e dalle tossine della vita moderna.
Certo, se un individuo non si accontenta di un cellulare, ma ne vuole due di ultima generazione, se invece di un’auto per ogni famiglia si avverte il “bisogno” di un’auto a persona, se si desidera la villa in campagna e l’appartamento al mare, insomma si inseguono ossessivamente le mode consumistiche, si moltiplicano i falsi bisogni indotti dal mercato, è inevitabile che non basta uno stipendio, è inevitabile essere assoggettati ad un “benessere” fittizio, essere succubi del bisogno e del lavoro, infelici e stressati.
Sia chiaro che tale ragionamento non inneggia alla filosofia, oggi in voga, della cosiddetta “decrescita”, né corrisponde ad una visione “pauperistica” o “francescana” del mondo, ma si limita a suggerire un’ipotesi che è tanto necessaria quanto realistica e praticabile, un’attitudine pragmatica che potrebbe rivelarsi utile per affrontare le gravi difficoltà legate all’attuale fase di austerità e di recessione dell’economia capitalista.
Bisogna rendersi conto che la decrescita è già presente oggettivamente nella realtà dei fatti, sia in Italia che altrove, nel senso che il tasso di crescita economica del nostro Paese è in costante diminuzione da quasi mezzo secolo, a partire esattamente dal “boom economico” degli anni ‘60. Occorre prendere onestamente atto che la decrescita o, meglio ancora, il sottosviluppo e la miseria, sono le conseguenze di un sistema di distribuzione iniqua, irrazionale e distorta delle ricchezze sociali, sono il risultato delle contraddizioni strutturali insite nel funzionamento del modo di produzione capitalistico.
Tornando al tema precedente, è ovvio che il discorso non vale in termini assoluti bensì relativi, per cui sono esclusi, ad esempio, coloro che versano in condizioni di estrema (o relativa) povertà o chi vive in realtà metropolitane in cui il costo della vita è altissimo e si è costretti a spendere oltre la metà dello stipendio per pagare l’affitto mensile. In questi casi temo che la filosofia “stoica” o la morale “francescana” servano a ben poco.
E’ chiaro che la condizione proletaria non va idealizzata, bisogna battersi per l’abolizione del proletariato in quanto classe, e la sobrietà intesa come stile di vita, saggezza o moderazione, non va vissuta “stoicamente” ma come necessità contingente. Stiamo attraversando una fase in cui dobbiamo misurarci con le condizioni storicamente determinate, senza cedere alle mode consumistiche, né ad uno stile di vita francescano.
E’ altresì evidente che lo sfruttamento e la violenza di classe non possono durare a lungo senza essere accettati dagli sfruttati. A questo compito era deputata in passato la religione. Ma oggi questo strumento di convincimento è vecchio e superato, inadatto allo scopo nell’epoca dell’economia di mercato. Una nuova forma di condizionamento e debilitazione morale è intervenuta: dall’idolatria trascendente all’idolatria delle merci.
Le osservazioni esposte finora servono ad introdurre un ragionamento sul concetto di “proletariato” e sul significato (non solo simbolico) che assume oggi un vocabolo che per molti ha un sapore anacronistico e veterocomunista, di stampo addirittura ottocentesco. E’ noto che i proletari sono coloro che possiedono esclusivamente la prole, ossia i figli. Il termine indicava in origine una classe di lavoratori il cui ruolo, nel modo di produzione capitalistico, è di prestare la forza lavoro in cambio di un salario, ma nel corso del tempo il significato si è modificato, adeguandosi alle nuove circostanze storico-sociali.
Se in passato il termine designava specificamente una classe di operai che hanno come sola ricchezza la prole, in seguito il senso letterale si è aggiornato ed è stato sostituito da un’accezione più ampia che comprende la totalità dei salariati, inclusi i lavoratori intellettuali ridotti in uno stato di precarietà e che percepiscono un salario miserabile.
E’ altresì indubbio che negli ultimi cinquant’anni il proletariato che vive nei Paesi sviluppati del mondo occidentale, si è imborghesito, in particolare sotto il profilo mentale e culturale. Nel contempo conviene ragionare sul fatto che l’attuale crisi recessiva sta producendo effetti di proletarizzazione dei ceti intermedi, un tempo agiati e benestanti, ed immiserisce in modo doloroso le classi operaie degli Stati occidentali.
Non serve rammentare che un numero crescente di famiglie italiane (ma il discorso vale a maggior ragione per greci, irlandesi, portoghesi e via discorrendo) non riesce ad arrivare alla fine del mese, se non proprio alla terza settimana, quando tutto va bene.
Aggiungo una chiosa finale per chiarire che l’esperienza storica pregressa dovrebbe insegnarci che un rovesciamento radicale dell’ordine economico e sociale senza una corrispondente rivoluzione intellettuale in un senso antiautoritario, senza un processo di affrancamento culturale delle singole persone, non ha molto senso e rischia di rivelarsi fallimentare in quanto non produce un’effettiva emancipazione degli individui, come è accaduto nel caso delle rivoluzioni politiche e sociali compiute finora dal genere umano.
In sostanza, la trasformazione dell’esistenza si compie attraverso processi rivoluzionari paralleli che investono l’assetto della sociètà nel suo insieme e la formazione etica, civile, psicologica e spirituale delle persone, che altrimenti rischiano di sottostare ad una nuova forma di oppressione che non è solo politica e materiale, ma altresì culturale.

lunedì 26 dicembre 2011

“Vent’anni dopo il messaggio
di Don Peppe è ancora attuale”

La parrocchia di Casal di Principe ha deciso di distribuire il documento vergato da Don Diana nel Natale 1991 in cui tuonava contro la politica e le collusioni con la Camorra. Quel testo fu fra le cause della sua uccisione nel marzo 1994

A Natale di vent’anni fa, don Giuseppe Diana pubblicava il documento: “Per amore del mio popolo”. La curia di Casal di Principe lo distribuirà il 25 dicembre prossimo al popolo dei fedeli proprio come quel Natale del 1991. Lo farà per riannodare il filo della memoria con un martire della Chiesa, ma anche per indicare una via d’uscita a quanti ancora oggi sono imbrigliati nella rete dell’illegalità e della violenza. Quel documento, che è di un’attualità straordinaria, fu una delle cause della uccisione di don Diana per mano della Camorra, avvenuta il 19 marzo del 1994. Il parroco della chiesa di San Nicola di Bari di Casal di Principe tuonava contro la politica e le sue collusioni con la camorra. Puntava il dito contro la sua chiesa che non parlava con voce chiara. Denunciava la presenza di un’imprenditoria collusa e corrotta. Ma lo faceva quasi in solitudine, in un clima di violenza diffusa che ha prodotto decine e decine di morti. Don Peppino credeva nella “forza della parola”. La usava per spiegare, convincere e disarmare i giovani che erano affascinati dalla violenza camorristica. Alzava la voce per difendere la parte più debole del suo popolo. L’amore per la sua gente e la sofferenza di tante famiglie lo aveva spinto ad uscire dalla sagrestia per cercare di impedire a tanti giovani di percorrere i sentieri che portavano direttamente alla morte. E per questo era diventato il simbolo del riscatto della propria terra. Non glielo hanno perdonato. Ha pagato con la vita il coraggio di ribellarsi.

“La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Scriveva don Diana in quel documento del 1991. Fotografava la vita nelle contrade del suo territorio con una chiarezza unica: “I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”. Conosceva fin troppo bene la sofferenza di tante mamme che temevano di vedere distrutte le vite dei propri figli. Perciò scriveva: “Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra”. Era consapevole che la Chiesa deve svolgere un ruolo di primo piano nel costruire la speranza. Perciò parlò con le parole dei Profeti. Utilizzò le parole di Ezechiele per richiamare la denuncia. Le parole di Isaia per guardare avanti. Le parole di Geremia per richiamare la Giustizia sociale” e la “Genesi” per vivere nella solidarietà.

La politica la metteva sul banco degli accusati: “E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale”. Si appellò soprattutto ai suoi confratelli, ai Cristiani, al popolo di Dio, per aprire un varco nei clan della camorra che nel 1991 apparivano, nonostante le divisioni, come un unico monolite di violenza. Si appellò soprattutto al Popolo di Dio e ai sacerdoti:

“Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. (…) Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

E’ stato ucciso per quello che ha scritto. Ma il suo sangue è stato il seme che ha dato buoni frutti. Ora, il territorio che in tanti conoscevano come il regno della camorra, sta cambiando pelle grazie anche al suo martirio e sta cambiando anche nome: Casal di Principe non è il paese di Sandokan, ma è il paese di don Peppino Diana.


Alle 7.30 del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, don Giuseppe Diana viene assassinato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre si accingeva a celebrare la Santa Messa. Due killer lo affrontano con una pistola calibro 7.65. I quattro proiettili vanno tutti a segno, due alla testa, uno in faccia e uno alla mano, Don Peppe muore all'istante.

L'omicidio, di puro stampo camorristico, fece scalpore in tutta Italia. Un messaggio di cordoglio venne pronunciato anche da Giovanni Paolo II durante l'Angelus.

Don Peppe visse negli anni del dominio assoluto della camorra casalese, legata principalmente al boss Francesco Schiavone detto Sandokan. Gli uomini del clan controllavano non solo i traffici illeciti, ma si erano infiltrati negli enti locali e gestivano fette rilevanti di economia legale, tanto da diventare "camorra imprenditrice". Il barbaro omicidio, dicono gli atti processuali, maturò in un momento di crisi della camorra casalese. In questo periodo, una fazione del clan ordinò l'omicidio di don Peppe, personaggio molto esposto sul fronte antimafia, per far intervenire la repressione dello Stato contro la banda che ormai aveva vinto la guerra per il controllo del territorio. Il suo impegno civile e religioso contro la camorra ha lasciato un profondo segno nella società campana. Il suo scritto più noto è la lettera Per amore del mio popolo non tacerò, un documento diffuso a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana insieme ai parroci della foranìa di Casal di Principe, un manifesto dell'impegno contro il sistema criminale, che probabilmente decretò la sua condanna a morte. Ecco il testo:

“ PER AMORE DEL MIO POPOLO NON TACERÒ ”

Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

La Camorra

La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

Precise responsabilità politiche

E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Impegno dei cristiani

Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti.
- Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16-18);
- Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);
- Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18-23);
- Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5)
Coscienti che “il nostro aiuto è nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore anticipatorio della Preghiera che è la fonte della nostra Speranza.

NON UNA CONCLUSIONE: MA UN INIZIO

Appello

Le nostre “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”
Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa;
Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.
Forania di Casal di Principe (Parrocchie: San Nicola di Bari, S.S. Salvatore, Spirito Santo - Casal di Principe; Santa Croce e M.S.S. Annunziata - San Cipriano d’Aversa; Santa Croce – Casapesenna; M. S.S. Assunta - Villa Literno; M.S.S. Assunta - Villa di Briano; SANTUARIO DI M.SS. DI BRIANO ).


domenica 25 dicembre 2011

NATALE PAGANO
Il Natale non fa tutti più buoni: fa tutti più vuoti. Il cristiano che fa shopping di regali e strenne natalizie rappresenta un caso di sdoppiamento della personalità: in tutta buona fede crede che Gesù nacque figlio di Dio a Betlemme, segnando in una stalla lo spartiacque decisivo della storia umana; contemporaneamente, è perfettamente cosciente che tale evento non condiziona la sua vita reale, in quanto l’epoca moderna, disincantata e secolarizzata, è scristianizzata. Siccome l’economia tende a inglobare ogni forma di espressione umana, quegli appuntamenti che nonostante tutto mantengono in vita una sia pur debole fiammella di fede ultraterrena si trasformano in orge di bancomat e scontrini. Babbo Natale e l’albero dei doni, americanizzazioni di antichi miti pagani europei, vincono sul Bambinello e sulla Vergine, perché più adatti a innescare la corsa agli acquisti commerciali.

Questo lo sa benissimo anche il devoto che va alla messa notturna del 25 dicembre, e lo accetta di buon grado. Per quieto vivere, perché così fanno gli altri, per abitudine. Ma soprattutto perché, dopo due secoli di sistematica estirpazione del sacro dall’esistenza quotidiana, non riesce a percepire il divino. E lo sostituisce malamente con una fedeltà a riti di massa che non sono morti solo perché una parvenza di tradizione spirituale serve ad appagare il bisogno innato di trascendenza e di comunità. E’ la sensazione di una notte, sia chiaro. Per il resto c’è la carta di credito.

Eppure quel bisogno preme, non si dà pace, è insoddisfatto. Non è umanamente sostenibile una religiosità circoscritta a qualche giornata di contrizione ipocrita, o, bene che vada, alla particola domenicale. E’ nelle difficoltà di ogni giorno che al comune ateo travestito da credente manca la forza rassicurante e rigenerante del divino, del numinoso. L’aura sacra che un tempo avvolgeva ogni momento del nostro passaggio sulla terra si è eclissata, scacciata con ignominia dalla spasmodica ricerca di ritrovare in tutto una causa dimostrabile.

La morte di Dio ci ha lasciati soli con una tecnica scientifica che ha razionalizzato la natura mortificandola, e con una logica economica che va per conto suo, incontrollata e disanimata, rubandoci la libertà di cambiare il corso della storia. Siamo soli col denaro, vero nostro Signore. Dice bene Sergio Sermonti, scienziato anti-scientista – un apparente ossimoro che gli è costato l’ostracismo pubblico: «Come insegnava Goethe, non dovremmo chiederci il perché ma il come delle cose. Nel chiedere il perché c’è un tacito presupposto che dietro ogni cosa ci sia un’intenzione, un proposito (appunto, un “perché”) e quindi che ogni cosa sia scomposta o scomponibile in fini e strumenti, o mezzi di produzione, come un’azienda umana. Sotto tutto questo c’è una sottile mentalità ottimistica, economicistica, produttivistica. No. Il mondo opera su un’altra dimensione, galleggia nell’eterno, è sospeso nell’infinito, ed è per l’appunto questo spostarci nelle sue dimensioni incantate il più raffinato e prezioso risultato della conoscenza, e non, al contrario, quello di rovesciare il mondo ai nostri piedi» (“L’anima scientifica”, La Finestra, Trento, 2003).

Per recuperare il senso del divino, il cristianesimo ormai serve a poco. E’ troppo compromesso con la modernizzazione, essendosene spesso lasciato usare come puntello e bandiera. Le Chiese sopravvivono nell’acquiescenza allo stile di vita radicalmente anticristiano dell’uomo consumato dai consumi. In particolare i Papi, incluso l’ultimo, il tradizionalista Ratzinger, si sono arresi a Mammona, e non c’è un prete a pagarlo oro che si scagli contro i moderni mercanti nel tempio: preferiscono i facili anatemi sulle unioni omosessuali e le comode prediche sulla fame in Africa. Il cristiano ha dimenticato il pauperismo di San Francesco d’Assisi, ha rinnegato l’umanesimo dei pontefici rinascimentali, ha sepolto l’antimodernismo del Sillabo, con Lutero e Calvino è stato all’origine stessa dell’etica capitalistica. Si è adattato al materialismo con il Concilio Vaticano II e allo showbusiness con Giovanni Paolo II: rinunciando alla lotta contro il mondo, non costituisce nessuna minaccia per il MacWorld. Anzi gli fa da angolo cottura spirituale.

Da chi o da cosa, allora, può venire un aiuto per liberare la divinità prigioniera che scalpita dentro di noi? L’ostacolo viene dal fatto che il cosiddetto progresso, scomponendo razionalmente la natura e violentandola nell’insaziabile tentativo di piegarla, l’ha resa muta e l’ha eliminata dalla nostra esperienza quotidiana. Da un lato non ci fa più alcuna paura, la paura ancestrale che è il moto d’animo originario di qualsiasi cultura. Dall’altro l’elemento naturale, incontaminato o non del tutto antropomorfizzato (com’erano ancora le vaste campagne nell’Ottocento e nel primo Novecento) si è via via ristretto e diradato. E’ letteralmente scomparso dalla nostra vista.

Oggi la stragrande maggioranza della popolazione mondiale vive concentrata come formiche in centri urbani sovraffollati, dove il verde è rinchiuso in minuscole riserve talmente artificiose che la regola è di non calpestare le aiuole. I bambini non fanno più conoscenza con la terra perché non ne hanno più sotto casa, non s’incuriosiscono scoprendo insetti e animali perché abitano circondati dal cemento e non si sporcano nemmeno più, perché passano il tempo ipnotizzati davanti a computer, televisione e videogiochi. Nei weekend o in vacanza le famigliole si recano diligentemente al mare o in montagna, ma a parte qualche bagno o escursione, inquadrati in ferie organizzate a puntino con tutti i comfort, il contatto con le forze naturali è minimo, povero, addomesticato. Sempre insufficiente a resuscitare una risonanza interiore fra l’io individuale e il cosmo, fra il sentimento della propria limitatezza personale e il sentimento di appartenere al tutto, all’organismo della vita. E’ in questa corrispondenza che si può provare la percezione che in un orizzonte, in un albero, in un filo d’erba, in un soffio di vento, in ogni singolo nostro respiro esista un’anima, cioè un dio. Ma se non si sperimenta in sé questa immediatezza, anche il discorso più ispirato resta lettera morta, una pia intenzione romantica.

La gioia im-mediata di sentirsi partecipe di un grande Essere ci è preclusa dal sovraccarico di costruzioni mediate, razionalistiche, cervellotiche e meccaniche con cui abbiamo imparato a guardare e toccare ciò che ci circonda. Questa è la malattia che ci portiamo addosso: l’eccesso di ragionamenti che desertifica il nostro bosco profondo. L’uomo scettico e che la sa lunga ha orrore della naturalità nuda e pura, e se non può manipolarla con la sua scienza maniacale e coi suoi aggeggi tecnologici, la respinge, dipingendola come un caos di animalità bruta e senza controllo. Ma basta uno tsunami, un terremoto o l’esplosione di furia omicida (anche questa è “natura”) per rendergli la pariglia e mostrargli che Madre Terra, vilipesa e umiliata, è sempre lì, pronta a risvegliarsi.

Scegliere consapevolmente di risvegliarla non è possibile, per ora, nemmeno nel privato del proprio foro interiore. Il salto è accessibile solo a una condizione, oggi impraticabile a livello di massa: il ritorno a un sistema di vita più semplice e scandito dai ritmi naturali. Eppure, se tu che mi leggi non cominci almeno a porti il problema, l’impossibile resterà impossibile per sempre. (a.m.)
da: www.alessiomannino.blogspot.com



venerdì 23 dicembre 2011

Neocolonialismo globale

Un pezzo dell'Africa vacilla sotto i colpi della carestia e della siccità, con oltre dodici milioni di persone a rischio e, intanto, nel continente nero prosegue la svendita di terre a stati e multinazionali straniere. Una vera e propria guerra della terra, che ha per protagonisti stati come l'Arabia Saudita, gli Emirati, la Corea del Sud, la stessa Italia e non ultima la Cina. Siccità e carestia che hanno messo in ginocchio il Corno d'Africa non dipendono solamente da questioni relative al clima, ma da povertà, mal gestione dei governi, guerre, incuria della terra. Siamo in aeree del mondo dove la sicurezza alimentare dei popoli non è garantita. Gli stati africani cedono le terre agricole a società straniere. Terre che saranno destinate alla produzione di vegetali da trasformare in biocarburanti, oppure alla coltivazione di prodotti da esportare sul mercato internazionale. L'Etiopia - cominciamo da qui il viaggio nella svendita della terra, investita da una carestia senza precedenti - sta attuando una piano avviato dal 2009 che prevede per i prossimi anni la cessione di trentacinquemila chilometri quadrati di terra, una superficie più estesa dell'intera Lombardia, ad aziende straniere che potranno utilizzarle per un periodo compreso tra i cinquanta e i novantanove anni. Lo stesso ministero dell'agricoltura ha spiegato che la domanda è forte e sono 1311 le richieste ricevute, la più importante riguarda 300 mila ettari, avanzata da una società indiana. Caso emblematico, inoltre, è il progetto Gibe III una mega diga sul fiume Omo. Una costruzione a cui seguiranno canali di irrigazione che muteranno il sistema agricolo tradizionale a beneficio degli investitori stranieri. L'Unesco ha chiesto la sospensione del progetto. La Banca africana per lo sviluppo ha tolto il finanziamento al governo etiope, come ha fatto la Banca europea degli investimenti. Al loro posto sono arrivati i soldi di Pechino. Proprio la Cina che sta diversificando i suoi interessi in Africa: non solo materie prime in cambio di infrastrutture, ma oggi anche terra coltivabile per soddisfare i bisogni alimentari di Pechino. Nei prossimi cinquanta anni la Cina investirà cinque miliardi di dollari nell'agricoltura in Africa, dove ha siglato più di una trentina di accordi che prevedono l'accesso a terreni fertili in cambio di strade, sistemi di irrigazione, formazione e tecnologia. Il dragone, che conta il 40 per cento dei contadini del mondo, ha solo il 9 per cento delle terre coltivabili. Alla Cina non stanno certo a cuore le sorti delle popolazioni africane, ma l'intenzione di Pechino è quella di delocalizzare la produzione di cibo, un piano è già pronto, ma non solo. La Cina ha un problema interno da risolvere: masse di popolazione rurale che sopravvivono a stento e che possono rappresentare un fattore destabilizzante per l'intero paese. Non è fantascienza pensare che masse di contadini dagli occhi a mandorla verranno trasferiti in Africa, a scapito della manodopera locale. E già sta accadendo in Zambia, Uganda, Tanzania e Zimbabwe. E il Sud Africa non è da meno. Il gigante sudafricano, i cui prodotti agricoli già invadono i mercati dell'Africa Australe, ha recentemente avuto in concessione dieci milioni di ettari dal Congo Brazzaville per novantanove anni. Come al solito il ministero dell'agricoltura congolese ha smentito, precisando che i tratta di «un contratto di concessione di trent'anni, che riguarda le vecchie aziende agricole di stato abbandono ». La sostanza, tuttavia, non cambia. Il Congo Brazzaville è un paese con un enorme potenziale agricolo (solo il 4 per cento delle terre agricole è coltivato) non sfruttato e su cui il governo investe poco o nulla. Nel 2010 in occasione dei festeggiamenti per i cinquanta anni di indipendenza del paese sono stati spesi 35 milioni di euro, mentre la cifra del budget nazionale 2010 per il settore agricolo è stata di un decimo, ossia 3,5 milioni di euro. Perché proprio l'Africa? Fino ad ora sono state censite oltre 390 acquisizioni di larga scala di terra agricola in ottanta paesi. Solo il 37 per cento degli interventi è mirato alla produzione di cibo, mentre il 35 per cento è destinato alla produzione di agro-carburanti. Per la Banca mondiale, è nell'Africa sub-sahariana dove si concentra la maggior parte (45 per cento) della terra adatta alla coltivazione non ancora sfruttata. Da qui la caccia alla terra del continente nero. Da aggiungere, inoltre, che sulla terra, nel 2050, vivranno nove miliardi di persone. Per sfamarle tutte, secondo la Fao, sarà necessario produrre almeno il 70 per cento di cibo in più. Crescerà esponenzialmente la classe media e, dunque, ci saranno milioni di cinesi e indiani che avranno maggiori disponibilità economiche e consumeranno di più. Ciò vuol dire aumentare gli allevamenti con conseguente necessità di cereali per l'alimentazione degli animali. E dove si va? In Africa. Dove, è vero la terra non è in vendita, ma può essere "concessa" per novantanove anni. E le tariffe per la concessione variano da un dollaro all'anno per ettaro dell'Etiopia ai 13,80 dollari del Camerun. In Senegal o in Mali, nemmeno un dollaro. Insomma tutto risulta essere estremamente conveniente. Se la Cina corre, non sono da meno gli stati del Golfo Persico e l'Arabia Saudita, dove la popolazione raggiungerà i sessanta milioni di abitanti nel 2030 e le fonti d'acqua sono destinate a finire nel giro di trenta anni. Qui la produzione agricola non è più sostenibile e allora si va in Africa dove tutto è molto più conveniente. L'Arabia Saudita ha festeggiato del 2009 il suo primo raccolto di cereali e riso proprio in Etiopia. Tra i più voraci risulta essere la Corea del Sud, quarto produttore al mondo di mais, ha siglato accordi su circa 2,3 milioni di ettari. E la produzione di cibo, fa lo stesso percorso delle materie prime, emigra all'estero e serve a sfamare quella parte di mondo più fortunata, lasciando al proprio destino gli africani. Lo shopping senza regole e con contratti oscuri, rischia di non incidere sullo sviluppo dei paesi africani, non solo per quanto riguarda la sicurezza alimentare ma anche dal punto di vista dell'occupazione. Nel 2010 la Fao ha invitato i governi africani a evitare cessioni massicce di terra. Il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, ha parlato di neocolonialismo e di terza fase della globalizzazione. Gli africani di furto. E intanto lo shopping continua.di Angelo Ferrari
tratto da "Europa"

lunedì 12 dicembre 2011

L’ENERGIA CHE NON ASCOLTA. LE COMUNITÀ INDIGENE
DEL GUATEMALA IN LOTTA CONTRO L’ENEL
doc-2398. ROMA-ADISTA. «Contribuiamo con il nostro impegno ad uno sviluppo sostenibile»: così assicura, sul suo sito, l’Enel Green Power, la società del Gruppo Enel impegnata nello sviluppo e nella gestione delle attività di generazione di energia da fonti rinnovabili, presente in America Latina con 32 impianti (in Messico, Costa Rica, Guatemala, Nicaragua, Panama, El Salvador, Cile e Brasile). «La produzione diffusa di elettricità da acqua, sole, vento e calore della terra contribuisce - sottolinea l’azienda, «leader di settore a livello mondiale» - a una maggiore autonomia energetica delle nazioni e, allo stesso tempo, sostiene la salvaguardia dell’ambiente». Ma quanto sia sostenibile lo sviluppo promosso dall’Enel Green Power lo chiarisce ottimamente la vicenda della costruzione della centrale idroelettrica di Palo Viejo, nel municipio guatemalteco di San Juan Cotzal, avviata nel 2008 dall’impresa italiana in accordo con il governo del Guatemala e con le autorità municipali, ma senza informare e consultare le comunità indigene come previsto dalla legislazione nazionale e internazionale (v. Adista nn. 26 e 67/11). Nel più completo ribaltamento del suo slogan - “L’energia che ti ascolta” -, l’Enel, con il pieno supporto dell’ambasciata italiana, non solo ha respinto le richieste della comunità maya ixil, ma, denunciano gli indigeni, ha seguito la via delle intimidazioni e delle minacce, auspicando l’intervento delle autorità guatemalteche per ristabilire “lo Stato di diritto” in difesa dei propri investimenti. Dopo i momenti di drammatica tensione vissuti lo scorso 18 marzo, quando centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa avevano seminato il terrore nella comunità di San Felipe Chenlá, aveva preso il via a maggio, con la mediazione, tra gli altri, di mons. Álvaro Ramazzini, un nuovo tentativo di dialogo, che l’“Energia che ti ascolta” ha però mandato a monte, opponendo un netto rifiuto alle richieste degli indigenirelativamente al diritto di amministrare il 20% dell’energia elettrica prodotta, oltre che a un indennizzo di 8 milioni di quetzales annui nei primi vent’anni per i devastanti danni causati dall’opera. Sulla vertenza, espressione di «una nuova forma di colonizzazione e di saccheggio delle risorse naturale dei popoli indigeni» (vertenza di cui si sta occupando in Italia la “Campagna di solidarietà con le comunità Maya-Ixil del Guatemala”, coordinata da Pippo Tadolini, pippotadolini@tin.it), si è soffermato, durante la sua visita in Italia, Arnoldo Curruchich, assistente legale delle comunità ixil e socio fondatore del Consejo de las Juventudes Maya Garifuna y Xinca, in cui sono rappresentati tutti i 22 popoli indigeni del Guatemala. Adista lo ha intervistato all’indomani della sua partecipazione alla manifestazione nazionale in difesa del voto referendario e contro la svendita dei servizi pubblici locali, svoltasi a Roma il 26 novembre scorso. Di seguito l’intervista. (claudia fanti)
Ancora su "Sante patronee poveri cristi"
La Chiesa si autoesenta, sacrifici mai. Resta attaccata ai suoi privilegi, ma è prodiga di consigli sull’equità della manovra. È da agosto che l’opinione pubblica aspetta dalla Cei un segnale di disponibilità ad aiutare lo Stato a ripianare il suo debito colossale. In tempi passati i vescovi fondevano l’oro dei sacri calici per sostenere la difesa di un regno invaso. Ora che il nemico finanziario è molto più subdolo e spietato, non succede nulla. Dalla gerarchia non è giunto il più piccolo segnale di “rinuncia”. Solo la dichiarazione del Segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone, che ha affermato: “Il problema dell’Ici è un problema particolare, da studiare e approfondire”. Eppure quello che pensano gli italiani è chiarissimo. Sono contrari all’esenzione dell’Ici, sono contrari a spolpare le casse dello Stato ai danni della scuola pubblica, perché credono al principio costituzionale che chi fonda una scuola privata la paga con i propri soldi. Soprattutto gli italiani sono convinti a grande maggioranza che la Chiesa predica bene e razzola male. Vedere per credere l’indagine del professor Garelli sulla “Religione all’italiana”.

Quando si parla di soldi, la gerarchia ecclesiastica si rifugia subito nel vittimismo, accusa complotti da parte dei nemici della Chiesa, si attacca a errori di conteggio sbagliati per qualche dettaglio o di chi mette sullo stesso piano la Cei (organismo nazionale) e il Vaticano, realtà internazionale. Nessuno trascura l’aiuto sistematico che è venuto in questi anni alle fasce più povere da parrocchie, episcopato e organizzazioni come la Caritas o Sant’Egidio. Ma ora è il momento di gesti straordinari e di uno sfoltimento di privilegi come avviene in tutto il Paese. Ci sono fatti molto precisi su cui la gerarchia non ha mai dato risposta e che costituiscono privilegi inaccettabili specialmente nella drammatica situazione economica attraversata dal Paese. Ne elenchiamo alcuni, che indignano egualmente credenti e diversamente credenti.

Non limitare l’esenzione Ici agli edifici strettamente di culto è un’evasione fiscale legalizzata. L’attuale sistema di conteggio dell’ 8 per mille è truffaldino perché non tiene conto del fatto che quasi due terzi dei contribuenti – non mettendo la crocetta sulla dichiarazione delle tasse – intendono lasciare i soldi allo Stato. In Spagna, dove è stato a suo tempo copiato il sistema italiano, si conteggiano giustamente soltanto i “voti espressi”. In Germania il finanziamento alle chiese luterana e cattolica avviene con una “tassa ecclesiastica” che grava direttamente sul cittadino. Se il contribuente non vuole, si cancella.

L’attuale sistema dell’ 8 per mille è uscito fuori controllo. Doveva garantire una somma più o meno equivalente alla vecchia “congrua” data dallo Stato ai sacerdoti, ma essendo agganciata all’Irpef la somma che il bilancio statale passa alla Cei è cresciuta a dismisura. Nel 1989 la Chiesa prendeva 406 miliardi di lire all’anno, oggi il miliardo di euro che incassa equivale a quasi 2.000 miliardi di lire. Cinque volte di più! L’ 8 per mille è stato pensato (ed è approvato come principio dalla maggioranza degli italiani) per finanziare il clero in cura d’anime e l’edilizia di culto in primo luogo. Ciò nonostante la Chiesa si fa pagare ancora una volta a parte i cappellani nelle forze armate, nella polizia, negli ospedali, nelle carceri, persino nei cimiteri. Si tratta di decine di milioni di euro. Nessuno ignora quanti splendidi preti siano impegnati specialmente nelle prigioni, ma è il sistema del pagamento aggiuntivo che non è accettabile. Lo stesso vale per le decine di milioni aggiuntivi versati dallo Stato, dalle regioni e dai comuni per l’edilizia di culto, che è già coperta dall’ 8 per mille.

Per non parlare dei milioni di euro elargiti ogni anno attraverso la famigerata “Legge mancia”. Invitando a uno stile di vita più sobrio per la festa di Sant’Ambrogio in Milano, il cardinale Scola afferma che con gli anni si è stravolto il concetto di “diritti”. In un clima di benessere e “senza fare i conti con le risorse veramente disponibili si sono avanzate pretese eccessive in termini di diritti nei confronti dello Stato”. Verissimo. C’è da aggiungere che anche la Chiesa ha partecipato alla gara. Non è bastato che gli insegnanti di Religione venissero stipendiati dallo Stato, si è preteso che da personale extra-ruolo venissero anche statalizzati.

Contemporaneamente si è iniziato a mungere le casse statali per finanziare le scuole cattoliche. Altrove in Europa lo fanno, ma non c’è l’ 8 per mille. È l’ingordigia nel ricorso ai fondi statali che spaventa.
Quanto al Vaticano, i Trattati lateranensi garantiscono ad esempio un adeguato fornimento d’acqua al territorio papale. Non è prepotenza il rifiuto di contribuire allo smaltimento delle acque sporche? Costa all’Italia 4 milioni di euro l’anno. Cifra su cifra ci sono centinaia di milioni che possono essere risparmiati.
Il premier Monti può fare tre cose subito. Decretare che, come accade in Germania e altri Paesi, i finanziamenti statali vanno solo a enti che pubblicano il bilancio integrale di patrimoni e redditi: così gli italiani e lo Stato conosceranno il patrimonio delle diocesi. Limitare l’esenzione dell’Ici esclusivamente agli edifici di culto. Attivare la commissione paritetica prevista dall’art. 49 della legge istitutiva dell’ 8 per mille per rivedere la somma del gettito. Sarebbe molto europeo.

Da Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2011

7 dicembre alle ore 20.52 ·
  • Gian Paolo Marcialis Una chiesa credibile:''Un natale per i poveri'': e' il messaggio che i frati del Sacro convento di Assisi lanceranno domani dalla piazza inferiore della Basilica di San Francesco in occasione della cerimonia di accensione dell'albero di Natale e dell'inaugurazione del presepe. Tantissimi sono i pacchi dono giunti al complesso monumentale assisano che verranno consegnati alle famiglie piu' bisognose: 300 offerti da Coop centro Italia, 80 da Regione Molise, Confcommercio e benefattori molisani e altri ancora da pellegrini e cittadini che si stanno recando in Basilica.(ANSA).
    8 dicembre alle ore 8.26 ·
  • Gian Paolo Marcialis L'articolo "Sante patrone e poveri cristi" ha suscitato aspre polemiche e persino il parroco, don Corrado Melis, si è lasciato trascinare dall'impeto e durante l'omelia della messa dell'Immacolata ha lanciato strali “su chi semina zizzania”... Omelia che è stata da molti criticata come inopportuna e fuori luogo. Il problema dei senza tetto è in realtà sempre più evidente e grave, anche a Villacidro,sia a causa della crisi economica e sociale che ci sta colpendo, ma anche per dolorose situazioni personali e familiari sofferte. Fermo restando che alcune di queste persone non vogliono ricevere assistenza, meglio conosciuti come homeless, ci sono i “nuovi barboni” che sono diventati tali non per loro stretto volere. Il freddo ormai alle porte ci obbliga a cercare nuove strade per evitare nuove morti causate dalla debilitazione, dall’alcol, dalla solitudine. Anno dopo anno la raccolta di indumenti e coperte (che purtroppo spesso si ritrovano sulle bancarelle dei mercati) non riesce a tamponare il fenomeno. L’assistenza sanitaria è difficile, al pari degli extracomunitari senza permesso di soggiorno, è relegata alle organizzazioni umanitarie e caritatevoli. Sarebbe pensabile, e poco oneroso, costruire una stanza vuota, delimitata dal resto della chiesa, che abbia un accesso libero nelle chiese o nel seminario (che è vuoto per i poveracci ma ha trovato porte spalancate per ospitare -dietro lauito compenso- i ripetitori della Telecom)? Un piccolo rifugio in cui possano dormire alcune di queste persone sfortunate per vari motivi. Probabilmente non mancherebbero nemmeno del cibo e conforto da parte dei residenti della zona. Questa è una piccola idea che potrebbe essere attuata subito in modo da risolvere il problema delle morti per freddo in attesa che la chiesa paghi le tasse e sia povera come ha detto Don Gallo nel suo libro “Di sana e robusta Costituzione”.
    venerdì alle 11.06 ·
  • Sante patrone e poveri cristi



    Gianni Atzei è un villacidrese che dorme, a dicembre 2011, nel parco pubblico, su una fredda panchina, senza altri panni se non quelli che indossa durante il giorno.
    La sua è una storia difficile ma non è l’unico villacidrese a dormire sotto la volta delle stelle. Esiste nel borgo dei cedri un gruppo di persone senza tetto che sbarcano il lunario assistiti dalla Caritas e dormono dove capita: al parco, al Tiro a Segno, in un vano sotterraneo nella Piazza Seddanus.
    Di fronte a queste situazioni incredibili assistiamo a una “politica” della chiesa locale assolutamente criticabile. La chiesa, la curia, la parrocchia, il vescovado, possiedono diversi edifici dismessi (per esempio l’ex-seminario, l’edificio dell’ente Mauri). Ma che a nesuno venga in mente di mettere a disposizione una stanzuccia in questi edifici! Intanto si festeggia la patrona Santa Barbara: luci a profusione sulle pareti delle tre chiese del centro storico, messa solenne con corollario di autorità “civili e militari” (secondo la consueta retorica che il parroco non manca di sottolineare) e poi via con “su cumbidu” e, dulcis in fundo, i fuochi artificiali!
    Assistiamo con fastidio all’azione di una chiesa di potere, tutta tesa a dare “panem et circenses” al popolino e a ignorare il messaggio evangelico dell’ “ebbi fame…ebbi sete…ero ignudo…” ecc. ecc.
    Gian Paolo Marcialis
    Villacidro.info – 5 dicembre 2011