La Chiesa verso l'Italia unita
Amnesie storiche
Di Roberto Roveda
Domenica 20 marzo 2011
L e celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia stanno avendo un protagonista tutto sommato inaspettato: la Chiesa cattolica. Negli ultimi tempi, infatti, più volte le gerarchie ecclesiastiche hanno sottolineato come il Belpaese unito sia una realtà imprescindibile per la Chiesa e hanno rimarcato il ruolo dei cattolici nel processo che ha portato all'unificazione. Un tema, quest'ultimo, che è stato al centro del messaggio di papa Benedetto XVI in occasione dei festeggiamenti del 17 marzo. Il pontefice ha voluto ricordare l'apporto del pensiero e anche l'azione dei cattolici in un momento cruciale come quello risorgimentale e ha tralasciato ogni polemica legata al ruolo che la Chiesa ha giocato nel corso del Risorgimento.
Un ruolo spesso ambiguo, quando non apertamente ostile ai patrioti a ogni tentativo di costruire una nazione italiana. Certo il mondo cattolico partecipa al Risorgimento con i suoi pensatori come Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti oppure con letterati come Alessandro Manzoni. Cattolici sono molti di quei giovani che combattono per l'indipendenza e la libertà italiana. Ma vi è anche - e in modo ancora più evidente - un'avversione alla prospettiva di un Paese unito da parte del papato e di tanti ambienti dell'universo clericale. E per ragioni molto terrene e pratiche: la nascita della nazione significa la fine del millenario Stato della Chiesa e del potere temporale dei papi. Contemporaneamente i pontefici continuano a considerare l'Italia una sorta di protettorato della Chiesa e la preferiscono spezzettata tra tanti piccoli e deboli poteri.
Ripercorrendo gli eventi cruciali del Risorgimento vediamo che papa Pio IX, salito al soglio pontificio nel 1846, appoggia inizialmente i moti rivoluzionari del 1848, tanto da essere considerato una sorta di guida da chi sogna un'Italia indipendente e una. Diventa però, subito, acerrimo nemico di ogni mutamento dello status quo quando si rende conto di non poter controllare le ambizioni dei patrioti e, soprattutto, dei sovrani del Regno di Sardegna.
Nel corso del suo pontificato scomunica allora per ben tre volte re Vittorio Emanuele II di Savoia e lotta strenuamente contro le pretese di fare di Roma la capitale del Regno d'Italia. Così nel 1861 nasce l'unità che celebriamo oggi, ma sorge anche la cosiddetta “questione romana”, la controversia relativa al ruolo di Roma, sede del potere temporale del Papa e, al contempo, capitale naturale d'Italia. Controversia che si trasforma in guerra aperta nel 1870 quando i bersaglieri entrano a Roma. Da quel momento e per sessant'anni - fino alla firma del Concordato del 1929 - i pontefici rifiutano ogni accordo con lo Stato italiano, ordinano ai cattolici di non partecipare alla vita politica e si autoconfinano nei palazzi vaticani, dichiarandosi in un certo senso prigionieri degli “usurpatori” piemontesi. Certo i nostri governi dell'epoca, di stampo liberale e anticlericale, attuano spesso politiche avverse al cattolicesimo. Però, contemporaneamente, la Chiesa opera attivamente per indebolire il nascente Stato anche con l'appoggio al brigantaggio e la difesa dei diritti dei sovrani deposti con l'unità.
Insomma oggi sono di tendenza i modi zuccherosi e le amnesie storiche volontarie, i “volemose bene” declinati anche al passato perché servono agli interessi del presente. Dietro a tante manifestazioni di affetto da parte del mondo clericale verso lo Stato italiano c'è però la volontà di difendere un'alleanza nata tra i due poteri all'indomani del Concordato. Un'alleanza che fa tanto comodo alla Chiesa, soprattutto in un momento in cui il potere civile è così debole e ha tanto bisogno di appoggiarsi Oltretevere. Il prezzo di questo appoggio sono i tanti favori e i privilegi di cui gode ancora oggi la Chiesa cattolica e che danno al nostro Paese un profilo tanto poco laico e indipendente. Non a caso uno dei momenti più importanti della festa del 17 marzo è stata la messa celebrata dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, alla presenza delle più alte cariche dello Stato italiano. Difficile dire se si sia trattato di un omaggio della Chiesa all'Italia unita o un atto di deferenza delle nostre istituzioni allo storico e potente alleato. [L'Unione Sarda]
Un ruolo spesso ambiguo, quando non apertamente ostile ai patrioti a ogni tentativo di costruire una nazione italiana. Certo il mondo cattolico partecipa al Risorgimento con i suoi pensatori come Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti oppure con letterati come Alessandro Manzoni. Cattolici sono molti di quei giovani che combattono per l'indipendenza e la libertà italiana. Ma vi è anche - e in modo ancora più evidente - un'avversione alla prospettiva di un Paese unito da parte del papato e di tanti ambienti dell'universo clericale. E per ragioni molto terrene e pratiche: la nascita della nazione significa la fine del millenario Stato della Chiesa e del potere temporale dei papi. Contemporaneamente i pontefici continuano a considerare l'Italia una sorta di protettorato della Chiesa e la preferiscono spezzettata tra tanti piccoli e deboli poteri.
Ripercorrendo gli eventi cruciali del Risorgimento vediamo che papa Pio IX, salito al soglio pontificio nel 1846, appoggia inizialmente i moti rivoluzionari del 1848, tanto da essere considerato una sorta di guida da chi sogna un'Italia indipendente e una. Diventa però, subito, acerrimo nemico di ogni mutamento dello status quo quando si rende conto di non poter controllare le ambizioni dei patrioti e, soprattutto, dei sovrani del Regno di Sardegna.
Nel corso del suo pontificato scomunica allora per ben tre volte re Vittorio Emanuele II di Savoia e lotta strenuamente contro le pretese di fare di Roma la capitale del Regno d'Italia. Così nel 1861 nasce l'unità che celebriamo oggi, ma sorge anche la cosiddetta “questione romana”, la controversia relativa al ruolo di Roma, sede del potere temporale del Papa e, al contempo, capitale naturale d'Italia. Controversia che si trasforma in guerra aperta nel 1870 quando i bersaglieri entrano a Roma. Da quel momento e per sessant'anni - fino alla firma del Concordato del 1929 - i pontefici rifiutano ogni accordo con lo Stato italiano, ordinano ai cattolici di non partecipare alla vita politica e si autoconfinano nei palazzi vaticani, dichiarandosi in un certo senso prigionieri degli “usurpatori” piemontesi. Certo i nostri governi dell'epoca, di stampo liberale e anticlericale, attuano spesso politiche avverse al cattolicesimo. Però, contemporaneamente, la Chiesa opera attivamente per indebolire il nascente Stato anche con l'appoggio al brigantaggio e la difesa dei diritti dei sovrani deposti con l'unità.
Insomma oggi sono di tendenza i modi zuccherosi e le amnesie storiche volontarie, i “volemose bene” declinati anche al passato perché servono agli interessi del presente. Dietro a tante manifestazioni di affetto da parte del mondo clericale verso lo Stato italiano c'è però la volontà di difendere un'alleanza nata tra i due poteri all'indomani del Concordato. Un'alleanza che fa tanto comodo alla Chiesa, soprattutto in un momento in cui il potere civile è così debole e ha tanto bisogno di appoggiarsi Oltretevere. Il prezzo di questo appoggio sono i tanti favori e i privilegi di cui gode ancora oggi la Chiesa cattolica e che danno al nostro Paese un profilo tanto poco laico e indipendente. Non a caso uno dei momenti più importanti della festa del 17 marzo è stata la messa celebrata dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, alla presenza delle più alte cariche dello Stato italiano. Difficile dire se si sia trattato di un omaggio della Chiesa all'Italia unita o un atto di deferenza delle nostre istituzioni allo storico e potente alleato. [L'Unione Sarda]
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